discriminazione per motivi di handicap, sentenza Corte di Cassazione del 10 dicembre 2019
REPUBBLICA ITALIANA
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GIUSEPPE NAPOLETANO – Presidente
Dott. AMELIA TORRICE – Consigliere
Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO – Consigliere
Dott. CATERINA MAROTTA – Rel. Consigliere
Ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso 33526-2018 proposto da:
AZIENDA OSPEDALIERA….., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PISTOIA N. 6, presso lo studio
dell’avvocato ALESSANDRO BIAMONTE, che la rappresenta e difende;
– ricorrente principale –
Contro
L C
- Intimate –
Avverso la sentenza 4778/2018 della CORTE DI APPELLO DI NAPOLI, depositata il 25/9/2018, N.R.G. 1155/2018;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/12/2019 del Consigliere CATERINA MAROTTA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ALESSANDRO CIMMINO che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato ALESSANDRO BIAMONTE;
udito l’Avvocato CARMINE LOMBARDI;
FATTI DI CAUSA
- la Corte d’appello di Napoli, in accoglimento dell’impugnazione proposta da L C nei confronti dell’Azienda ospedaliera di Benevento, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava illegittima l’esclusione dall’assunzione del C quale vincitore del concorso pubblico per titoli ed esami per due posti di collaboratore amministrativo cat. D ex I. n. 68 del 1999 ed ordinava la rimozione di ogni atto discriminatorio pregiudizievole.
- XY, risultato vincitore di un concorso riservato alle categorie ex art. 8 I. n. 68 del 1999 (il cui bando prevedeva il permanere del requisito della disoccupazione in capo al portatore di disabilità sia al momento della domanda sia all’atto dell’assunzione), quindi escluso dall’assunzione per carenza del requisito della disoccupazione al momento dell’assunzione, dopo aver adito il TAR Campania Napoli, che aveva declinato la propria giurisdizione, aveva riassunto il giudizio innanzi al Tribunale di Benevento deducendo che il comportamento dell’Azienda costituisse discriminazione diretta dei disabili tenuto conto del fatto che nei concorsi relativi a soggetti non disabili la sussistenza dello stato di disoccupazione al momento dell’assunzione non veniva richiesto e che in altri analoghi concorsi riservati ai disabili tale requisito non era previsto.
Il ricorso era stato notificato anche a Xx e Yy, controinteressate.
3. Il Tribunale aveva respinto la domanda escludendo ogni discriminazione da parte dell’Azienda che si era attenuta alla normativa di legge a tutela dei disabili.
4.La Corte territoriale, nel riformare tale decisione, precisava innanzitutto che quella intrapresa dal C fosse un’azione per discriminazione ex art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011.
Evidenziava che il ricorrente avesse adempiuto al richiesto onere probatorio versando in atti innumerevoli bandi di concorso del comparto sanità interamente riservati ai disabili nei quali non era chiesto il requisito della disoccupazione all’atto dell’assunzione.
Rilevava che, a fronte di tali dati statistici, l’Azienda ospedaliera non avesse fornito alcuna prova contraria.
Richiamava in termini generali la portata innovativa della I. n. 68 del 1999 in tema di diritto al lavoro dei disabili ed il previsto ‘collocamento mirato’ e precisava che tale legge avesse confermato il sistema del doppio meccanismo di tutela dei disabili aspiranti al lavoro: quello dell’assunzione obbligatoria diretta e quello della riserva dei posti nei procedimenti concorsuali per la copertura di posti disponibili nelle piante organiche delle Pubbliche Amministrazioni.
In particolare evidenziava che l’art. 16 della I. n. 68 del 1999 prevedeva che la possibilità di partecipazione dei disabili ai pubblici concorsi “anche se non versino in stato di disoccupazione” e che tale inciso era stato eliminato dall’ art. 25, comma 9 bis, della medesima I. n. 114 del 2014.
