Molestie, Corte d’Appello di Firenze, sentenza del 14 gennaio 2020
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del popolo italiano
La Corte di Appello di Firenze
Sezione lavoro
composta dai magistrati:
- Maria G. D’Amico Presidente
- Maria Lorena Papait Consigliera
- Roberta Santoni Rugiu Consigliera rel.
nella causa iscritta al n. 626 / 2019 RG
promossa da
M M
reclamante
Avv. Andrea Stramaccia, Lorenzo Calvani
contro
spa A e spa A I Avv. Massimo Bozzo Vanni reclamate
avente ad oggetto: reclamo ai sensi della L. 92/2012 della sentenza n. 152/2019 del Tribunale di Arezzo quale giudice del lavoro, pubblicata il 16.7.2019
all’esito della camera di consiglio dell’udienza del 14 gennaio 2020 ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Il Tribunale di Arezzo, con la sentenza reclamata, confermava l’ordinanza sommaria del 20.3.2018 con cui lo stesso ufficio aveva respinto l’impugnazione del licenziamento disciplinare del 15 settembre 2017 intimato dal datore di lavoro spa A al dipendente M M, accusato di avere molestato la giovane collega P con battute e frasi a sfondo sessuale, nonché atteggiamenti espliciti di contenuto sessuale, turbandola ed imbarazzandola. Il primo giudice considerava provate le relative condotte contestate con lettera del 7 agosto 2017, sottolineando l’oggettiva attitudine offensiva di una delle sfere più intime della personalità umana, aggravata dal grande divario di età (oltre trent’anni) fra il M e la collega (peraltro neo assunta con contratto a termine, ed alla prima esperienza lavorativa). Riteneva inoltre irrilevante che i testi intimati dal ricorrente da un lato non avessero mai assistito a tali condotte (per essere pacifico che essi non si erano mai trovati in servizio nello stesso turno con lui e la P), e dall’altro lato avessero tutti confermato che l’ambiente di lavoro era caratterizzato da un clima generalmente scherzoso fondato su reciproche battute a sfondo sessuale (poiché al contrario la vicenda in esame era caratterizzata da una condotta unilaterale e reiterata, che il ricorrente aveva inflitto ad una persona appena entrata nello stesso ambiente di lavoro, e che palesemente non gradiva né ricambiava tali attenzioni).
La contestazione disciplinare si fondava sulle dichiarazioni della P, già rese per iscritto alla direzione aziendale nel corso del rapporto e poi ribadite nella sua testimonianza, mancando qualsiasi motivo per ipotizzare l’inattendibilità della stessa dichiarante.
Il primo giudice riteneva altresì proporzionata la sanzione espulsiva, a prescindere da una espressa previsione del contratto collettivo di giusta causa riferita a molestie sessuali sul luogo di lavoro.
E quindi richiamava la relativa nozione legale (art. 26 D. Lgvo 198/2006), per escludere ogni rilievo all’eventuale intenzione scherzosa del ricorrente, il quale avrebbe comunque perseverato in un atteggiamento volgare, di esplicito contenuto sessuale, pur a fronte di una risposta di totale chiusura da parte della P.
M M reclamava la sentenza, chiedendone la riforma integrale con accoglimento dell’impugnazione del licenziamento, in tesi ai sensi dell’art. 18 comma 4 ed in ipotesi ai sensi dell’art. 18 comma 5 L. 300/70.
Ammetteva di aver pronunciato un paio di quelle battute a sfondo sessuale di cui la P lo accusava, affermando tuttavia di avere detto “tali frasi o altre di contenuto analogo con tono del tutto palesemente scherzoso, volutamente iperbolico, privo di qualsiasi effettiva malizia, concreta minaccia o violenza, ed in maniera talmente innocente che chiunque ne avrebbe percepito il carattere ludico ed innocuo” (così testualmente pag. 7 reclamo, e di nuovo a pag. 30), peraltro senza che la collega avesse mai manifestato, a lui o ad altri nell’ambiente di lavoro, di non gradire tale comportamento, o comunque avesse chiesto di interromperlo.
