Discriminazione lavoratori a tempo determinato, diritto al riconoscimento dell’anzianità di servizio maturata con i contratti a temine Corte di Cassazione, sentenza del 28.05.2020
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –
Dott. TORRICE Amelia – rel. Consigliere –
Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –
Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –
Dott. SPENA Francesca – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 11669-2015 proposto da:
MINISTERO DELL’ISTRUZIONE, DELL’UNIVERSITA’ E DELLA RICERCA, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia ex lege in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI 12;
– ricorrente –
contro
BU.PA., N.L., T.S.,
C.A.G., BA.SI., B.S., L.M.,
P.M.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 39/2015 della CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositata il 29/01/2015 R.G.N. 543/2014;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 28/01/2020 dal Consigliere Dott. AMELIA TORRICE;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CIMMINO ALESSANDRO che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato PAOLA DE NUNTIS.
Fatto
FATTI DI CAUSA
- La Corte d’Appello di Ancona, con la sentenza indicata in epigrafe, ha rigettato l’appello del Ministero dell’Istruzione Università e Ricerca avverso la sentenza del Tribunale di Pesaro che aveva accolto il ricorso degli odierni intimati, docenti assunti con contratti a tempo determinato di durata annuale, in dichiarata applicazione della clausola 4 dell’Accordo Quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE, e aveva condannato il Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca al pagamento delle differenze retributive derivanti dall’applicazione, in misura pari a quelle dei colleghi assunti a tempo indeterminato, degli aumenti conseguenti all’anzianità maturata, computata con riferimento a tutti i periodi di prestazione a tempo determinato nel limite della prescrizione.
- La Corte territoriale, richiamati i principi affermati dalla Corte di Giustizia quanto all’interpretazione della clausola 4 dell’Accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE, ha ritenuto non giustificata da ragioni oggettive la disparità di trattamento ed ha respinto anche il motivo di appello con il quale il Ministero aveva censurato il mancato accoglimento dell’eccezione di prescrizione.
- Ha qualificato di natura risarcitoria la domanda proposta dagli originari ricorrenti e ne ha tratto la conseguenza dell’applicabilità del termine ordinario decennale di prescrizione.
- Avverso questa sentenza il Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca, ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi.
Diritto
RAGIONI DELLA DECISIONE
- Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione della direttiva 1999/70/Ce, del D.Lgs. n. 297 del 1994, artt. 485, 489 e 526, del D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, artt. 6 e 10, del D.L. 13 maggio 2011, n. 70, art. 9, comma 18 come convertito con modd. dalla L. 12 luglio 2011, n. 106, art. 1, comma 2, della L. 3 maggio 1999, n. 124, art. 4, degli artt. 77, 79 e 106 del CCNL comparto scuola 29.11.2007, del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, artt. 36 e 45″.
- Assume, in sintesi, che il ricorso al contratto a termine nell’ambito scolastico risponde ad esigenze oggettive e temporanee e, pertanto, in assenza della necessaria continuità del rapporto, non può essere valorizzata a fini retributivi l’anzianità di servizio.
- Aggiunge che la contrattazione collettiva ha equiparato il personale assunto a tempo determinato a quello stabilmente immesso in ruolo quanto alle ferie, alle festività, ai permessi, ai congedi ordinari e straordinari, all’aspettativa, alla malattia e dalla maternità, sicchè è da escludere l’ipotizzata discriminazione. Invoca poi la disciplina dettata dal T.U. in tema di ricostruzione della carriera per sostenere che il riconoscimento integrale dell’anzianità di servizio prestato in forza di contratti a termine comporterebbe una discriminazione alla rovescia, ossia in danno degli assunti a tempo indeterminato.
- Con il secondo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 2947 c.c., dell’art. 2948 c.c., della L. n. 183 del 2011, art. 4, comma 43, del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5.
