Indennità di maternità, discriminazione diretta di genere, Tribunale di Civitavecchia, sentenza dell’otto febbraio 2020.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale di Civitavecchia, Sezione Lavoro, in persona della Dott.ssa Irene Abrusci, nella causa iscritta al n. RG 1544/2019 vertente

TRA

M C

E

INPS
A S.P.A. in amministrazione straordinaria
A scioglimento della riserva assunta all’udienza del 30.01.2020 ha pronunciato il seguente decreto ex art. 38 dlgs. 198 del 2006
Con ricorso depositato in data 28.08.2019 M C, premesso di aver lavorato alle dipendenze di A s.p.a. dal 1.11.2010 e di aver beneficiato di due periodi di congedo per maternità (dal 12.05.2009 al 19.08.2010 e dall’ottobre 2011 al 1.01.2013), assumendo la natura discriminatoria dei criteri adottati da INPS e dal datore di lavoro per la liquidazione dell’indennità di maternità, chiedeva al Tribunale di:
– accertare e dichiarare, ai sensi degli artt. 25,36 e 38 d.lgs. 198 del 2006, il realizzato comportamento discriminatorio posto in essere dei resistenti, ognuno per le proprie responsabilità, ai danni della lavoratrice;
– per l’effetto, accertare e dichiarare il proprio diritto ad ottenere l’integrazione economica di quanto avrebbe dovuto percepire a titolo di indennità di maternità;
– per l’effetto, condannare i resistenti, ognuno per le proprie responsabilità, al pagamento in suo favore della somma complessiva di euro 14.151,83, di cui euro 6.688,19 relativa al periodo della prima maternità ed euro 7.463,64 relativa al secondo periodo di maternità, oltre interessi legali e spese di lite;
La A S.P.A. in amministrazione straordinaria si costituiva in giudizio eccependo la propria carenza di legittimazione passiva, la prescrizione dei crediti vantati, l’incompetenza funzionale del giudice del lavoro, l’improcedibilità/inammissibilità del ricorso e, nel merito, contestando in toto le avverse censure e chiedendo le reiezione del ricorso.
L’INPS si costituiva in giudizio, eccependo la decadenza sostanziale ex art. 47 d.p.r. 639 del 1970, la prescrizione ex art. 6 l. n. 138 del 1943 e, comunque, rilevando l’insussistenza della denunciata condotta discriminatoria.
Previa concessione di un termine per il deposito di note difensive, all’udienza del 30.01.2020, ascoltata la discussione delle parti, il Giudice si riservava la decisione.
Al fine di esaminare le molteplici eccezioni preliminari sollevate dalle parti, appare opportuno inquadrare correttamente l’azione proposta con il ricorso al vaglio.
Esaminando il tenore complessivo dell’atto introduttivo del giudizio emerge chiaramente che la ricorrente non ha inteso domandare al Tribunale il pagamento dell’indennità di maternità (in misura maggiore rispetto a quella corrisposta) bensì ha inteso denunciare il comportamento discriminatorio asseritamente posto in essere sia dal datore di lavoro (chiamato ad effettuare le anticipazioni in busta paga) sia dall’INPS (ente preposto all’erogazione dell’indennità dovuta, subentrato all’IPSEMA); conseguenza dell’accertamento circa la sussistenza di una condotta discriminatoria è, poi, la richiesta di rimozione dei relativi effetti (costituita, nel caso di specie, dalla condanna dei resistenti al pagamento in favore della ricorrente della differenza tra l’indennità di maternità percepita e quella che sarebbe spettata in caso di corretta applicazione dei criteri di legge).
L’aver così individuato la causa petendi (presenza di una condotta discriminatoria) ed il petitum (accertamento della discriminazione e rimozione dei relativi effetti) delle domande attoree permette, immediatamente, di ritenere infondate le eccezioni preliminari sollevare dalle parti resistenti sull’erroneo presupposto che la ricorrente abbia inteso domandare il pagamento di somme a titolo di indennità di maternità.