Contestava l’assunto dell’Azienda secondo il quale ammettere il beneficio della riserva dei posti in favore dei disabili a prescindere dal loro stato di disoccupazione al momento dell’assunzione sarebbe come snaturare lo spirito della I. n. 68 del 1999, il cui fine è quello di collocare i disabili nel mondo del lavoro e riteneva che lo spirito della legge fosse quello di favorire appunto il collocamento mirato ossia realizzato attraverso il conferimento non di una qualunque occupazione ma di una occupazione conforme alle sue aspirazioni e capacità.
In conseguenza il beneficio della piena occupazione doveva essere accordato anche al disabile già occupato.
Discriminatorio era stato, pertanto, il comportamento dell’Azienda che aveva negato l’assunzione del C.
In mancanza di allegazione e prova respingeva, infine, la domanda risarcitoria.
5.Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso l’Azienda Ospedaliera ….. con quattro motivi di seguito ai quali è formulata richiesta di sottoposizione alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione su quattro questioni pregiudiziali.
6. Xy ha resistito con tempestivo controricorso e formulato altresì ricorso incidentale condizionato.
7.Entrambe le parti hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
- Con il primo motivo l’Azienda ricorrente denuncia violazione dell’art. 8 della I. n. 68 del 1999 nonché dell’art. 166 I. n. 68 del 1999, dell’art. 5 direttiva 2000/78/CE, degli artt. 1-3 della I. 216 del 2003, degliartt. 3, 51 e 97 Cost., dell’art. 2 della I. n. 67 del 2006, violazione e falsa applicazione dell’art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011, violazione della lex specialis del bando di concorso (art. 360, n. 3, cod. proc. civ.).
Censura la sentenza impugnata per aver violato il combinato disposto del bando di concorso con gli artt. 8 della I. n. 68 del 1999, degli artt. 1-3 della I. 216 del 2003, dell’art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011 dei quali l’Azienda avrebbe fatto, al contrario, corretta applicazione prevedendo l’insussistenza dello stato di disoccupazione al momento dell’assunzione, volto a garantire la tutela del disabile non occupato rispetto a quello occupato in ossequio al principio di parità di trattamento. Deduce che un’interpretazione quale quella fatta propria dalla Corte territoriale finirebbe per il perpetrare una discriminazione in danno dei concorrenti disabili che abbiano conservato la disoccupazione fino all’atto dell’assunzione.
Richiama quanto affermato dalla Corte cost. nella sentenza n. 190 del 2006 circa la persistenza, anche dopo l’entrata in vigore della I. n. 68 del 1999, del principio secondo cui le quote di riserva nelle assunzioni presso pubbliche amministrazioni postulano necessariamente lo stato di disoccupazione.
Sostiene che il principio di parità di trattamento debba essere valutato con riferimento alla posizione di chi permanga nello stato di disoccupazione anche all’atto dell’assunzione oltre che al momento della partecipazione.
- Con il secondo motivo l’Azienda denuncia nullità della sentenza per difetto assoluto di motivazione, motivazione apparente. Censura la sentenza impugnata per aver omesso di valutare sul piano argomentativo la posizione del soggetto disabile ancora disoccupato al momento dell’assunzione e di operare il necessario bilanciamento delle posizioni contrapposte. Richiama i principi affermati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in ordine alla discriminazione indiretta (in quanto la differenza non risiede tanto nel trattamento quanto piuttosto negli effetti che esso produce) riconducibile alla condizione di discriminazione subita per effetto di un medesimo trattamento riservato a persone che si trovino in situazioni diverse.
- Con il terzo motivo l’Azienda denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti nonché violazione degli artt. 3, 51 e 97 Cost., violazione dell’art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011, violazione dell’art. 2-5-7 direttiva 2000/78/CE, violazione degli artt. 27-21 Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 13 dicembre 2006 (entrata in vigore sul piano internazionale il 3 maggio 2008 e ratificata e resa esecutiva dall’Italia con I. 3 marzo 2009, n. 18), nonché degli artt. 20-21-27- 36 Carta dei Diritti Fondamentali UE, violazione dell’art. 8 della I. n. 68 del 1999.