- Il Ministero sostiene, in sintesi, che la domanda con la quale l’assunto a tempo determinato rivendica il medesimo trattamento economico riservato al dipendente a tempo indeterminato non ha natura risarcitoria bensì retributiva e pertanto il termine di prescrizione è quello quinquennale previsto dall’art. 2948 c.c..
- Aggiunge che nella specie non può venire in rilievo l’omessa trasposizione della direttiva, perchè quest’ultima è stata recepita con il D.Lgs. n. 368 del 2001 e precisa che, in ogni caso, anche così qualificata l’azione sarebbe soggetta al termine quinquennale fissato dalla L. n. 183 del 2011, art. 4.
- Infine, richiama il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 573/2003 e sostiene che in caso di successione di più contratti a termine tra le stesse parti, ciascuno dei quali illegittimo ed efficace, il termine dei crediti retributivi inizia a decorrere per quelli che sorgono nel corso del rapporto dal giorno della loro insorgenza e per quelli che maturano alla cessazione a partire da tale momento.
- Il primo motivo di ricorso è infondato, perchè la sentenza impugnata è conforme all’orientamento, consolidatosi nella giurisprudenza di questa Corte a partire dalle sentenze nn. 22558 e 23868 del 2016, secondo cui “nel settore scolastico, la clausola 4 dell’Accordo quadro sul rapporto a tempo determinato recepito dalla direttiva n. 1999/70/CE, di diretta applicazione, impone di riconoscere la anzianità di servizio maturata al personale del comparto scuola assunto con contratti a termine, ai fini della attribuzione della medesima progressione stipendiale prevista per i dipendenti a tempo indeterminato dai c.c.n.l. succedutisi nel tempo, sicchè vanno disapplicate le disposizioni dei richiamati c.c.n.l. che, prescindendo dalla anzianità maturata, commisurano in ogni caso la retribuzione degli assunti a tempo determinato al trattamento economico iniziale previsto per i dipendenti a tempo indeterminato”.
- All’affermazione del principio di diritto, richiamato in numerose pronunce successive (cfr. fra le tante Cass.n. 30573, 20918, 19270 del 2019 e Cass. nn. 28635, 26356, 26353, 6323 del 2018), la Corte è pervenuta sulla base delle indicazioni fornite dalla Corte di Giustizia, la quale da tempo ha affermato che:
- a) la clausola 4 dell’Accordo esclude in generale ed in termini non equivoci qualsiasi disparità di trattamento non obiettivamente giustificata nei confronti dei lavoratori a tempo determinato, sicchè la stessa ha carattere incondizionato e può essere fatta valere dal singolo dinanzi al giudice nazionale, che ha l’obbligo di applicare il diritto dell’Unione e di tutelare i diritti che quest’ultimo attribuisce, disapplicando, se necessario, qualsiasi contraria disposizione del diritto interno (Corte Giustizia 15.4.2008, causa C- 268/06, Impact; 13.9.2007, causa C-307/05, Del Cerro Alonso; 8.9.2011, causa C-177/10 Rosado Santana);
- b) il principio di non discriminazione non può essere interpretato in modo restrittivo, per cui la riserva in materia di retribuzioni contenuta nell’art. 137, n. 5 del Trattato (oggi art. 153, n. 5), “non può impedire ad un lavoratore a tempo determinato di richiedere, in base al divieto di discriminazione, il beneficio di una condizione di impiego riservata ai soli lavoratori a tempo indeterminato, allorchè proprio l’applicazione di tale principio comporta il pagamento di una differenza di retribuzione” (Del Cerro Alonso, cit., punto 42);
- c) le maggiorazioni retributive che derivano dall’anzianità di servizio del lavoratore, costituiscono condizioni di impiego ai sensi della clausola 4, con la conseguenza che le stesse possono essere legittimamente negate agli assunti a tempo determinato solo in presenza di una giustificazione oggettiva (Corte di Giustizia 9.7.2015, in causa C177/14, Regojo Dans, punto 44, e giurisprudenza ivi richiamata);
- d) a tal fine non è sufficiente che la diversità di trattamento sia prevista da una norma generale ed astratta, di legge o di contratto, nè rilevano la natura pubblica del datore di lavoro e la distinzione fra impiego di ruolo e non di ruolo, perchè la diversità di trattamento può essere giustificata solo da elementi precisi e concreti di differenziazione che contraddistinguano le modalità di lavoro e che attengano alla natura ed alle caratteristiche delle mansioni espletate (Regojo Dans, cit., punto 55; negli stessi termini Corte di Giustizia 5.6.2018, in causa C677/16, Montero Mateos, punto 57 e con riferimento ai rapporti non di ruolo degli enti pubblici italiani Corte di Giustizia 18.10.2012, cause C302/11 e C305/11, Valenza; 7.3.2013, causa C393/11, Bertazzi).