La decadenza sostanziale ex art. 47 d.p.r. 639 del 1970 e la prescrizione ex art. 6 l. n. 138 del 1943 sono, infatti, espressamente riferite rispettivamente alle “azioni giudiziarie aventi ad oggetto l’adempimento di prestazioni riconosciute solo in parte” ed all’ “azione per conseguire le prestazioni di cui alla presente legge”, dunque sono applicabili a domande la cui causa petendi è rappresenta dalla sussistenza del rapporto di assicurazione obbligatoria ed il cui petitum è costituito dal pagamento di somme a titolo di indennità di maternità.
Del pari, risulta infondata l’eccezione sollevata da A s.p.a. volta a rilevare, con riferimento alla domanda relativa al secondo periodo di maternità, la propria carenza di legittimazione passiva, rivestendo il datore di lavoro la mera qualità di adiectus solutionis causa, mentre il debitore della prestazione è soltanto l’INPS. Tali considerazioni, a ben vedere, risultano pertinenti soltanto con riferimento alla domanda di pagamento dell’indennità di maternità (ed infatti le massime giurisprudenziali citate dalla A s.p.a. sono riferite proprio a domande di tal fatta) ma non possono valere ad escludere la legittimazione passiva in capo a parte datoriale a fronte della richiesta di accertamento della condotta discriminatoria, asseritamente discendente dalla azione congiunta del datore di lavoro e dell’INPS.
Fondata risulta, invece, l’eccezione di carenza di legittimazione passiva sollevata dalla A s.p.a. con riferimento alla domanda relativa al primo periodo di maternità, risultando pacifico che la ricorrente (come dalla stessa affermato nel punto 1 del ricorso) lavora alle dipendenze della società convenuta in giudizio soltanto dal 1.11.2010, mentre il primo periodo di maternità è stato goduto nel lasso temporale dal 12.05.2009 al 19.08.2010.
Vale precisare che, con riferimento a tale domanda, non si pone alcuna questione di litisconsorzio necessario con il precedente datore di lavoro della ricorrente, in applicazione del principio di diritto enunciato da Cassazione civile sez. lav., 22/01/2015, n.1172, risultando tale massima giurisprudenziale riferita espressamente alla, sola, “domanda della lavoratrice dipendente volta al riconoscimento dell’indennità di maternità”.
Passando all’esame dell’eccezione di incompetenza funzionale del Giudice del lavoro, vale ribadire il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui “Nel riparto di competenza tra il giudice del lavoro e quello del fallimento il discrimine va individuato nelle rispettive speciali prerogative, spettando al primo, quale giudice del rapporto, le controversie riguardanti lo “status” del lavoratore, in riferimento ai diritti di corretta instaurazione, vigenza e cessazione del rapporto, della sua qualificazione e qualità, volte ad ottenere pronunce di mero accertamento oppure costitutive, come quelle di annullamento del licenziamento e di reintegrazione nel posto di lavoro; al fine di garantire la parità tra i creditori, rientrano, viceversa, nella cognizione del giudice del fallimento, le controversie relative all’accertamento ed alla qualificazione dei diritti di credito dipendenti dal rapporto di lavoro in funzione della partecipazione al concorso e con effetti esclusivamente endoconcorsuali, ovvero destinate comunque ad incidere nella procedura concorsuale” (Cassazione civile sez. lav., 30/03/2018, n.7990; per l’applicazione dei medesimi criteri anche in caso di sottoposizione alla procedura di amministrazione straordinaria v. Cass. civ., sez. lav. , 20/08/2013 n. 19271 ove si afferma “Questa Corte Suprema ha ripetutamente statuito – con orientamento cui va data continuità – che non solo in caso di sottoposizione della società datrice di lavoro a liquidazione coatta amministrativa, ma anche in quello di suo assoggettamento ad amministrazione straordinaria, deve distinguersi tra le domande del lavoratore che mirano a pronunce di mero accertamento oppure costitutive (ad es., domanda di annullamento del licenziamento e reintegrazione nel posto di lavoro) e domande di condanna al pagamento di somme di denaro (anche se accompagnate da domande di accertamento o costitutive aventi funzione strumentale). Per le prime va riconosciuta, così come avviene in caso di fallimento, la perdurante competenza del giudice del lavoro, mentre per le seconde opera (diversamente dal caso del fallimento, in cui si rinviene l’attrazione del foro fallimentare) la regola della improponibilità o improseguibilità della domanda, per difetto temporaneo di giurisdizione per tutta la durata della fase amministrativa di accertamento dello stato passivo davanti ai competenti organi della procedura di liquidazione coatta amministrativa o dell’amministrazione straordinaria, ferma restando l’assoggettabilità del provvedimento attinente allo stato passivo ad opposizione od impugnazione davanti al Tribunale fallimentare ai sensi dell’art. 209 l.f.”).