Negava di avere tenuto il resto delle condotte contestate e, richiamate le dichiarazioni scritte che la P aveva consegnato al Direttore dell’unità produttiva, come la sua deposizione testimoniale, ne ricavava che essa soffrisse di cd Ruminazione Mentale, “atteggiamento tipico di chi mano a mano che passa il tempo rivolge nei confronti di quanto gli è successo uno sguardo sempre più ingravescente e risentito”, finendo per attribuire alla complessiva vicenda un significato ben più grave di quella della originaria oggettiva portata.
Insomma, seppur dotati indubbia volgarità, gli scherzi che il reclamante rivolgeva alla P rappresentavano “battute innocenti di tipo spinto”, nelle quali tuttavia era palese un intento scherzoso, che nessuno avrebbe potuto fraintendere. E quindi la P poteva avere attribuito a tali battute un significato grave solo travisando le intenzioni del reclamante – equivoco peraltro plausibile trattandosi di una ragazza giovane, seria e riservata, poco incline allo scherzo, e quindi alla battuta in generale, ed a maggior ragione a quella a sfondo sessuale (così testualmente pag. 13 reclamo). Oltre che infondato, nemmeno era credibile che il reclamante avesse tentato degli approcci fisici, che peraltro avrebbero dovuto verificarsi dietro il bancone di un locale aperto al pubblico, e quindi anche in vista dei clienti (numerosi all’interno di un punto ristoro dell’autogrill nella seconda metà del mese di luglio), mentre ulteriori episodi richiamati dalla contestazione addirittura dimostravano che al contrario, in costanza della pretesa condotta di molestie, il rapporto di lavoro fra i due colleghi si sarebbe conservato sempre disinvolto e cordiale da parte di entrambi.
E ancora, il primo giudice aveva errato nel ritenere che il lavoratore fosse onerato di dimostrare la insussistenza del fatto contestato, dovendosi piuttosto applicare la regola generale che al contrario poneva l’onere della prova integralmente a carico del datore. Di conseguenza, nella ricostruzione del fatto controverso, sarebbe stato inevitabile prendere atto dell’inattendibilità della P, concludendo quindi che il datore di lavoro non aveva assolto l’onere di dimostrare la legittimità sostanziale del licenziamento, dal momento che la gran parte dei fatti contestati era rimasta indimostrata, e per il resto le uniche condotte ammesse o provate erano del tutto prive di connotati offensivi, e non erano risultate sgradite alla destinataria.
Il reclamante richiamava infine la vicenda penale che lo aveva coinvolto in seguito alle accuse della stessa P la quale, in una ulteriore progressione della stessa Ruminazione Mentale, lo aveva accusato di diverse e più gravi condotte le violenza sessuale e di stalking (art. 609 bis e art. 612 bis cpc), accuse queste ultime per le quali il PM aveva chiesto l’archiviazione per insussistenza del fatto.
Le spa A E A I si costituivano con unica memoria, chiedendo il rigetto del reclamo con conferma della sentenza reclamata, a fronte della piena prova dell’addebito disciplinare, peraltro parzialmente ammesso dallo stesso lavoratore. In tutti i casi, evidenziavano che l’accoglimento dell’impugnazione del licenziamento non poteva avvenire ai sensi del comma 4 dell’art. 18 (non ricorrendo pacificamente né l’insussistenza del fatto, né la condotta punibile con la sanzione conservativa prevista dal contratto collettivo, necessarie per condannare alla reintegra), ma tutt’al più ai sensi del comma 5.
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Vicenda controversa
Questa in sintesi la vicenda controversa, ricostruita sulla base degli atti e dei documenti:
- il reclamante M M (nato nel 1963) lavorava alle dipendenze della spa A dal maggio 1990, inquadrato al 5 livello del C.C.N.L. Turismo Pubblici Esercizi, addetto alla unità locale dell’Area di servizio B…..ovest sull’Autostrada del Sole
- il 13 luglio 2017 in quel punto di ristoro era assunta a termine anche la A. A P (nata nel 1995), inquadrata al 6 livello dello stesso C.C.N.L.
