Nozione disabilità, licenziamento illegittimo, discriminazione handicap, Corte di Cassazione, Sentenza 12 novembre 2019, n. 29289
Fatti di causa
- La Corte di appello di Trento, con sentenza n. 11/18, riformando la pronuncia del Giudice del lavoro del Tribunale di Rovereto, ha dichiarato illegittimo il licenziamento intimato in data 16 agosto 2016 dalla soc. M. p.a. a T.D. in quanto discriminatorio per ragioni di disabilità e ha condannato la società predetta alla reintegrazione del reclamante nel posto di lavoro e al pagamento della retribuzione globale di fatto pari ad euro 2.054,43 mensili dalla data del licenziamento alla reintegrazione, oltre rivalutazione di interessi dalle singole scadenze al saldo, detratto l’aliunde perceptum.
- Per quanto ancora rileva nella presente sede, la Corte territoriale ha respinto l’eccezione di inammissibilità della domanda avente ad oggetto l’accertamento della natura discriminatoria del licenziamento, eccezione sollevata dalla parte convenuta sull’assunto della proposizione tardiva della domanda, autorizzata dal Tribunale solo dopo il deposito del ricorso introduttivo, a seguito della costituzione in giudizio della medesima M. s.p.a..
- Esaminando nel merito il vizio di nullità del licenziamento discriminatorio per ragioni di disabilità, richiamata la direttiva 78 del 2000, come interpretata dalla giurisprudenza la Corte di Giustizia nonché dell’art. 28, comma 4, del d.lgs. 150 del 2011 che ha sostituito gli articoli contenuti nei decreti legislativi di attuazione della direttiva nell’ordinamento interno, la Corte di appello ha ritenuto che l’onere della prova deve essere ripartito in modo tale da attuare, nel contesto del ragionamento presuntivo di cui agli artt. 2727 e 2729 cod. civ., un’effettiva agevolazione del soggetto che agisce per la tutela, per cui era onere del lavoratore allegare e provare il fattore di rischio, il trattamento subìto ritenuto discriminatorio, il miglior trattamento attuato nei confronti dei lavoratori in posizione equiparabile alla sua, deducendo una correlazione significativa fra questi tre elementi in termini di verosimiglianza della discriminazione; era onere invece della datrice di lavoro dedurre e provare circostanze non equivoche, idonee ad escludere, con precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria del recesso in quanto dimostrative di una scelta che sarebbe stata operata con i medesimi parametri nei confronti di qualsiasi lavoratore privo del fattore di rischio e dunque non disabile, che si fosse trovato della stessa posizione della ricorrente.
3.1. Tanto premesso, la Corte di appello ha rilevato:
– che il ricorrente, fin dall’assunzione del 27 maggio 2002 addetto alla produzione di “mescole di gomma” e in particolare al macchinario per la produzione di talloni per pneumatici, in data 23 settembre 2015 era stato giudicato idoneo temporaneamente alle mansioni con limitazioni e in data 3 febbraio 2016 era stato giudicato totalmente inidoneo alle mansioni di operaio addetto al “reparto gomme piene”; dal 24 settembre 2015 era stato posto in ferie e poi sospeso in cassa integrazione straordinaria a zero ore e, a differenza degli altri dipendenti, non gli era stata applicata la rotazione; senza essere sottoposto ad accertamenti di idoneità per lo svolgimento di altre mansioni e senza alcuna decisione sulla sua posizione individuale in azienda, in data 16 agosto 2016 era stato licenziato con decorrenza 23 agosto nell’ambito di una procedura di riduzione del personale nel frattempo attivata dalla M. s.p.a., ai sensi degli artt. 4 e 24 legge n. 223 del 1991; che nella comunicazione resa ai sensi del comma 9 dell’art.4. cit., recante l’elenco dei lavoratori licenziati, il ricorrente era stato valutato come addetto al reparto gomme piene e, a differenza degli altri colleghi di lavoro, non gli era stato attribuito alcun punteggio per le mansioni svolte, in quanto divenuto inabile e inidoneo alle medesime.