Applicando tali principi al caso di specie, ritiene il Giudice che la richiesta di accertamento della discriminazione non possa essere considerata una azione meramente strumentale all’insorgenza di un diritto di credito, ben potendo essere volta, soltanto, a richiedere al Tribunale di emanare un ordine di cessazione del comportamento discriminatorio. Invero, l’accertamento della discriminazione risponde ad un interesse anche non patrimoniale del lavoratore e resta, pertanto, estraneo alle finalità di tutela della par condicio creditorum, fondamento della competenza del Tribunale fallimentare.
A ben vedere, devono essere tenute distinte l’azione di mero accertamento del comportamento discriminatorio dalle azioni – diverse anche se connesse – volte a richiedere il risarcimento dei danni oppure la rimozione degli effetti che la discriminazione stessa ha cagionato sul patrimonio del lavoratore.
Appare, allora, corretto ritenere che sussista la competenza funzionale del Giudice del lavoro con riferimento all’accertamento del comportamento discriminatorio datoriale nonché all’emissione dell’eventuale ordine di cessazione dello stesso, mentre rientrano nella cognizione del giudice fallimentare e sono improcedibili per tutta la durata della fase di accertamento dello stato passivo le domande volte ad ottenere la condanna del datore di lavoro al pagamento di somme a titolo risarcitorio o a titolo di rimozione degli effetti della discriminazione.
Di conseguenza, nel caso di specie, deve essere dichiara l’improcedibilità della domanda di rimozione degli effetti della discriminazione avanzata nei confronti di Alitalia SAI s.p.a. in a.s., dovendo il presente giudizio limitarsi, nei confronti della società da ultimo citata, al mero accertamento della dedotta discriminazione.

Ciò posto, passando al merito delle questioni al vaglio, osserva il Giudice che risulta pacifico, tra le parti, che l’indennità di maternità corrisposta alla ricorrente nei periodi dal 12.05.2009 al 19.08.2010 e dall’ottobre 2011 al 1.01.2013 è stata quantificata computando, nella base di calcolo, l’indennità di volo al 50%.
Come recentemente affermato da Cassazione civile sez. lav., 11/05/2018, n. 11414, tale modalità di computo dell’indennità di maternità risulta in contrasto con la corretta interpretazione delle norme vigenti.
Ed, infatti, l’art. 22 D.Lgs n. 151 del 2001 stabilisce che “Le lavoratrici hanno diritto ad un’indennità giornaliera pari all’80 per cento della retribuzione per tutto il periodo del congedo di maternità, anche in attuazione dell’art. 7, comma 6, e art. 12, comma 2. L’indennità di maternità, comprensiva di ogni altra indennità spettante per malattia, è corrisposta con le modalità di cui al D.L. 30 dicembre 1979, n. 663, art. 1, convertito, con modificazioni, dalla L. 29 febbraio 1980, n. 33, e con gli stessi criteri previsti per l’erogazione delle prestazioni dell’assicurazione obbligatoria contro le malattie.” mentre il successivo art. 23 prevede “Agli effetti della determinazione della misura dell’indennità, per retribuzione s’intende la retribuzione media globale giornaliera del periodo di paga quadrisettimanale o mensile scaduto ed immediatamente precedente a quello nel corso del quale ha avuto inizio il congedo di maternità. Al suddetto importo va aggiunto il rateo giornaliero relativo alla gratifica natalizia o alla tredicesima mensilità e agli altri premi o mensilità o trattamenti accessori eventualmente erogati alla lavoratrice. Concorrono a formare la retribuzione gli stessi elementi che vengono considerati agli effetti della determinazione delle prestazioni dell’assicurazione obbligatoria per le indennità economiche di malattia. Per retribuzione media globale giornaliera si intende l’importo che si ottiene dividendo per trenta l’importo totale della retribuzione del mese precedente a quello nel corso del quale ha avuto inizio il congedo…”
Ebbene, nella citata pronuncia la S. C. ha precisato che il rinvio ai criteri previsti per l’erogazione delle prestazioni dell’assicurazione obbligatoria contro le malattie deve intendersi riferito esclusivamente agli istituti che disciplinano l’indennità di malattia, mentre “Per il resto, l’indennità di malattia gode di una propria disciplina “autonoma in ordine alla specifica indicazione dell’evento protetto, dei soggetti beneficiari e del livello di prestazioni garantite all’avente diritto. Soprattutto, vi è differenza tra le due tutele in ragione delle modalità di finanziamento”.