- I richiamati principi sono stati tutti ribaditi dalla Corte di Lussemburgo nella motivazione della recente sentenza del 20.6.2019 in causa C-72/18, Ustariz Arostegui, secondo cui “la clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro deve essere interpretata nel senso che essa osta a una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, che riserva il beneficio di un’integrazione salariale agli insegnanti assunti nell’ambito di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato in quanto funzionari di ruolo, con esclusione, in particolare, degli insegnanti assunti a tempo determinato come impiegati amministrativi a contratto, se il compimento di un determinato periodo di servizio costituisce l’unica condizione per la concessione di tale integrazione salariale”.
- Sulla base delle indicazioni fornite dalla Corte di Lussemburgo è stata recentemente decisa la questione, che presenta analogie con quella oggetto di causa, relativa al riconoscimento, ai fini della ricostruzione della carriera del personale della scuola successivamente immesso in ruolo, del servizio prestato in forza di rapporti a termine ed anche in quel caso è stato ribadito che il principio di non discriminazione impone di disapplicare la normativa interna che riserva all’assunto a tempo determinato un trattamento meno favorevole rispetto a quello dei quale gode il dipendente ab origine a tempo indeterminato (Cass. nn. 31149 e 31150 del 2019).
- Non si ravvisano, pertanto, ragioni che possano indurre il Collegio a rimeditare l’orientamento già espresso, al quale va data continuità, perchè anche in questa sede il Ministero sovrappone e confonde il principio di non discriminazione, previsto dalla clausola 4 dell’Accordo quadro, con il divieto di abusare della reiterazione del contratto a termine, oggetto della disciplina dettata dalla clausola 5 dello stesso Accordo.
- Che i due piani debbano, invece, essere tenuti distinti emerge già dalla lettura della clausola 1, con la quale il legislatore Eurounitario ha indicato gli obiettivi della direttiva, volta, da un lato a “migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo il rispetto del principio di non discriminazione”; dall’altro a “creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato”.
- L’obbligo posto a carico degli Stati membri di assicurare al lavoratore a tempo determinato “condizioni di impiego” che non siano meno favorevoli rispetto a quelle riservate all’assunto a tempo indeterminato “comparabile”, sussiste, quindi, anche a fronte della legittima apposizione del termine al contratto, giacchè detto obbligo è attuazione, nell’ambito della disciplina del rapporto a termine, del principio della parità di trattamento e del divieto di discriminazione che costituiscono “norme di diritto sociale dell’Unione di particolare importanza, di cui ogni lavoratore deve usufruire in quanto prescrizioni minime di tutela” (Corte di Giustizia 9.7.2015, causa C-177/14, Regojo Dans, punto 32).
- Le considerazioni svolte nel primo motivo di ricorso prescindono dalle caratteristiche intrinseche delle mansioni e delle funzioni esercitate e fanno leva sulla natura non di ruolo del rapporto di impiego e sulla novità di ogni singolo contratto rispetto al precedente, già ritenuti dalla Corte di Giustizia non idonei a giustificare la diversità di trattamento (si rimanda alle sentenze richiamate nella lettera d) del punto n. 13 di questa sentenza), nonchè sulle modalità di reclutamento del personale nel settore scolastico e sulle esigenze che il sistema mira ad assicurare, ossia sulle ragioni oggettive che legittimano il ricorso al contratto a tempo determinato e che rilevano ai sensi della clausola 5 dell’Accordo quadro, da non confondere, per quanto sopra si è già detto, con le ragioni richiamate nella clausola 4, che attengono, invece, alle condizioni di lavoro che contraddistinguono i due tipi di rapporto in comparazione.