3.2. Alla stregua di tali elementi di fatto, accertati in giudizio, la Corte di appello ha ritenuto che il ricorrente avesse assolto i propri oneri processuali, in quanto il fattore di rischio era dato dalla disabilità sopravvenuta, intesa, secondo la convenzione di New York del 2006, come limitazione fisica di lunga durata e consistente nella specie in una patologia cardiaca e dell’apparato respiratorio che ne aveva determinato l’inidoneità permanente alle mansioni precedentemente svolte; il trattamento meno favorevole era consistito dapprima nella sospensione in CIGS senza rotazione e poi nella mancata assegnazione di un punteggio per l’esame comparativo nella scelta dei lavoratori da licenziare; il trattamento più favorevole riservato ai colleghi del ricorrente era consistito nell’attribuzione dei punteggi secondo il valore assegnato alle mansioni dagli stessi precedentemente svolte.
3.3 I giudici di merito hanno poi osservato che la tesi difensiva svolta dalla M. s.p.a., secondo cui il reclamante sarebbe stato in ogni caso licenziato per essere divenuto inabile e non ricollocabile in diverse mansioni, oltre ad essere rimasta priva di riscontri probatori, anteponeva una giustificazione attinente al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, mai adottato dall’azienda e al quale comunque si sarebbe potuti addivenire solo a seguito degli accertamenti e delle valutazioni di cui al d. lgs. n. 81 del 2008, segnatamente con riguardo alla disciplina di cui all’art. 42 del predetto d.lgs., che impone al datore l’adibizione del lavoratore, ove possibile, ad altra mansione compatibile con suo stato di salute. L’invalidità del lavoratore per malattia intervenuta nel corso del rapporto di lavoro determina un giustificato motivo oggettivo di cessazione del rapporto per iniziativa del datore di lavoro quando, ai sensi degli artt. 1463 e 1464 cod. civ., realizzi una impossibilità sopravvenuta della prestazione, impossibilità che deve essere valutata in relazione alla molteplicità dei possibili impieghi a cui il lavoratore può essere adibito in ambito aziendale. Grava sul datore di lavoro dedurre e provare la mancanza di mansioni confacenti.
- La Corte di appello ha poi ritenuto fondati anche gli altri motivi attinenti alla non conformità della procedura di licenziamento collettivo agli artt. 4 e 5 della legge 223 del 1991, in quanto ai sensi del comma 9 dell’art. 4 la comunicazione ivi prevista deve dare atto della puntuale indicazione dei criteri di scelta e delle modalità applicative, in modo tale da consentire ad ogni lavoratore di comprendere perché lui – e non altri dipendenti – sia stato destinatario del collocamento di mobilità o del licenziamento collettivo, mentre l’accordo sindacale in questione aveva autorizzato la M. ad applicare, qualora non sufficienti il criterio della non opposizione al licenziamento e della maturazione dei requisiti pensionistici, il criterio delle ragioni tecniche, produttive e organizzative adottando una clausola generale che rimetteva totalmente all’azienda l’individuazione dei parametri di comparazione tra i dipendenti ed inoltre non vi era stata, dopo l’accordo sindacale, alcuna verifica congiunta con le OO.SS. in merito agli elementi oggettivi che il datore di lavoro avrebbe considerato per l’assegnazione dei diversi punteggi e le modalità della loro attribuzione.
- La Corte di appello ha ritenuto fondato anche il motivo di impugnazione con cui il lavoratore aveva allegato, sin dal ricorso introduttivo della fase sommaria, di non aver mai avuto comunicazioni od offerte relative ai due bandi interni del giugno e dell’agosto 2016 per la ricollocazione su domanda in altre unità produttive di lavoratori che avessero manifestato la loro disponibilità; né la società M. aveva provato di avere portato a conoscenza del reclamante questi bandi o la possibilità di essere collocato in altre unità (la comunicazione mediante affissione nella bacheca dei giorni 16 agosto e 22 settembre 2015 concerneva un periodo in cui il reclamato era assente dal lavoro in quanto dapprima in malattia, poi collocato in ferie e infine posto in CIGS).