La disciplina delle modalità di calcolo del trattamento economico di maternità si rinviene, dunque, esclusivamente nel citato art. 23 che richiama solo le voci retributive che concorrono a determinare la base di calcolo delle indennità economiche di malattia, mentre nulla dice in ordine alla misura della loro computabilità.
Del resto, la norma stabilisce una specifica disciplina di calcolo, prevedendo espressamente che il parametro da prendere a riferimento per determinare l’indennità di maternità (nella misura dell’80%) sia costituito dalla “retribuzione media globale giornaliera”, il che appare configgere con la decurtazione del 50% di una delle voci che compongono la retribuzione stessa.
Come evidenziato dalla S.C., tali conclusioni risultano avvalorate anche dalla considerazione che “viene in rilievo la particolare tutela della maternità, che il D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 23 è finalizzato a garantire, in armonia con gli artt. 30,31 e 37 Cost., privilegiando, anche in via di interpretazione sistematica, un criterio di maggior mantenimento possibile del livello retributivo immediatamente precedente al congedo rispetto a criteri che, come quelli per il computo dell’indennità di malattia, comportano una attribuzione parziale di alcune voci retributive. Ciò risulta anche conforme agli indirizzi costituzionali secondo i quali l’indennità è diretta ad assicurare alla donna lavoratrice la possibilità di vivere l’evento senza una radicale riduzione del tenore di vita (Corte Costituzionale nr. 132 del 1991 e nr. 271 del 1999) ed, altresì, agli indirizzi e alla legislazione Europea (a partire, in particolare, dalle direttive nr. 86/613/CEE, nr. 92/85/CE e nr. 96/34/CE) ove da tempo, sia a livello dell’Unione nel suo complesso sia da parte dei singoli Stati, si riconosce che la tutela della maternità può favorire l’aumento dell’occupazione femminile che, a sua volta, può avere ricadute positive sulla sostenibilità del modello sociale, sul miglioramento del tasso di crescita del sistema economico e sulla riduzione del rischio di povertà delle famiglie in generale (in motivazione, Cass. nr. 5361 del 2012)” (Cassazione civile sez. lav., 11/05/2018, n. 11414).

Assodato, dunque, alla luce delle considerazioni che precedono, che sia la A s.p.a. – nell’effettuare le anticipazioni durante la fruizione, da parte della ricorrente, del secondo periodo di astensione dal lavoro per maternità – sia l’INPS (prima IPSEMA) – nell’effettuare i pagamenti dell’indennità di maternità a favore della ricorrente in entrambi i periodi di astensione dal lavoro – hanno errato nell’applicazione delle norme di legge vigenti, occorre passare a verificare se ciò configuri una discriminazione.
Come noto, l’art. 25 del d.lgs. 11 aprile 2006 n. 198 enuclea, nell’ambito della disciplina delle pari opportunità tra uomo e donna, una nozione di discriminazione diretta (“qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento, nonchè l’ordine di porre in essere un atto o un comportamento, che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga”) ed una nozione di discriminazione indiretta (“Si ha discriminazione indiretta, ai sensi del presente titolo, quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, purchè l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari”).
Entrambe le nozioni, facendo riferimento ad un “trattamento meno favorevole” rispetto a quello di altri o ad una posizione di “particolare svantaggio” rispetto ad altri lavoratori, evidentemente, richiedono un termine di comparazione: proprio nel giudizio relazionale tra lavoratori di entrambi i sessi che versano in situazione analoga emerge, invero, il carattere discriminatorio diretto o indiretto della disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento.