Censura la sentenza impugnata per aver omesso l’esame sull’argomento peculiare relativo alla scelta dell’Amministrazione di tutelare in via prioritaria in termini antidiscriminatori la condizione dei disabili che permangono nello stato di disoccupazione al momento dell’assunzione.
- Con il quarto motivo l’Azienda denuncia violazione dell’art. 28, comma 4, d.lgs. n. 150 del 2011.
Critica la sentenza impugnata per aver desunto la prova delle discriminazione da elementi di fatto di ordine statistico relativi ad aziende diverse da quella da quella che tale discriminazione avrebbe operato, in contrasto con l’inequivoca formulazione letterale della norma.
- Chiede, infine, che vengano sottoposte alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, le seguenti questioni: a) se gli artt. 1, 5, 7 della direttiva 2000/78/CE, nonché gli artt. 21 e 26 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea ostino ad una disciplina nazionale che, ai fini dell’accesso del disabile al lavoro, contemplino, in presenza di una procedura concorsuale, che la condizione di inoccupazione sussista sia al momento della domanda sia all’atto dell’assunzione e che, ai fini dell’attuazione degli anzidetti principi eurounitari, debba darsi priorità alla condizione del soggetto affetto da disabilità che versi in tale duplice condizione (iscrizione nelle liste anche al momento dell’assunzione, oltre che a quello della domanda); b) se gli artt. 1, 5, 7 della direttiva 2000/78/CE, nonché gli artt. 21 e 26 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea ostino a una disciplina nazionale quale quella di cui all’art. 8 I. n. 68 del 1999 che vada interpretata nel senso di postulare il possesso del requisito della iscrizione nelle liste speciali e dunque la inoccupazione, al momento dell’assunzione, oltre che della domanda; c) se gli artt. 1, 5, 7 della direttiva 2000/78/CE, nonché gli artt. 21 e 26 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea ostino all’attuazione di una regolamentazione della procedura concorsuale riservata che preveda, quale requisito di accesso al lavoro del disabile, la condizione dell’iscrizione nelle liste speciali sia al momento della domanda, sia all’atto dell’assunzione; d) se gli artt. 1, 5, 7 della direttiva 2000/78/CE, gli artt. 21 e 26 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea nonché i principi di non discriminazione, parità di trattamento e pubblicità impongano una stretta interpretazione delle clausole del bando così da attribuire priorità alla condizione del disabile ancora inoccupato al momento dell’assunzione (così come previsto nel bando quale presupposto a pena di esclusione) rispetto al vincitore che, ancorché disabile, non sia più disoccupato al momento dell’assunzione.
- Con l’unico motivo di ricorso incidentale (condizionato) il C denuncia la violazione dell’art. 1336 cod. civ. anche in relazione all’art. 1351 cod. civ. nonché del d.lgs. n. 165 del 2001, art. 35.
Censura la sentenza impugnata per non aver adottato alcuna decisione sulla domanda di tutela del diritto soggettivo all’assunzione susseguente all’avvenuta approvazione della graduatoria da parte dell’Azienda, domanda proposta in sede di riassunzione innanzi al Tribunale, illustrata nella memoria conclusionale e ribadita nell’atto di appello.
- Il ricorso principale è fondato nei termini che di seguito si illustrano.
- Come chiarito dalla Corte territoriale, quella introdotta dal C è un’azione per risarcimento danni per discriminazione ex art. 28 del d.lgs. n. 150 del 2011. Non è pertanto in discussione il comportamento dell’Azienda ospedaliera sotto il profilo del rispetto dei canoni generali di correttezza e buona fede (i quali normalmente si traducono sia nell’obbligo di adottare regole concorsuali che pongano i candidati in una condizione di assoluta parità sia nell’obbligo di imparzialità dei criteri valutativi) ovvero sotto quello dell’adozione di comportamenti manifestamente inadeguati o irragionevoli (come, ad esempio, la sottoposizione dei candidati a prove palesementeincongruenti rispetto alle mansioni di destinazione) né tampoco è fatta valere in via autonoma la violazione della I. n. 48 del 1999 sotto il profilo delle quote di riserva (art. 16, comma 2, nella formulazione ratione temporis applicabile), legge, quest’ultima, che formerà oggetto di esame nella presente decisione (v. infra) ancorché al diverso fine di ritenere o meno integrato il prospettato comportamento antidiscriminatorio.