- Non vale, poi, ad escludere la violazione del principio di non discriminazione la circostanza che ad altri fini (ferie, festività, permessi, malattia, congedi) siano riconosciute al personale supplente le medesime garanzie delle quali godono gli assunti a tempo indeterminato, perchè la clausola 4 impone l’equiparazione in tutte le condizioni di impiego, ad eccezione di quelle che siano oggettivamente incompatibili con la natura a termine del rapporto.
- Il primo motivo, pertanto, va rigettato.
- Il secondo motivo è inammissibile per le ragioni già indicate da questa Corte in più pronunce, rese in controversie analoghe e decise all’esito dell’adunanza camerale del 16.2.2017 (cfr. fra le tante Cass. n. 9055, 9698, 9732, 9733, 9740 del 2017).
- E’ consolidato il principio secondo cui nel giudizio di cassazione l’interesse all’impugnazione, che va valutato in relazione ad ogni singolo motivo, deve essere apprezzato con riferimento all’utilità concreta che la parte può ricavare dall’eventuale accoglimento del gravame, e non può consistere in un mero interesse astratto ad una più corretta soluzione di una questione giuridica, sicchè va escluso ogniqualvolta la dedotta violazione di norme giuridiche, sostanziali o processuali, non abbia spiegato effetti in relazione alla soluzione adottata e sia, quindi, diretta all’emanazione di una pronuncia priva di rilievo pratico (cfr. Cass. n. 20689/2016, Cass. n. 15253/2010, Cass. n. 13373/2008; Cass. n. 11844/2006).
- Dal richiamato principio discende che, nel rispetto degli oneri di completezza e di specificità imposti dall’art. 366 c.p.c., il ricorrente è tenuto ad indicare nel ricorso gli elementi che consentano alla Corte di apprezzare l’utilità che potrebbe derivare dall’accoglimento del motivo e dalla cassazione della sentenza impugnata.
- L’esposizione dei fatti di causa richiesta dal richiamato art. 366 c.p.c., n. 3 è, infatti, finalizzata anche a porre il giudice di legittimità nella condizione di esercitare correttamente i poteri/doveri di cui all’art. 384 c.p.c., commi 2 e 4, che, letto alla luce del principio costituzionale della ragionevole durata del processo, impone alla Corte di cassazione di definire dinanzi a sè il giudizio e di astenersi dal rinvio ogniqualvolta la prosecuzione si risolverebbe in un inutile dispendio di attività processuale.
- A tanto il Ministero non ha provveduto perchè non ha precisato a quale periodo la domanda di ciascuno degli originari ricorrente si riferisse e in quale arco temporale si fossero svolti i rapporti a termine dedotti in giudizio, sicchè il motivo deve essere dichiarato inammissibile.
- Ferma la dichiarazione di inammissibilità, il Collegio ritiene che sussistano le condizioni per una pronuncia d’ufficio ai sensi dell’art. 363 c.p.c., comma 3, sulla questione che il motivo inammissibile di ricorso propone, poichè sulla natura dell’azione e sul termine di prescrizione alla stessa applicabile non si rinvengono pronunce di questa Corte ed appare opportuno l’esercizio della funzione nomofilattica, consentito dalla citata disposizione del codice di rito, perchè la giurisprudenza di merito ha espresso al riguardo orientamenti difformi.