La norma di legge in esame trae il suo fondamento, oltre che dall’art. 3 della Costituzione, dal diritto dei Trattati (Trattato dell’Unione Europea – versione consolidata – Artt. 2 e 3, Trattato sul Funzionamento dell’ Unione Europea art. 157 (1) e (2), Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea) secondo l’interpretazione degli stessi fornita dalla Corte di Giustizia nonchè dalle Direttive che ha hanno delineato il divieto di discriminazione sotto diversi profili (es. Direttiva 79/7/CEE, Direttiva 2004/113/CE, Direttiva 2006/54/CE, Direttiva 2010/41/UE, in materia di parità di trattamento tra uomini e donne).
Ebbene, dall’analisi della evoluzione della giurisprudenza della Corte di Giustizia emerge una chiara tendenza a ravvisare nei comportamenti lesivi nei confronti di una donna in ragione del suo stato di maternità – anche in assenza di un termine di comparazione per la medesima situazione fattuale – una discriminazione diretta in base al sesso (si veda, già prima della vigenza della Direttiva 92/85/CE sulla tutela dei diritti delle lavoratrici madri, Dekker, C – 177/1988 ove la Corte ha ritenuto che il rifiuto di assunzione di una donna in stato di gravidanza, pur se motivato da ragioni economiche in relazione a circostanze di fatto incomparabili con quelle di altri lavoratori, fosse da ricondurre ad una “discriminazione diretta a motivo di sesso”, poiché tale rifiuto “può opporsi solo alle donne”; successivamente v. Tele Danmark C-109/00 sul licenziamento della lavoratrice madre; Marìa Gomez C-342/01 sul godimento delle ferie da parte della donna in maternità nel periodo diverso dal congedo per maternità; Mayer C-342/01 sul mantenimento dei benefici previdenziali nel periodo di maternità; Kiiski C-116/06 sulle modalità di fruizione del congedo parentale della madre di più figli). Tali approdi giurisprudenziali costituiscono la manifestazione della evidente difficoltà nell’individuare un termine di paragone rispetto alla peculiare situazione in cui versa la lavoratrice madre.
Tenendo conto di tale stato dell’arte, significativamente la direttiva 2006/54/CE (riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego) nel considerando n. 23 richiama l’orientamento della Corte di Giustizia secondo cui “qualsiasi trattamento sfavorevole nei confronti della donna in relazione alla gravidanza o alla maternità costituisce una discriminazione diretta fondata sul sesso” affermando che “Pertanto, occorre includere esplicitamente tale trattamento nella presente direttiva”.
Proprio in attuazione della direttiva in esame, dunque, il quadro normativo interno è stato innovato dal d.lgs. n. 5 del 2010 attraverso l’introduzione, nel corpo dell’art. 25 d.lgs. 11 aprile 2006 n. 198, del comma 2-bis, a mente del quale “Costituisce discriminazione, ai sensi del presente titolo, ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonchè di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti”.
Dalle stesse parole utilizzate dal legislatore risulta evidente la finalità estensiva della nozione di discriminazione enucleata nei primi due commi dell’articolo in esame, non richiedendosi, al fine di configurare una discriminazione vietata ai sensi del comma 2-bis, la comparazione con il trattamento riservato ad altri lavoratori bensì risultando sufficiente l’esistenza di un “trattamento meno favorevole” rispetto a quello effettivamente spettante, posto in essere “in ragione” dello stato di gravidanza, maternità o paternità oppure “in ragione” della titolarità dei relativi diritti oppure, ancora, “in ragione dell’esercizio dei relativi diritti”.
In altri termini, il trattamento meno favorevole deve, soltanto, porsi in connessione oggettiva – risultando senza dubbio esclusa la necessità di un collegamento sotto il profilo soggettivo e finalistico dell’azione (per tutte v. Cassazione civile sez. lav., 05/04/2016, n.6575; Cassazione civile sez. lav., 09/06/2017, n.14456) – con lo stato di gravidanza, maternità o paternità ovvero con la titolarità e l’esercizio dei diritti connessi a tale stato.