- La vicenda riguarda un concorso pubblico per Collaboratore Amministrativo – Cat. D bandito dall’Azienda Ospedaliera ricorrente e riservato ai candidati appartenenti alla categoria dei disabili di cui all’art. 8 della I. n. 68 del 1999.
In sede di bando era stato previsto espressamente, a pena di non ammissione, che “i candidati appartenenti alla categoria dei disabili dovranno essere iscritti all’elenco di cui all’art. 8 della legge n. 68 del 1999 sia al momento della partecipazione al concorso sia al momento dell’assunzione”.
A base della lamentata discriminazione il C ha posto la sua mancata immissione in servizio, dopo l’approvazione della graduatoria che lo aveva visto vincitore, per l’assenza del requisito, previsto dal bando, della disoccupazione (titolo per l’iscrizione nell’elenco di cui all’art. 8 della I. n. 68 del 1999). La discriminazione, dunque, nella prospettazione attorea sarebbe derivata dalla non immissione in servizio in quanto conseguenziale rispetto alla previsione del bando. E’, in particolare, in relazione a quest’ultima che l’originario ricorrente ha incentrato la denuncia di comportamento discriminatorio ed il ragionamento a base della richiesta di tutela è stato basato sul fatto che tale requisito negativo (insussistenza dello stato didisoccupazione al momento dell’assunzione) non fosse richiesto nei concorsi pubblici rivolti ai soggetti non disabili né fosse stato previsto in analoghi concorsi riservati a disabili banditi da altre amministrazioni.
- Occorre innanzitutto chiarire quale sia l’ambito di operatività della reclamata tutela antidiscriminatoria ed in quale complessivo contesto normativo la stessa si inserisca.
- Il diritto di tutti (e dunque anche delle persone disabili) all’uguaglianza dinanzi alla legge ed alla protezione contro le discriminazioni costituisce un diritto universale riconosciuto dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e dai relativi trattati cui tutti gli Stati membri dell’UE hanno aderito, relativi rispettivamente ai diritti civili e politici ed ai diritti economici, sociali e culturali, dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali di cui tutti gli Stati membri sono firmatari.
11.1. Tra le fonti internazionali regolamentanti, in particolar modo, la materia del lavoro meritano considerazione la Convenzione dell’Organizzazione internazionale del lavoro del 28 giugno 1958, entrata in vigore il 5 giugno 1960, che proibisce la discriminazione in materia di occupazione e condizioni di lavoro, le Regole per le pari opportunità dei disabili adottate dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 dicembre 1993 e la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità (UNCRPD) del 13 dicembre 2006, entrata in vigore sul piano internazionale il 3 maggio 2008, ratificata in Italia con I. n. 18 del 2009 e dall’UE nel dicembre 2010 (decisione 2010/48) sicché essa ha assunto rilievo vincolante per le istituzioni dell’UE e per i suoi Stati membri allorquando attuano il diritto dell’Unione. In particolare, tale ultima convenzione, alla lettera e) del preambolo riconosce che la disabilità è un «concetto in evoluzione» ed è il «risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali ed ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri»; all’art. 1, stabilisce che: «Scopo della presente convenzione è promuovere, proteggere e garantire il pieno ed uguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle persone con disabilità e promuovere il rispetto per la loro intrinseca dignità. Per persone con disabilità si intendono coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri» ed all’art. 2 prevede che: «Ai fini della presente convenzione: (…) per ‘discriminazione fondata sulla disabilità’ si intende qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione sulla base della disabilità che abbia lo scopo o l’effetto di pregiudicare o annullare il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo. Essa include ogni forma di discriminazione, compreso il rifiuto di un accomodamento ragionevole; per ‘accomodamento ragionevole’ si intendono le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento o l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali (…)».