- il 29 luglio 2017, e di nuovo il 2 agosto 2017, la P segnalava per iscritto alla Direzione aziendale ripetute molestie sessuali subite dal M nel breve periodo di servizio nello stesso punto di ristoro; riferiva che egli, sfruttando la vicinanza fisica dovuta dall’essere entrambi addetti al banco del bar, avrebbe ripetutamente dichiarato il desiderio di toccarle o leccarle il seno ed i genitali, giungendo fino a compiere gesti che mimavano un contatto fisico delle mani, o dei genitali, di lui con parti intime del corpo di lei
- le stesse condotte erano contestate da A al reclamante con lettera del 7 agosto 2017
- con lettera del 15 settembre 2017 A licenziava il reclamante per giusta causa
- con decreto di citazione a giudizio depositato il 16 gennaio 2019, il PM di Arezzo imputava il reclamante del delitto di cui all’art. 660 cpc per avere molestato la parte offesa P, rivolgendosi ripetutamente a lei con frasi a sfondo sessuale, manifestando altresì in modo insistente l’intenzione di avere rapporti sessuali con lei, in più occasioni mimando la penetrazione con gesti e parole
- con ordinanza depositata il 19 luglio 2019, il GIP del Tribunale di Arezzo, preso atto dell’azione penale nel frattempo esercitata dal PM per il delitto di cui all’art. 660 cp, accoglieva la richiesta di archiviazione per gli ulteriori delitti di cui agli artt. 609 bis e 612 bis cp, dal momento che le condotte del M risultavano risalire a più di 6 mesi prima della querela della P, e quindi i delitti di violenza sessuale e stalking erano privi della condizione di procedibilità.
Il collegio concorda con il primo giudice che (nella fase sommaria come in quella di opposizione) respingeva l’impugnazione del licenziamento, ritenendo provata la giusta causa coincidente con le molestie sessuali ai danni della collega.
Nozione legale di molestia sessuale
Prima di esaminare la vicenda controversa va richiamata la nozione legale di molestie, utile anche al fine di selezionare gli aspetti di fatto rilevanti ai fini della decisione.
L’art. 26 D. Lgvo 198/2006 qualifica le molestie sessuali come “discriminazione”, identificandole con comportamenti (espressi in forma fisica, verbale o non verbale) indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità della lavoratrice destinataria e di creare nei suoi confronti un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo.
Le molestie sono quindi un comportamento del molestatore, indesiderato dalla persona che lo subisce ed oggettivamente idoneo a ledere la sua dignità.
Le molestie prescindono dalla intenzione soggettiva del molestatore, come reso palese dalla previsione testuale che equipara a tutti i fini lo scopo (intenzione soggettiva dell’autore della condotta) all’effetto (risultato oggettivo a carico del destinatario della stessa condotta).
Infatti, la condotta indesiderata del molestatore integra le molestie sessuali anche con il raggiungimento del solo effetto di violare la dignità della destinataria e di creare un clima degradante, umiliante o offensivo nei suoi confronti.
Non è quindi necessario che le molestie producano altresì l’effetto di far temere alla stessa destinataria che le espressioni verbali o non verbali possano essere seguite da effettive aggressioni fisiche a contenuto sessuale.
In altri termini, la legittimità del licenziamento per molestie sessuali presuppone che il reclamante abbia tenuto nei confronti della collega un comportamento indesiderato di natura sessuale, che ha oggettivamente provocato l’effetto lesivo della sua dignità. Non è invece richiesta anche la dimostrazione della intenzione soggettiva del molestatore di tenere un comportamento indesiderato al fine di ledere la dignità della collega.
Ciò in quanto, più in generale, il baricentro della tutela contro le discriminazioni sessuali poggia sul rilievo del contenuto oggettivo della condotta, nonché sulla percezione soggettiva della stessa da parte della vittima (“effetto”), mentre non è necessaria l’intenzione soggettiva di infliggere molestie da parte dell’autore della condotta (“scopo”).
Di conseguenza, sono irrilevanti gli argomenti difensivi del reclamante che sottolineano l’assenza di ogni sua intenzione di offendere la P, di minacciarla di una aggressione sessuale o addirittura di aggredirla fisicamente.