Del resto, la ratio dell’inserimento, all’interno dell’art. 25 cit., del comma 2-bis, non può che essere costituita dalla volontà di ricomprendere nella nozione di discriminazione ipotesi non ascrivibili ai casi contemplati nei commi 1 e 2 del medesimo articolo (che, come visto, presuppongono non solo “un effetto pregiudizievole” o “uno svantaggio” rispetto ad un lavoratore di altro sesso, ma anche l’ipotizzabilità di una “situazione analoga”), così da tutelare l’effettività dell’esercizio di tutti i diritti connessi allo stato di lavoratrice madre.
A ben vedere, infatti, l’esclusione o la diminuzione di tali diritti costituisce, in sé, una discriminazione, senza necessità di effettuare alcun giudizio relazionale poiché la piena fruizione dei diritti stessi è considerata strumento essenziale per garantire una sostanziale parità di trattamento.
Calando tali principi nel caso di specie, occorre considerare che, come noto, nel periodo in cui gode del diritto all’astensione dal lavoro per maternità, la lavoratrice donna ha diritto a percepire, con oneri a carico del sistema previdenziale, una indennità tale da mantenere quanto più possibile il livello retributivo precedente al congedo, al fine di garantirle un tenore di vita analogo. Nella comparazione tra gli interessi in gioco, il legislatore ha stabilito che il livello di garanzia debba essere individuato nella misura dell’80% della retribuzione del mese antecedente all’astensione dal lavoro.
Stando così le cose, appare evidente che la riduzione delle somme corrisposte alla lavoratrice durante il periodo di congedo per maternità al di sotto del limite previsto dalla legge, configuri un trattamento meno favorevole connesso oggettivamente all’esercizio del diritto di astensione dal lavoro per maternità e, dunque, una discriminazione.
Va, pertanto, dichiarata la natura discriminatoria del comportamento posto in essere dalla A s.p.a. nell’effettuare le anticipazioni durante la fruizione, da parte della ricorrente, del secondo periodo di astensione dal lavoro per maternità e dall’INPS nell’effettuare i pagamenti dell’indennità di maternità a favore della ricorrente, in entrambi i periodi di astensione dal lavoro.
Trattandosi di condotta discriminatoria già conclusa – non godendo la ricorrente attualmente del diritto all’astensione dal lavoro per maternità – non può essere ordinata la cessazione del comportamento illegittimo, bensì, soltanto, la rimozione dei relativi effetti, costituiti dal pregiudizio economico subito dalla lavoratrice per effetto della percezione di una indennità inferiore all’80% della retribuzione relativa al mese precedente rispetto al congedo.

Tale pregiudizio economico va quantificato nella differenza tra quanto corrisposto alla lavoratrice a titolo di indennità di maternità (ovvero, secondo quanto risulta dagli estratti Ipsema – Inps depositati da parte ricorrente e non contestati ex adverso, euro 16.061,1, corrispondente alla paga giornaliera di euro 34,54, nel primo periodo di maternità ed euro 15.326,51, corrispondente alla paga giornaliera di euro 38,41, nel secondo periodo di maternità, considerando i 399 giorni che risultano dall’estratto conto previdenziale) e quanto sarebbe dovuto essere corrisposto dando corretta applicazione al disposto degli artt. 22 e 23 d.lgs n. 151 del 2001.
A tali fini, la retribuzione media globale giornaliera va determinata in euro 48,92 con riferimento al primo periodo di maternità ed in euro 47,11, con riferimento al secondo periodo di maternità, sulla scorta dei conteggi prodotti da parte ricorrente, considerando che i criteri di computo adottati e la corrispondenza delle somme ivi indicate rispetto a quelle erogate a titolo di retribuzione alla lavoratrice nei mesi di aprile 2009 e di settembre 2011 non sono stati oggetto di specifica contestazione da parte dei resistenti.