11.2. Sempre nell’ambito delle fonti internazionali primario rilievo assume, poi, la già citata Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, adottata dal Consiglio d’Europa nel 1950, ratificata dall’Italia con legge 4 agosto 1955 n. 848, in seguito modificata e integrata mediante una serie di «protocolli». In particolare il divieto di discriminazione è sancito dall’art. 14 di tale Convenzione, che garantisce la parità di trattamento nel godimento dei diritti riconosciuti dalla stessa («Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione»).
La Convenzione non dà, invero, una definizione della discriminazione né riferisce il divieto espressamente anche alla disabilità, tuttavia, tanto per una estensione di tale divieto quanto per una definizione della discriminazione è possibile fare riferimento alla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, istituita dalla medesima Convenzione (v. infra).
11.3. Nell’ambito del Diritto dell’Unione assume, poi, significativa rilevanza la direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000 che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro indipendentemente dalla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali (cd. Direttiva “quadro”). Tale Direttiva fissa standards minimi comuni nelle leggi in vigore negli Stati membri UE contro la discriminazione fondata sulla razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale. L’obiettivo è creare un quadro giuridico generale per combattere queste forme di discriminazione e tradurre così nella pratica il principio della parità di trattamento.
Ai sensi dei considerando 11, 12, 16, 17, 20 e 21 della direttiva 2000/78/CE: «(11) La discriminazione basata su religione o convinzioni personali, handicap, età o tendenze sessuali può pregiudicare il conseguimento degli obiettivi del trattato CE, in particolare il raggiungimento di un elevato livello di occupazione e di protezione sociale, il miglioramento del tenore e della qualità della vita, la coesione economica e sociale, la solidarietà e la libera circolazione delle persone. (12) Qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su religione o convinzioni personali, handicap, età o tendenze sessuali nei settori di cui alla presente direttiva dovrebbe essere pertanto proibita in tutta la Comunità. Tale divieto di discriminazione dovrebbe applicarsi anche nei confronti dei cittadini dei paesi terzi, ma non comprende le differenze di trattamento basate sulla nazionalità e lascia impregiudicate le disposizioni che disciplinano l’ammissione e il soggiorno dei cittadini dei paesi terzi e il loro accesso all’occupazione e alle condizioni di lavoro. (…) (16) La messa a punto di misure per tener conto dei bisogni dei disabili sul luogo di lavoro ha un ruolo importante nel combattere la discriminazione basata sull’handicap. (17) La presente direttiva non prescrive l’assunzione, la promozione o il mantenimento dell’occupazione né prevede la formazione di un individuo non competente, non capace o non disponibile ad effettuare le funzioni essenziali del lavoro in questione, fermo restando l’obbligo di prevedere una soluzione appropriata per i disabili. (…)
(20) È opportuno prevedere misure appropriate, ossia misure efficaci e pratiche destinate a sistemare il luogo di lavoro in funzione dell’handicap, ad esempio sistemando i locali o adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro, la ripartizione dei compiti o fornendo mezzi di formazione o di inquadramento.