La giusta causa posta a base del licenziamento in esame va verificata quindi sul piano della oggettiva condotta di natura sessuale tenuta dal reclamante, in modo verbale o fisico, indesiderata da parte della destinataria ed oggettivamente idonea a ledere la sua dignità di donna e collega di lavoro (peraltro più giovane di oltre trent’anni, neo assunta a termine, priva di esperienze lavorative e di inferiore livello di inquadramento contrattuale).
Onere della prova
Secondo il primo giudice, mentre il datore di lavoro aveva dimostrato le reiterate condotte moleste ai danni della collega, il lavoratore non avrebbe a sua volta assolto l’onere di dimostrare l’insussistenza del fatto. Tale espressione (pag. 3 sentenza) sembra fare riferimento alla cd inversione, o meglio attenuazione dell’onere della prova di cui all’art. 40 D. Lgvo 198/2006, stabilita a favore della lavoratrice che agisca lamentando di avere subito sul luogo di lavoro una discriminazione sotto forma di molestie sessuali.
È vero che, in generale, secondo la giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 23286/2016), in materia di tutela contro le molestie sessuali nel rapporto di lavoro, l’equiparazione alle discriminazioni di genere di cui all’art. 26 comma 2 D. Lgvo 198/2006 si estende anche al regime probatorio presuntivo, a sua volta previsto dall’art. 40 dello stesso D. Lgvo. Nel caso trattato dalla sentenza ora citata, le agevolazioni probatorie erano infatti riconosciute a favore della lavoratrice, licenziata per un preteso motivo oggettivo, che in realtà era stata così discriminata per avere respinto le molestie sessuali da parte del datore di lavoro.
Nel caso in esame, invece, le molestie sessuali ai danni di una collega erano oggetto di contestazione disciplinare che il datore di lavoro muoveva al reclamante. Ritiene quindi il collegio che la presente vicenda possa essere decisa in applicazione dell’ordinario onere della prova in materia di licenziamento disciplinare, per legge interamente a carico del datore di lavoro.
Prova della condotta contestata e proporzione della sanzione espulsiva
Premesse le nozioni sostanziali di molestie, e le regole processuali sull’onere della prova, il collegio concorda con il primo giudice sul fatto che nel caso in esame il datore di lavoro abbia assolto in modo pieno l’onere della prova sulla giusta causa di licenziamento.
Le prove orali e documentali hanno infatti dimostrato che il reclamante aveva molestato sessualmente la collega P nelle poche settimane fra il suo ingresso nella medesima unità produttiva (13.7.2017), e le due segnalazioni scritte con le quali essa aveva denunciato la vicenda alla Direzione (29.7 e 2.8.2017), e che tali condotte erano state tenute, e reiterate, nonostante fossero indesiderate da parte della destinataria, nei cui confronti avevano leso la dignità personale ed impedito il sereno svolgimento della prestazione lavorativa.
Prima di tutto, lo stesso lavoratore (pag. 6 e 30 reclamo) riconosceva di avere tenuto alcune delle molestie verbali oggetto di contestazione, ed in particolare:
- l’allusione alla possibilità di toccare il seno della collega, in termini di “ prima o poi ci metto le mani e ti faccio popi popi”, oppure “occhio che prima o poi ti faccio popi popi”
- l’allusione al contatto con il proprio membro quale gesto di autoerotismo (mentre si recava alla toilettes rivolgendosi alla collega le diceva “vado a parlare con Winnie” e, poiché la ragazza non capiva a chi si riferisse, indicando le proprie parti intime egli precisava“ ecco chi è Winnie”)
Si trattava di espressioni – che lo stesso lavoratore riconosceva simili ad altre di contenuto analogo che egli poteva avere pronunciato ripetutamente nei confronti della stessa P – oggettivamente in grado di produrre un effetto lesivo sulla dignità personale e serenità professionale, alludendo pesantemente ad un contatto fisico fra parti intime del corpo di entrambi, e nel contempo esplicitando la condizione di eccitazione sessuale suscitata nel reclamante dalla vicinanza della giovane collega nel luogo di lavoro.
Ritiene il collegio che anche il complesso delle altre condotte contestate siano provate dalla testimonianza della P, che confermava integralmente quanto a suo tempo, già nel corso del rapporto di lavoro, essa aveva segnalato per iscritto alla Direzione aziendale.