- Per la cassazione di tale sentenza M. s.p.a. ha proposto ricorso affidato a cinque motivi, cui ha resistito con controricorso il T..
- La società ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ..
Ragioni della decisione
- Con il primo motivo la società ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 101, 345, 416 e 437, secondo comma, cod. proc. civ., art. 1, comma 48 e segg. I. n. 92 del 2012 e art. 111 Cost. (art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ.).
Censura la sentenza nella parte in cui è stata ritenuta ammissibile la domanda vertente sull’accertamento della natura discriminatoria del licenziamento.
Deduce che nella fase sommaria il ricorrente aveva prospettato la natura discriminatoria del recesso in ragione dell’inidoneità sopravvenuta alle mansioni, mentre l’articolazione della domanda in fase di reclamo alludeva ad una fattispecie più complessa, costituita da: a) mancata ricerca di posizioni alternative dopo il giudizio di inidoneità; b) asserita imposizione di sospensione in CIGS senza rotazione; c) mancata segnalazione alle OO.SS. di situazioni di azzeramento del punteggio; d) assenza di una previsione di azzeramento del punteggio in caso di inidoneità fisica nella lettera di chiusura della procedura.
Assume dunque che la domanda era basata su una diversa causa petendi, in contrasto con il divieto di ius novorum sancito dagli artt. 416 e 437 cod. proc. civ..
- Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1, comma 7, legge n. 68 del 1999, nonché dell’art. 10, comma 4, della stessa legge, e dell’art. 3, comma 3, d.lgs. 216 del 2003 in attuazione della direttiva 2000/78/CE, violazione e falsa applicazione altresì della legge n. 18 del 2009 di ratifica della Convenzione di New York del 2006 per come questa è stata interpretata e applicata in sentenza, illogicità della motivazione per travisamento dei fatti di causa in relazione all’assimilazione delle inidoneità fisiche alla diversa fattispecie della disabilità.
Censura la sentenza per avere erroneamente assimilato la condizione di salute in cui versava il lavoratore, consistente in una inidoneità fisica, all’ipotesi della disabilità, la quale invece deve essere accertata ai sensi e per gli effetti di cui alla legge n. 68 del 1999. Quest’ultima legge, all’art. 1, comma 7, assicura ai lavoratori divenuti disabili a seguito di infortunio o malattia il diritto alla conservazione del posto di lavoro, anche se la disabilità sia sopravvenuta durante lo svolgimento del rapporto di lavoro. Anche l’art. 10, comma 4, della stessa legge detta norme di tutela del lavoratore occupato obbligatoriamente in caso di recesso datoriale. È invece erronea la qualificazione della fattispecie contenuta nella sentenza impugnata, consistente nell’assimilare l’inidoneità alle mansioni lavorative alla nozione di disabilità.
- Con il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. e dell’art. 2697 cod. civ. nella parte in cui la sentenza, dopo avere precisato che era onere del lavoratore allegare e provare il fattore di rischio, il trattamento subìto ritenuto discriminatorio, il miglior trattamento attuato nei confronti dei lavoratori in posizione equiparabile alla sua, ha ritenuto assolti tali oneri.
Deduce la ricorrente che la sentenza non aveva debitamente considerato che i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare erano oggettivi e concordati unitamente alle OO.SS. nella procedura di mobilità e tra questi figurava l’attribuzione del punteggio per la polivalenza delle mansioni, connessa alla adibizione a reparti diversi, con lo scopo di valorizzare il personale avente un maggior numero di attività sia all’interno del reparto che al di fuori di esso, mentre la accertata inidoneità lavorativa del T. azzerava anche qualsivoglia ipotetica pregressa esperienza lavorativa svolta all’interno del “reparto gomme piene”.
- Con il quarto motivo parte ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 5 legge n. 223 del 1991 per avere la sentenza affermato che vi sarebbe un obbligo di concordare con i sindacati anche le modalità di applicazione dei criteri di scelta e non solo l’individuazione di tali criteri.