(21) Per determinare se le misure in questione danno luogo a oneri finanziari sproporzionati, è necessario tener conto in particolare dei costi finanziari o di altro tipo che esse comportano, delle dimensioni e delle risorse finanziarie dell’organizzazione o dell’impresa e della possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni». L’art. 1 della direttiva in parola, intitolato «Obiettivo», così recita: «La presente direttiva mira a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento». Il successivo art. 2, intitolato «Nozione di discriminazione», ai suoi paragrafi 1 e 2 prevede quanto segue: «l. Ai fini della presente direttiva, per ‘principio della parità di trattamento’ si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su uno dei motivi di cui all’articolo 1», «2. Ai fini del paragrafo 1: a) sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all’articolo 1, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga; b) sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di un particolare handicap, le persone di una particolare età o di una particolare tendenza sessuale, rispetto ad altre persone, a meno che: i) tale disposizione, tale criterio o tale prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari; o che li) nel caso di persone portatrici di un particolare handicap, il datore di lavoro o qualsiasi persona o organizzazione a cui si applica la presente direttiva sia obbligato dalla legislazione nazionale ad adottare misure adeguate, conformemente ai principi di cui all’articolo 5, per ovviare agli svantaggi provocati da tale disposizione, tale criterio o tale prassi». L’art. 3 della medesima direttiva, rubricato «Campo d’applicazione», al paragrafo 2 dispone che: «Nei limiti dei poteri conferiti alla Comunità, la presente direttiva, si applica a tutte le persone, sia del settore pubblico che del settore privato, compresi gli organismi di diritto pubblico, per quanto attiene: (…) e) all’occupazione ealle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la retribuzione; (…)». L’art. 5, intitolato «Soluzioni ragionevoli per i disabili», è così formulato: «Per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato Tale soluzione non è sproporzionata allorché l’onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili».
Tale direttiva è stata attuata, nell’ordinamento interno con d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216 che all’art. 2, commi 1 e 2, della prima ha riprodotto la definizione del principio di parità di trattamento, inteso come assenza di qualsiasi discriminazione, ed i concetti di discriminazione diretta e discriminazione indiretta ed al comma 3, dopo aver previsto l’ambito di applicazione del divieto di discriminazione (esteso, per quanto di interesse nel presente giudizio, all’accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione, all’occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni del licenziamento, all’accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione professionale, inclusi i tirocini professionali) ha individuato alcune possibili eccezioni: si tratta di quelle differenze di trattamento, che, pur risultando indirettamente discriminatorie, sono giustificate da finalità legittime perseguite dal datore di lavoro, nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, attraverso mezzi leciti e giustificati (“non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2 quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla religione, alle convinzioni personali, all’handicap, all’età o all’orientamento sessuale di una persona, qualora, per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività medesima”).
11.4. Nel diritto sovranazionale il principio di non discriminazione è altresì enunciato dai trattati fondativi e dalla carta dei diritti Fondamentali della Unione Europea.
A seguito delle modifiche operate dal Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007 ed entrato in vigore il 1° dicembre 2009, l’attuale assetto ordinamentale giuridico dell’Unione prevede il Trattato sulla Unione Europea (derivante dal Trattato UE creato dal trattato di Maastricht; anche TUE) che si occupa della discriminazione agli artt. 2, 3 e 6 da cui si evince che l’Unione è fondata sul rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza e che combatte ogni forma di discriminazione) e il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (derivante dalla riforma del Trattato CE; anche TFUE) che dedica alla discriminazione gli artt. 10 e 19 (in cui si ribadisce che l’Unione, nella definizione ed attuazione delle sue politiche e azioni, mira a combattere ogni forma di discriminazione fondata su sesso, razza, origine etnica, religione, convinzioni personali, disabilità, età, orientamento sessuale).
11.5. Poi assume rilievo la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Strasburgo il 12 dicembre 2007 da Parlamento europeo, Consiglio e Commissione, che riprende con adattamenti la Carta adottata nell’ambito del Consiglio europeo di Nizza del 2000, e che, dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, ha il medesimo valore giuridico dei trattati (art. 6 TUE): si pone dunque come pienamente vincolante per le istituzioni europee e gli Stati membri, allo stesso livello dei trattati e protocolli ad essi allegati; anche gli Stati membri sono tenuti a conformarvisi ma soltanto allorquando si trovino a dare attuazione al diritto dell’Unione.