- Da un lato si è ritenuto che la domanda fondata sul principio di non discriminazione, volta ad ottenere il riconoscimento del diritto alla progressione economica prevista, in ragione dell’anzianità, per gli assunti a tempo indeterminato, abbia natura retributiva e soggiaccia, in quale tale, al termine quinquennale previsto dall’art. 2948 c.c., n. 4; dall’altro che con la stessa si faccia valere una pretesa di natura risarcitoria, basata sulla violazione del diritto dell’Unione, e pertanto debbano valere i medesimi principi affermati da questa Corte, anche a Sezioni Unite, in tema di responsabilità dello Stato conseguente alla mancata o tardiva attuazione di direttive Eurounitarie, responsabilità che è stata qualificata di natura contrattuale e ritenuta soggetta al termine decennale di prescrizione.
- Non ritiene il Collegio che quest’ultima opzione interpretativa possa essere condivisa, in quanto l’orientamento citato opera nei casi in cui la norma comunitaria, preordinata ad attribuire diritti ai singoli, non sia dotata del carattere self executing e, pertanto, occorre che il diritto interno assicuri al destinatario della tutela “una congrua riparazione del pregiudizio subito per il fatto di non aver acquistato la titolarità di un diritto in conseguenza della violazione dell’ordinamento comunitario” (Cass. S.U. n. 9147/2009).
- Non è questa l’ipotesi che ricorre nella fattispecie giacchè, come si è detto al punto n. 10 lett. a) di questa sentenza, la clausola 4 dell’Accordo quadro, nell’escludere in via generale ed in termini non equivoci qualsiasi disparità di trattamento non obiettivamente giustificata nei confronti dei lavoratori a tempo determinato, ha carattere incondizionato e può essere fatta valere dal singolo dinanzi al giudice nazionale, che ha l’obbligo di applicare il diritto dell’Unione, disapplicando, se necessario, qualsiasi contraria disposizione del diritto interno e riservando all’assunto a termine il medesimo trattamento previsto per il dipendente a tempo indeterminato.
- Ciò implica che la pretesa che il singolo fa valere, nel rivendicare le stesse condizioni di impiego previste per il lavoratore comparabile, partecipa della medesima natura della condizione alla quale l’azione si riferisce e, pertanto, qualora la denunciata discriminazione sia relativa a pretese retributive, la domanda con la quale si rivendica il trattamento ritenuto di miglior favore va qualificata di adempimento contrattuale e soggiace alle medesime regole che valgono per la domanda che l’assunto a tempo indeterminato potrebbe, in ipotesi, azionare qualora quella stessa obbligazione non fosse correttamente adempiuta.
- Ne discende che, quanto alla prescrizione, non può essere applicato il termine ordinario decennale in luogo di quello, quinquennale, previsto dall’art. 2948 c.c., n. 4 per “tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi”, e dal n. 5 in relazione alle “indennità spettanti per la cessazione del rapporto di lavoro”, perchè è quest’ultimo il termine che vale per l’obbligazione alla quale si riferisce la domanda di equiparazione e perchè, diversamente, si verificherebbe una discriminazione “alla rovescia”, nel senso che al dipendente assunto a termine finirebbe per essere riservato un trattamento più favorevole rispetto a quello previsto per il lavoratore comparabile.
- Al riguardo va precisato che è alla normativa dettata dal codice civile che occorre fare riferimento perchè, sebbene nella fattispecie vengano in rilievo crediti di natura retributiva fatti valere dal dipendente nei confronti dello Stato, non può trovare applicazione la disciplina speciale dettata dal R.D.L. n. 295 del 1939, art. 2 nel testo modificato dalla L. n. 428 del 1985, art. 2 e tuttora vigente per il personale in regime di diritto pubblico, perchè la norma, in ragione del suo carattere di specialità, è divenuta inapplicabile all’impiego pubblico contrattualizzato D.Lgs. n. 165 del 2001, ex art. 69. La disposizione, infatti, detta regole che non possono essere qualificate di contabilità pubblica, giacchè incidono direttamente sui diritti soggettivi che scaturiscono dal rapporto di impiego.