- Il quinto motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 4 e 5 legge n. 223 del 1991 e dell’art. 3 d.lgs. n. 216 del 2003 laddove la sentenza, dopo avere evidenziato che erano intervenuti due bandi per concorsi interni affissi in luogo accessibile a tutti i lavoratori, aveva ritenuto l’assenza di prova circa il fatto che il ricorrente fosse stato personalmente notiziato.
- Il ricorso è infondato.
- Il primo motivo presenta profili di inammissibilità ed è altresì infondato quanto all’interpretazione della disciplina processuale relativa al c.d. rito Fornero.
7.1. Preliminarmente, il motivo di ricorso non si confronta con il decisum relativo alla statuizione di rigetto dell’eccezione, nei suoi diversi passaggi argomentativi.
Dalla sentenza impugnata risulta che i fatti costitutivi della pretesa, in relazione ai quali era stata chiesta la valutazione anche sotto il profilo della natura discriminatoria del recesso, erano stati tutti tempestivamente allegati con il ricorso introduttivo, compresa l’inidoneità sopravvenuta alle mansioni, l’inadempimento della datrice di lavoro all’obbligo di ricollocazione e al diverso trattamento rispetto agli altri colleghi quanto alle modalità di sospensione in CIGS senza rotazione (pag. 15 e 16 sent.).
Si era poi osservato che le ragioni per le quali, all’esito dell’applicazione di criteri di scelta, il ricorrente era risultato fra lavoratori da licenziare erano state rese palesi dalla M. s.p.a. solo con la costituzione in giudizio nella fase sommaria, per cui il ricorrente le ignorava al momento della proposizione del ricorso, e che, nel contesto di tali allegazioni, sarebbe stato onere del datore di lavoro dimostrare la correttezza del proprio operato, compresa l’insussistenza, nell’applicazione dei criteri oggettivi, della discriminazione per ragioni di disabilità.
Il giudice di appello ha poi aggiunto che, nel rito c.d. Fornero, il limite temporale per eventuali modificazioni e anche per l’ampliamento della domanda, è costituito dagli atti introduttivi del giudizio di opposizione (art. 1, comma 51 e comma 53 I. 92 del 2012), per cui del tutto ammissibile era l’estensione avvenuta in limine nella fase sommaria a seguito dell’emergere di fatti nuovi, precedentemente non conosciuti e noti invece al datore di lavoro, da cui l’insussistenza dell’eccepita tardività e della prospettata lesione del principio del contraddittorio.
Quanto invece alla presunta modifica della domanda in fase di reclamo, la sentenza ne ha escluso la sussistenza osservando che non erano state introdotte nuove circostanze di fatto, essendosi il reclamante “…limitato ad argomentare sul piano logico giuridico una diversa valutazione dei medesimi fatti già allegati (pag. 31 del ricorso in opposizione) sotto il profilo del significato degli stessi quanto alla discriminazione per disabilità”.
7.2. A fronte di tale complesso motivazionale, l’odierna ricorrente oppone la novità della domanda in sede di reclamo, senza argomentare specificamente in ordine al ritenuto carattere di mera argomentazione giuridica su fatti già compiutamente allegati in primo grado e in ordine alla introduzione in giudizio solo con le difese della M. della questione relativa alla mancata attribuzione di qualsiasi punteggio, da cui l’onere della stessa società (rimasto inadempiuto) di dimostrare la correttezza del proprio operato con riguardo all’applicazione del criterio di scelta che, mediante l’azzeramento del punteggio, aveva così discriminato il reclamante rispetto ad altri lavoratori pure adibiti alle stesse mansioni.
Il motivo si rileva dunque inammissibile per difetto di specificità al decisum ex art. 366, primo comma, n. 4 cod. proc. civ..