La Carta proclama la centralità della persona fondata su valori indivisibili ed universali: libertà umana, uguaglianza e solidarietà. L’art. 21 vieta qualsiasi forma di discriminazione; ciò significa che è possibile contestare sia la normativa dell’UE che la legislazione nazionale che attua il diritto dell’Unione, qualora si ritenga che la Carta non sia stata rispettata. Tale disposizione è in stretto collegamento con il successivo art. 51 che definisce l’ambito di applicazione delle disposizioni della Carta. L’art. 26 stabilisce che l’UE «riconosce e rispetta il diritto delle persone con disabilità di beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità»; infine, l’art. 27 riconosce il diritto delle persone con disabilità al lavoro, su base di parità con gli altri.
Nel complesso si tratta di disposizioni che hanno come comune denominatore il diritto all’opportunità di mantenersi attraverso il lavoro in un mercato del lavoro e in un ambiente lavorativo aperti, che favoriscano l’inclusione e l’accessibilità alle persone con disabilità. Ciascuno Stato deve, perciò, garantire e favorire l’esercizio del diritto al lavoro, e ciò tanto nella fase di avviamento al lavoro quanto nel corso del rapporto di lavoro, prendendo al riguardo appropriate iniziative – anche attraverso misure legislative – a sostegno di forme di eguaglianza sostanziale.
11.6. La protezione contro la discriminazione, in Europa, è dunque sancita sia dal diritto dell’Unione sia dalla CEDU. I due sistemi sono in larga misura complementari e si rafforzano a vicenda anche se sussistono talune differenze. La CEDU tutela tutti gli individui nei territori soggetti alla giurisdizione dei quarantasette Stati firmatari mentre le direttive dell’UE contro la discriminazione garantiscono la protezione soltanto ai cittadini dei ventisette Stati membri; inoltre, ai sensi dell’art. 14 della CEDU, la discriminazione è vietata soltanto riguardo all’esercizio di un diritto riconosciuto nella Convenzione stessa (in forza del protocollo n. 12, il divieto di discriminazione assume una valenza a sé stante); invece secondo il diritto della non discriminazione dell’Unione, il divieto di discriminazione ha valenza a sé stante, seppur limitato a contesti specifici, quali il lavoro. Le istituzioni dell’UE sono giuridicamente vincolate a rispettare la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, e così le disposizioni in materia di non discriminazione. Anche gli Stati membri dell’UE sono tenuti a rispettare la Carta nel momento in cui applicano.
- Nell’ambito del diritto antidiscriminatorio dell’Unione rilievo importante ha avuto la giurisprudenza della Corte di Giustizia non soltanto per la sua opera di interpretazione delle specifiche direttive ma anche per l’enunciazione delle forme di tutela ad esso garantite, che hanno raggiunto la massima estensione possibile.
Tale percorso è stato segnato dall’individuazione dei principi generali del diritto comunitario e dal novero dei diritti fondamentali che dei primi costituiscono parte integrante, tra i quali compare il divieto generale di discriminazione. Così nella sentenza 11 luglio 2006, causa C-13/05, Chacón Navas c. Eurest Colectividades SA, la Corte di Giustizia si è espressa sulla portata generale delle disposizioni in materia di discriminazione fondata sulla disabilità e ha colto l’opportunità per rilevare che il termine ‘disabilità’ dovrebbe avere una definizione uniforme a livello comunitario.