- Quanto, poi, al dies a quo da assumere ai fini del calcolo del quinquennio, occorre innanzitutto ribadire il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte le quali, risolvendo il contrasto sorto sull’applicabilità ai rapporti a termine succedutisi fra le stesse parti della dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale dell’art. 2948 c.c., n. 4, sul presupposto che la sentenza della Corte Costituzionale n. 63/1966 presuppone l’instaurazione di un rapporto a tempo indeterminato non assistito da stabilità, hanno affermato che “nel caso che tra le stesse parti si succedano due o più contratti di lavoro a termine, ciascuno dei quali legittimo ed efficace, il termine prescrizionale dei crediti retributivi di cui all’art. 2948 c.c., n. 4, art. 2955 c.c., n. 2 e art. 2956 c.c., n. 1, inizia a decorrere per i crediti che sorgono nel corso del rapporto lavorativo dal giorno della loro insorgenza e per quelli che si maturano alla cessazione del rapporto a partire da tale momento, dovendo – ai fini della decorrenza della prescrizione – i crediti scaturenti da ciascun contratto considerarsi autonomamente e distintamente da quelli derivanti dagli altri e non potendo assumere alcuna efficacia sospensiva della prescrizione gli intervalli di tempo correnti tra un rapporto lavorativo e quello successivo, stante la “tassatività” della elencazione delle cause sospensive di cui agli artt. 2941 e 2942 c.c., e la conseguente impossibilità di estendere tali cause al di là delle fattispecie da quest’ultime norme espressamente previste” (Cass. S.U. n. 575/2003).
- Con la richiamata pronuncia (alla quale è stata data continuità da Cass. n. 20918/2019; Cass. n. 8996/2018; Cass. n. 14827/2018; Cass. n. 12161/2017; Cass. n. 22146/2014) le Sezioni Unite hanno osservato che il metus, ritenuto dal Giudice delle leggi motivo decisivo per addivenire alla dichiarazione di illegittimità costituzionale, presuppone l’esistenza di un rapporto a tempo indeterminato nel quale non sia prevista alcuna garanzia di continuità e, pertanto, quanto al rapporto a termine, è ravvisabile solo qualora, in conseguenza della riscontrata frode alla legge o della violazione dei limiti posti dalla normativa succedutasi nel tempo, si operi una conversione dei diversi contratti in un unico rapporto a tempo indeterminato e, quindi, “seppure per una fictio iuris, si presentano tutti i presupposti (esistenza di un unico rapporto lavorativo a tempo indeterminato e metus) che portano ad escludere – alla stregua dei summenzionati pronunziati della Corte Costituzionale – la decorrenza della prescrizione sino alla cessazione del rapporto lavorativo”. Invece, nel contratto a termine legittimamente stipulato, poichè il lavoratore ha solo diritto a che il rapporto venga mantenuto in vita sino alla scadenza concordata e l’eventuale risoluzione ante tempus non fa venir meno alcuno dei diritti derivanti dal contratto, non è configurabile quel metus costituente ragione giustificatrice della regolamentazione della prescrizione nel rapporto a tempo indeterminato non assistito dal regime di stabilità reale.
- Le ragioni sottese al principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite in relazione al rapporto di impiego privato inducono necessariamente a ritenere che nell’ambito dell’impiego pubblico contrattualizzato, nel quale opera il divieto posto dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36 anche nell’ipotesi di contratti a termine affetti da nullità debba valere la medesima regola fissata per i contratti validi ed efficaci, perchè, essendo impedita per legge la conversione in un unico rapporto a tempo indeterminato, non è riscontrabile la condizione, valorizzata dalla Corte Costituzionale ai fini della parziale dichiarazione di incostituzionalità e ritenuta imprescindibile dalle Sezioni Unite, ossia “il timore del recesso, cioè del licenziamento, che spinge o può spingere il lavoratore sulla via della rinunzia a una parte dei propri diritti” (Corte Cost. n. 63/1966).