7.3. Peraltro, gli argomenti su cui la sentenza si fonda sono corretti anche in punto di diritto. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, nel rito cd. Fornero, il giudizio di primo grado è unico a composizione bifasica, con una prima fase ad istruttoria sommaria, diretta ad assicurare una più rapida tutela al lavoratore, ed una seconda fase, a cognizione piena, che della precedente costituisce una prosecuzione, sicché non costituisce domanda nuova, inammissibile per mutamento della causa petendi, la deduzione di ulteriori motivi di invalidità del licenziamento impugnato (Cass. n. 27655 del 2017, n. 5993 del 2019, n. 21720 del 2018 e n. 9458 del 2019). La diversa qualificazione giuridica del rapporto controverso da parte del giudice d’appello rispetto a quanto ritenuto dal giudice di primo grado non costituisce vizio di extrapetizione, rientrando tale potere-dovere nelle attribuzioni del giudice dell’impugnazione, senza necessità, quindi, di specifica impugnazione o doglianza di parte, purché egli operi nell’ambito delle questioni riproposte con il gravame e lasci inalterati il petitum e la causa petendi, non introducendo nel tema controverso nuovi elementi di fatto (Cass. n. 16213 del 2015).
- Il secondo motivo è infondato.
8.1. Va premesso che la nozione di «handicap», ai sensi della direttiva 2000/78, dev’essere intesa nel senso che si riferisce a una limitazione, risultante in particolare da durature menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori (sentenza del 10 dicembre 2016, Daouidi, C-395/15, EU:C:2016:917, punto 42 e giurisprudenza ivi citata, nonché sentenza 9 marzo 2017 Petya Milkova – causa C-406/15, punto 36). L’articolo 7, paragrafo 2, della direttiva 2000/78 consente di introdurre una distinzione basata sulla disabilità, a condizione che essa rientri tra le disposizioni relative alla protezione della salute e della sicurezza sul posto di lavoro o tra le misure intese a creare o mantenere disposizioni o strumenti al fine di salvaguardare o promuovere l’inserimento delle persone con disabilità nel mondo del lavoro. Pertanto, una simile distinzione, a favore delle persone con disabilità, contribuisce alla realizzazione dello scopo della direttiva 2000/78 sancito all’articolo 1 di quest’ultima, ossia la lotta alle discriminazioni fondate sugli handicap, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro, al fine di rendere effettivo, nello Stato membro interessato, il principio della parità di trattamento (v., in tal senso, sentenza 9 marzo 2017 Petya Milkova causa C-406/15 citata, punto 46, sentenza del 17 luglio 2008, Coleman, C-303/06, punto 42). L’articolo 7, paragrafo 2, della direttiva 2000/78 infatti lo scopo di autorizzare misure specifiche che mirano ad eliminare o ridurre le disparità di fatto che colpiscono le persone con disabilità, che possono sussistere nella loro vita sociale e, in particolare, nella loro vita professionale, nonché ad ottenere una parità sostanziale, e non formale, riducendo tali disparità (sent. 9 marzo 2017 – Milkova, causa C-406/15, punto 47).
8.2. La Corte di Giustizia ha precisato che tale interpretazione è corroborata dalla Convenzione dell’ONU, che, secondo una giurisprudenza costante, può essere invocata al fine di interpretare la direttiva 2000/78, la quale deve essere oggetto, nella maggior misura possibile, di un’interpretazione conforme a detta convenzione (sentenza 9 marzo 2017 – Milkova, punto 48, nonché sentenza del 10 dicembre 2016, Daouidi, C-395/15, punto 41 e giurisprudenza ivi citata). Infatti, si deve rilevare, da un lato, che, in virtù dell’articolo 27, paragrafo 1, lettera h), della Convenzione dell’ONU, le parti contraenti garantiscono e favoriscono l’esercizio del diritto al lavoro, anche a coloro i quali hanno acquisito una disabilità durante l’impiego, prendendo appropriate iniziative, anche legislative, in particolare al fine di favorire l’impiego di persone con disabilità nel settore privato attraverso politiche e misure adeguate che possono includere programmi di azione antidiscriminatoria, incentivi e altre misure. Dall’altro lato, in base all’articolo 5, paragrafo 1, di detta convenzione, le stesse parti riconoscono che tutte le persone sono uguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna discriminazione, a uguale protezione e uguale beneficio dalla legge, mentre l’articolo 5, paragrafo 4 della medesima convenzione autorizza inoltre espressamente le misure specifiche che sono necessarie ad accelerare o conseguire de facto l’uguaglianza delle persone con disabilità (sent. Milkova, punto 49).