Ed, infatti, l’INPS si è limitato a contestare i conteggi di parte ricorrente “in quanto e laddove muovono da dati difformi dall’estratto contributivo”, così non contestando il computo della retribuzione media globale giornaliera (evidentemente fondato su dati non presenti nell’estratto contributivo) bensì limitando le proprie doglianze alla quantificazione della indennità di maternità corrisposta e del numero di giornate effettive di astensione dal lavoro (dati indicati nell’estratto contributivo). Di conseguenza, come si è sopra detto, ai fini del computo della paga giornaliera corrisposta alla lavoratrice si è avuto riguardo ai dati risultanti dall’estratto contributivo e non – laddove divergenti – a quelli indicati nei conteggi di parte ricorrente (non supportati da alcun sostegno probatorio).
Quando alla contestazione, sollevata da A s.p.a., secondo cui la ricorrente al tempo della fruizione del secondo congedo per maternità avrebbe seguito un orario di lavoro part-time, la stessa risulta estremamente generica, non essendo stata neppure allegata la presunta percentuale di part-time, il che evidentemente impedisce alla controparte di spiegare una compiuta difesa ad al Giudice di operare una diversa quantificazione dell’indennità di maternità spettante alla lavoratrice.
In ogni caso, vale rilevare, per completezza, che non risulta, certo, sufficiente a provare l’effettivo svolgimento della prestazione di lavoro a tempo parziale nel mese antecedente a quello di inizio del congedo per maternità (settembre 2011), il semplice rilievo che nella terza pagina della busta paga di ottobre 2011 sia inserito il codice attività PT00 né la circostanza che nel gennaio 2013 la retribuzione corrisposta alla lavoratrice sia stata computata su 13 giorni anziché 33 o l’eventualità che nel maggio 2013 le parti abbiamo concordato una variazione dell’orario part-time.
Alla luce di tali considerazioni, l’esatta quantificazione del pregiudizio economico subito dalla ricorrente è la seguente: in relazione al primo periodo di astensione dal lavoro per maternità euro 48,92-34,54 = euro 14,38 x 465 giorni = euro 6.688,19; in relazione al secondo periodo di astensione dal lavoro per maternità euro 47,11-38,41 x 399 giorni = euro 3.471,3. Al fine di pervenire ad un integrale ristoro del pregiudizio economico subito, tale somma deve essere maggiorata degli interessi legali, computati mese per mese dal giorno in cui doveva essere pagata l’indennità di maternità fino al momento dell’effettivo soddisfo.
Come sopra precisato, la condanna al pagamento di tale somma in favore della lavoratrice può essere resa nei soli confronti di INPS, stante la sottoposizione della A s.p.a. alla procedura di amministrazione straordinaria.
Nei rapporti tra la ricorrente e la A s.p.a. in a.s. la soccombenza reciproca rende equa la compensazione delle spese di lite.
Nei rapporti tra la ricorrente e l’INPS, le spese di lite, liquidate in dispositivo, seguono come di norma la soccombenza e vanno distratte in favore del procuratore dichiaratosi antistatario.

P.Q.M.

Ogni altra istanza disattesa, dichiara la carenza di legittimazione passiva della A s.p.a. in a.s. con riferimento alla domanda relativa al primo periodo di astensione dal lavoro per maternità della ricorrente.
Dichiara l’improcedibilità della domanda di rimozione degli effetti della discriminazione avanzata nei confronti di A s.p.a. in a.s.
Dichiara la natura discriminatoria del comportamento posto in essere dalla A s.p.a. in a.s. nell’effettuare le anticipazioni durante la fruizione, da parte della ricorrente, del secondo periodo di astensione dal lavoro per maternità e dall’INPS nell’effettuare i pagamenti dell’indennità di maternità a favore della ricorrente, in entrambi i periodi di astensione dal lavoro.
Condanna l’INPS alla rimozione degli effetti della discriminazione con il pagamento in favore dalla ricorrente della somma di euro 10.159,49, oltre interessi legali computati secondo i criteri indicati in motivazione.

Nei rapporti tra la ricorrente e la Al s.p.a. in a.s. compensa integralmente le spese di lite.
Condanna l’INPS al pagamento in favore della ricorrente delle spese di giudizio, che liquida in complessivi € 2.310 di cui € 2.008,00 per compensi ed € 302 per spese generali oltre iva e cpa, da distrarsi.
Si comunichi.
Civitavecchia, 8.02.2020
Il Giudice
Dott.ssa Irene Abrusci