- Va detto, inoltre, che il giudice delle leggi, chiamato a pronunciare sulla questione di legittimità costituzionale R.D.L. n. 295 del 1939, richiamato art. 2 oltre a circoscrivere espressamente al solo impiego privato gli effetti della pronuncia resa con la sentenza n. 63/1966, ha evidenziato che nel rapporto di pubblico impiego anche per le assunzioni temporanee non è configurabile una situazione di soggezione psicologica che potrebbe indurre a non esercitare il diritto, perchè l’impiegato è assistito da garanzie contro l’arbitraria risoluzione anticipata del rapporto ed inoltre perchè la non rinnovazione del rapporto a termine costituisce un “evento inerente alla natura del rapporto stesso. La previsione di essa non pone, pertanto, il lavoratore in una situazione di timore di un evento incerto, al quale egli sia esposto durante il rapporto, qual è il licenziamento nel rapporto di lavoro di diritto privato” (Corte Cost. n. 143/1969).
- L’applicabilità degli effetti della pronuncia n. 63/1966 ai soli rapporti di lavoro privati è stata, poi, ribadita dalla Corte con la sentenza n. 115/1975, con la quale si è escluso che la prescrizione possa non decorrere in pendenza di rapporto quando il datore di lavoro sia lo Stato o un ente pubblico, anche se di carattere economico, perchè in tale ultimo caso, pur a fronte della natura privatistica del contratto, la regolamentazione organica o la disciplina collettiva assicurano comunque che la fine del rapporto stesso possa essere conseguenza solo di “cause precise e determinate” (Corte Cost. n. 115/1975).
- Dalle pronunce citate emerge che ciò che va apprezzato per escludere la decorrenza della prescrizione in costanza di rapporto non è la mera precarietà in sè del rapporto stesso quanto l’esistenza di una condizione psicologica di metus, che nel lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni non si presenta in modo analogo a quanto avviene in quello privato, perchè l’azione del datore di lavoro pubblico, istituzionalmente vincolata al rispetto dei principi di buon andamento e di imparzialità, è astretta da parametri legali significativi, oltre che da vincoli organizzativi, che permangono anche dopo la contrattualizzazione dell’impiego e che pongono il datore di lavoro pubblico, la cui discrezionalità è vincolata dalla legge e dalla contrattazione collettiva, in condizione di operare sui dipendenti una pressione decisamente ridotta rispetto a quella che può esercitare il datore privato.
- In via conclusiva, sulla base delle considerazioni sopra esposte, va enunciato ex art. 363 c.p.c., comma 3, il seguente principio di diritto: “Nell’impiego pubblico contrattualizzato la domanda con la quale il dipendente assunto a tempo determinato, invocando il principio di non discriminazione nelle condizioni di impiego, rivendica il medesimo trattamento retributivo previsto per l’assunto a tempo indeterminato soggiace al termine quinquennale di prescrizione previsto dall’art. 2948 c.c., nn. 4 e 5 che decorre, anche in caso di illegittimità del termine apposto ai contratti, per i crediti che sorgono nel corso del rapporto lavorativo dal giorno della loro insorgenza e per quelli che si maturano alla cessazione del rapporto a partire da tale momento”.
- L’infondatezza del primo motivo e l’inammissibilità della seconda censura comportano il rigetto del ricorso.
- Non occorre provvedere sulle spese del giudizio in quanto gli originari ricorrenti non hanno svolto alcuna attività difensiva (sono rimasti intimati).
- Non sussistono le condizioni di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater perchè la norma non può trovare applicazione nei confronti di quelle parti che, come le Amministrazioni dello Stato, mediante il meccanismo della prenotazione a debito siano istituzionalmente esonerate, per valutazione normativa della loro qualità soggettiva, dal materiale versamento del contributo (Cass. S.U. n. 9938/2014; Cass. n. 1778/2016; Cass. n. 28250/2017).
P.Q.M.
La Corte:
rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 28 gennaio 2020.
Depositato in Cancelleria il 28 maggio 2020