8.3. E altresì noto che il legislatore nazionale ha sanato l’inadempimento in cui era incorso con il decreto-legge 28 giugno 2013, n. 76 (art. 9, comma 4-ter), convertito con modificazioni dalla L. 9 agosto 2013, n. 99, inserendo nel testo del d.lgs. 9 luglio 2003 nr. 216, recante attuazione della direttiva, all’articolo 3, un comma 3-bis del seguente tenore «Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. I datori di lavoro pubblici devono provvedere all’attuazione del presente comma senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente».
8.4. In linea con i contenuti e gli obiettivi della direttiva, questa Corte ha recentemente affermato che la nozione di disabilità, anche ai fini della tutela in materia di licenziamento, deve essere costruita in conformità al contenuto della Direttiva n. 78/2000/CE del 27 novembre 2000, sulla parità di trattamento in materia di occupazione, come interpretata dalla CGUE, quindi quale limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori (Cass. n. 13649 del 2019 e Cass. n. 6798 del 2018).
8.5. Quanto al carattere «duraturo» di una limitazione, il giudice europeo ha precisato che l’importanza accordata dal legislatore dell’Unione alle misure destinate ad adattare il posto di lavoro in funzione dell’handicap dimostra che esso ha previsto ipotesi in cui la partecipazione alla vita professionale è ostacolata per un lungo periodo (sentenza Chacón Navas, 11.7.2006 C-13/05). Inoltre, l’espressione «disabili» utilizzata nell’articolo 5 della direttiva deve essere interpretata nel senso che essa comprende tutte le persone affette da un «handicap», secondo la definizione rilevante nell’ambito della direttiva (Corte di Giustizia, sentenza Mo. Da., punto 43). La malattia, se di lunga durata e se incidente sull’integrazione socio-lavorativa del soggetto potrà essere considerata come disabilità.
8.6. Non vi è dubbio che nel caso in esame le limitazioni accertate in giudizio a carico dell’attuale resistente fossero durevoli, nel senso sopra indicato. In ordine a tale giudizio, sotteso alla decisione impugnata, non vi è neppure ulteriore contestazione, poiché la censura di cui al secondo motivo si incentra su una nozione di disabilità tratta dal diritto interno (viene citata la legge n. 68 del 1999) che invece va tenuta distinta dalla nozione di disabilità di cui alla direttiva europea, volta a non discriminare il lavoratore in ragione del carattere “durevole” della sua menomazione. In proposito, è sufficiente ricordare che sin dalla sentenza Chacon Navas, sopra citata, la Corte di Giustizia ha affermato che «il divieto, in materia di licenziamento, della discriminazione fondata sull’handicap, sancito agli artt. 2, n. 1, e 3, n. 1, lett. c), della direttiva 2000/78, osta ad un licenziamento fondato su un handicap che, tenuto conto dell’obbligo di prevedere soluzioni ragionevoli per i disabili, non è giustificato dal fatto che la persona di cui trattasi non sia competente, né capace, né disponibile a svolgere le funzioni essenziali del suo posto di lavoro» (punto 52) (v. pure Cass. n. 6798 del 2018).
- Il terzo motivo è inammissibile.
9.1. La sentenza impugnata non ha omesso di considerare gli aspetti di cui si lamenta il mancato o insufficiente esame, ma ha logicamente argomentato che la correlazione tra trattamento meno favorevole e la disabilità era evidente ed anche ammessa dalla stessa datrice di lavoro proprio perché questa aveva giustificato l’assenza di punteggio con la sopravvenuta inidoneità fisica alle mansioni svolte. La sentenza ha correttamente evidenziato che tale ammissione era già di per sé stessa incompatibile con l’onere di provare che la scelta sarebbe stata fatta con i medesimi parametri nei confronti qualsiasi lavoratore privo del fattore di rischio, che si fosse trovato la stessa posizione del ricorrente (pagg. 22 e 23 sent. imp.). La scelta operata dalla parte datoriale di non assegnare alcun punteggio al T. rivelava il suo intrinseco carattere discriminatorio, proprio perché basata (e motivata – come ancora ribadito nel ricorso per cassazione) sulla non comparabilità della posizione lavorativa del predetto lavoratore rispetto agli altri dipendenti non affetti da disabilità.