Si trattava di plurimi comportamenti con i quali il reclamante alludeva alle parti intime della collega (in un’occasione in cui ella si stava recando in bagno, le chiedeva se andasse “a sgrillettarsi”), o manifestava il proprio stato di eccitazione sessuale suscitato dal trovarsi a stretto contatto con lei, nello spazio ristretto tipico di un banco da bar, palesando altresì, a parole o con gesti espliciti, l’intenzione di ricercare un contatto fisico con il seno o con i genitali di lei (“se non la smetti mi abbasso e te la lecco tutta”).
È irrilevante che i testimoni, colleghi di lavoro di entrambi, non abbiano confermato nessuno di tali episodi, essendo pacifico che nessuno di loro avesse lavorato nei turni condivisi invece dal reclamante e dalla P.
A fronte delle due segnalazioni scritte che la lavoratrice aveva indirizzato alla direzione aziendale poche settimane dopo essere stata assunta, il fatto che la stessa non si fosse nel contempo confidata con altri addetti alla medesima unità produttiva non può certo privare di attendibilità la sua versione. In particolare, la mancata confidenza da parte della P nei confronti delle colleghe di lavoro può trovare altrimenti spiegazione nel fatto che si trattava di donne ben più mature di lei, tutte dipendenti da lungo tempo della stessa società ed in cordiali rapporti di lavoro con il reclamante.
Secondo il collegio non vi sono dubbi nemmeno sul fatto che tali molestie fossero indesiderate da parte della destinataria. La stessa P le denunciava subito per iscritto alla Direzione e poi ripeteva in giudizio di essersi sempre sottratta ai tentativi di contatto fisico, di non avere mai ricambiato le battute ed i gesti allusivi del collega, al quale anzi aveva ripetutamente chiesto di interrompere tale condotta, che le creava malessere ed imbarazzo.
La circostanza che le reiterate condotte sessuali del reclamante fossero sgradite, e perciò respinte con richiesta di interrompere tale condotta, trova del resto significativa conferma nel carattere serio e riservato della stessa P, su cui concordano sia il reclamante sia tutti i testi colleghi di lavoro, che la descrivono come una ragazza molto giovane, appena entrata in un ambiente di lavoro sconosciuto, la quale “stava sulle sue”, senza farsi coinvolgere dalle conversazioni né dagli scherzi fra i colleghi, tutti i più anziani di lei.
Era del resto lo stesso reclamante ad ipotizzare che la P poteva avere attribuito a tali battute un significato grave proprio in quanto ragazza giovane, seria e riservata, poco incline allo scherzo, e quindi alla battuta in generale, ed a maggior ragione a quella a sfondo sessuale (così testualmente pag. 13 reclamo).
Rimane una mera illazione l’ulteriore argomento del reclamante, teso a privare di attendibilità la versione della P in quanto frutto di cd Ruminazione Mentale. Al contrario, va considerata la coerenza della condotta della collega, la quale, a poche settimane dall’inizio del suo rapporto di lavoro, seppur precario, si determinava addirittura a segnalare per iscritto alla Direzione le molestie subite da un collega anziano, e poi le confermava sia nella testimonianza resa in questo giudizio sia nella querela (in seguito alla quale il PM del Tribunale di Arezzo disponeva il rinvio a giudizio del reclamante per il reato di cui all’art. 660 cp).
A ben vedere del resto lo stesso argomento della cd Ruminazione Mentale poco si adatta al caso in esame, dal momento che la giusta causa poggia su una denuncia dettagliata e tempestiva che la P aveva svolto nell’immediatezza dei fatti, già all’inizio del suo rapporto di lavoro a termine, e non su una denuncia formulata una volta concluso lo stesso rapporto di lavoro. Nemmeno in astratto si potrebbe quindi sostenere che la segnalazione delle molestie fosse il frutto del continuo rimuginare sul passato aggravatosi nel decorso del tempo.
Non può essere accolta la richiesta (formulata dal reclamante nell’udienza di discussione) di rinnovare l’esame testimoniale della P del presente giudizio di reclamo.