- Il quarto motivo è inammissibile, poiché avulso dal decisum, che non afferma quanto sostenuto nel ricorso.
10.1. Premesso che una volta accertata la natura discriminatoria del licenziamento resta irrilevante esaminare ogni altro vizio che avrebbe inficiato la scelta del lavoratore da licenziare (la violazione dell’art. 4, comma 9, legge n. 223 del 1991 comporta anche la medesima tutela per il lavoratore illegittimamente licenziato), comunque va osservato che la sentenza impugnata ha argomentato, oltre che sulla genericità del criterio individuato, soprattutto sull’assenza di qualsiasi indicazione utile a far comprendere come i criteri concordati fossero stati applicati nella fattispecie. Il motivo tende a confondere la questione della legittimità dei criteri concordati con le OO.SS. con la mancata dimostrazione della loro corretta applicazione.
10.2. Questa Corte ha ripetutamente affermato che, in tema di procedura di mobilità, la previsione, di cui all’art. 4, nono comma, legge n. 223 del 1991, secondo cui il datore di lavoro, nella comunicazione preventiva con la quale dà inizio alla procedura, deve dare una “puntuale indicazione” dei criteri di scelta e delle modalità applicative, comporta che, anche quando il criterio prescelto sia unico, il datore di lavoro deve provvedere a specificare nella detta comunicazione le sue modalità applicative, in modo che essa raggiunga quel livello di adeguatezza sufficiente a porre in grado il lavoratore di percepire perché lui – e non altri dipendenti – sia stato destinatario del collocamento in mobilità o del licenziamento collettivo e, quindi, di poter eventualmente contestare l’illegittimità della misura espulsiva” (Cass.n. 12196 del 2011 ; conf. Cass.n. 18306 del 2016; Cass.n. 24352 del 2017; da ultimo Cass. n. 28461 del 2018). La finalità delle comunicazioni in questione va individuata nella necessità non solo del controllo sulla effettività della scelta adottata, ma anche delle modalità di concreta applicazione dei criteri concordati.
- Il quinto motivo è anch’esso inammissibile.
11.1. La censura omette di considerare l’accertamento di fatto svolto dalla Corte territoriale secondo cui, nel lasso di tempo in cui rimasero visibili le affissioni in luoghi accessibili dai lavoratori, il reclamante era assente dal servizio per le ragioni illustrate in sentenza e dunque non avrebbe potuto prendere visione dei bandi di concorso.
- Giova rilevare, da ultimo, che nessun motivo è svolto circa l’omissione degli “accomodamenti ragionevoli” che il comma 3-bis dell’art. 3 d. lgs. n.216 del 2003 prevede al fine di garantire il rispetto del principio di parità di trattamento delle persone con disabilità e la cui assenza è stata pure valorizzata dalla Corte territoriale. Questa ha ricordato che il comma 3-bis dell’art. 3 d. lgs. n.216 del 2003 prevede che, al fine di garantire il rispetto del principio di parità di trattamento delle persone con disabilità, il datore di lavoro è tenuto ad adottare “accomodamenti ragionevoli”, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009 n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena uguaglianza con gli altri lavoratori.
Ha poi evidenziato che la datrice di lavoro non aveva posto in essere alcuna iniziativa in tal senso; non solo non aveva attivato alcun accertamento, verifica e accomodamento per un reinserimento del lavoratore (mai allegati), ma non aveva neppure specificamente dedotto né offerto di provare l’incollocabilità in altre mansioni.
- In conclusione, il ricorso va rigettato, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi dell’art. 2 del D.M. 10 marzo 2014, n. 55.
- Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali (nella specie, il rigetto del ricorso) per il versamento, da parte della ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1 – quater, del d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello per il ricorso, a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in euro 5.000,00 per compensi e in euro 200,00 per esborsi, oltre 15% per spese generali e accessori di legge.
Ai sensi dell’art.13 comma 1-quater del d.P.R. n.115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma1-bis, dello stesso articolo 13.