Ai sensi dell’art. 257 comma 2 cpc, un testimone già interrogato può essere nuovamente esaminato se è necessario chiarire la sua deposizione, mentre per i motivi già detti secondo il collegio nel caso in esame nessun aspetto della deposizione della P richiede ulteriori verifiche o approfondimenti.
E ancora, è irrilevante che il Gip dello stesso Tribunale abbia archiviato la querela per ulteriori ipotesi di reato, sia perché si trattava di fatti diversi da quelli qui in esame sia perché l’archiviazione era motivata con la mancanza della condizione di procedibilità per tardività della querela.
Va superato anche l’ultimo argomento del reclamante, secondo il quale nemmeno dal punto di vista oggettivo la sua condotta avrebbe potuto ritenersi molesta, poiché nei confronti della P egli si sarebbe limitato a riprodurre il medesimo, generalizzato, atteggiamento scherzoso che caratterizzava l’intero ambiente di lavoro, nel quale fra colleghi maschi e femmine sarebbero stati consueti argomenti goliardici e battute spinte a sfondo sessuale.
La circostanza del clima scherzoso, di contenuto goliardico, era in effetti confermata da tutti i testi colleghi di lavoro. Ma il collegio ritiene trattarsi di vicenda fondamentalmente diversa, e quindi irrilevante ai fini di qualificare la condotta del reclamante nei confronti della sola P.
Il clima aziendale (descritto dal reclamante, e confermato dai testi), si sarebbe infatti manifestato con continui scherzi volgari ed allusioni spinte, scambiati “alla pari” fra collegi maschi e femmine sostanzialmente coetanei, ed inevitabilmente in condizione di consolidata confidenza reciproca in quanto tutti dipendenti da lungo tempo della stessa società.
Nessun testimone riferiva invece che fossero consuete, e palesi, condotte analoghe a quelle ammesse e provate nel caso in esame, caratterizzate dalla ripetuta, ed unilaterale, manifestazione del desiderio sessuale di un uomo maturo nei confronti di una ragazza che mai aveva ricambiato o incoraggiato tali atteggiamenti (senza considerare l’ulteriore condizione di inferiorità di quest’ultima dovuta al fatto di essere neo assunta a termine, e con un livello di inquadramento inferiore).
Appurata la fondatezza della condotta contestata, in termini di reiterate molestie sessuali sul luogo di lavoro, indesiderate e lesive nei confronti della destinataria, in condizioni di inferiorità personale e professionale, non vi sono dubbi sul fatto che si tratti di giusta causa di licenziamento, dal momento che il C.C.N.L. Turismo pubblici esercizi, applicato rapporto, fra le ipotesi di licenziamento per giusta causa prevede anche “gravi offese alla dignità, all’onore o gravi fatti di pregiudizio agli interessi .. dei colleghi di lavoro ..”.
Spese e C.U.
La conferma integrale della sentenza pone le spese di lite di questa fase di reclamo a carico del lavoratore reclamante, secondo gli importi liquidati in dispositivo ai sensi del DM 55/2014 per le cause di appello di valore indeterminabile di complessità bassa, esclusa l’istruttoria non svolta in questa fase.
A norma del comma 17 dell’art. 1 legge 29.12.2012, n.228 deve darsi atto che sussistono i presupposti processuali per l’applicazione al reclamante dell’art. 13 del Testo Unico di cui al DPR 30 maggio 2002, n. 115.
P.Q.M.
La Corte, definitivamente pronunciando ai sensi della L. 92/2012,
respinge il reclamo e conferma la sentenza reclamata.
Condanna il reclamante al pagamento in favore della società reclamata delle spese di lite della presente fase di reclamo, liquidate in €. 3.308,00 oltre spese generali 15%, Iva e Cpa.
dichiara che a carico del reclamante sussistono i presupposti processuali di cui all’art. 13, comma 1-quater, D.P.R. 30.5.2002 n. 115, introdotto dall’art. 1, comma 17, L. 24.12.2012 n. 228, per l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato
Firenze, 14 gennaio 2020.
La Consigliera est. La Presidente
- Roberta Santoni Rugiu dr. Maria G. D’Amico