Nella giurisprudenza dell’Unione Europea si è innanzitutto fornita una nozione di ‘handicap’ da intendersi, ai sensi della direttiva 2000/78/CE, nel senso di: «una limitazione di capacità, risultante in particolare da durature menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione dell’interessato alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori» (Corte di Giustizia UE sentenze: 11 aprile 2013, HK Danmark, C- 335/11 e C-337/11, punti 38- 42; 18 marzo 2014, Z., C-363/12, punto 76; 18 dicembre 2014, FOA, C-354/13, punto 53; 1° dicembre 2016, Daouidi, C- 395/15, punti 41-42; 9 marzo 2017, Milkova, C-406/15, punto 36; 18 gennaio 2018, Ca. En. Ru. Co., C-270/16, punto 28). La Corte, al riguardo, ha ricordato che la nozione stessa di ‘handicap’, pur se non è definita dalla direttiva 2000/78/CE, va intesa alla luce della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità (cfr. HK Danmark cit.) ed ha, poi, confermato l’assunzione nell’ordinamento europeo di una nozione di handicap di stampo sociale, in luogo di una valutazione a carattere esclusivamente medico. La CG ha anche indicato che una disabilità, ai fini della direttiva sulla parità di trattamento in materia di occupazione, dovrebbe essere intesa come «un limite che deriva, in particolare, da minorazioni fisiche, mentali o psichiche e che ostacola la partecipazione della persona considerata alla vita professionale» e deve essere «probabile che essa sia di lunga durata». I casi in cui la Corte ha statuito in maniera più chiara e dirompente la diretta applicabilità del principio generale di eguaglianza e non discriminazione ad atti degli Stati membri sono stati la sentenza del 15 gennaio 2014, Association de médiation sociale, C-176/12 e la sentenza del 19 aprile 2016, Dansk Industri, C-441/14. Il particolare nella seconda di tali decisioni la Corte di Giustizia ha precisato che il principio di non discriminazione opera, nel rispetto del canone dell’effettività, “persino in controversie tra privati” e “obbliga i giudici nazionali a disapplicare disposizioni nazionali non conformi a detto principio” e a disattendere le eventuali interpretazioni contrarie datene in precedenza. E ciò anche quando la direttiva non risulti applicabile ovvero quando il giudice si trovi nell’impossibilità di procedere a un’interpretazione conforme del diritto nazionale. In tale decisione, dunque, l’ambito di applicazione del principio generale di eguaglianza e non discriminazione è anche più ampio della direttiva, essendo applicabile in tutte le situazioni che cadono nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione.
- Il quadro si completa con la giurisprudenza della Corte EDU che ha, in particolare, offerto una definizione di discriminazione «diretta» analoga a quella del diritto dell’Unione. Anche nella formulazione usata dalla Corte europea perché possa configurarsi una tale discriminazione deve sussistere una «differenza nel trattamento riservato a persone che si trovano in situazioni analoghe o significativamente simili, basata su una caratteristica identificabile» (v. Corte EDU, decisione 6 gennaio 2005, Hoogendijk c. Paesi Bassi dec. n. 58641/00).
13.1. La discriminazione diretta si basa, dunque, sulla differenza nel trattamento riservato a una persona. Di conseguenza, la discriminazione diretta si caratterizza in primo luogo per un trattamento sfavorevole. La sua individuazione può essere relativamente semplice rispetto alla discriminazione indiretta, per la quale sono spesso necessari dati statistici. Il trattamento sfavorevole assume rilievo e rilievo ai fini della discriminazione qualora sia tale rispetto al trattamento riservato a un’altra persona che si trovi in situazione analoga. È quindi necessario un «termine di confronto», vale a dire una persona in circostanze materiali paragonabili, che si differenzi dalla presunta vittima principalmente per la caratteristica che forma oggetto del divieto di discriminazione (v. Corte EDU, sentenza 18 febbraio 1991, Moustaquim c. Belgio n. 12313/86; Corte EDU, sentenza 27 novembre 2007, Luczak c. Polonia n. 77782/01; cfr. anche Corte EDU, sentenza 16 settembre 1996, Gaygusuz c. Austria n. 17371/90; Corte EDU, sentenza 29 aprile 2008, Burden c. Regno Unito n. 13378/05; Corte EDU, sentenza 16 marzo 2010, Carson e a. c. Regno Unito n. 42184/05).
Si possono cogliere in tale giurisprudenza tre elementi che danno luogo ad una discriminazione illegittima: a) la differenziazione tra persone – o gruppi – nella medesima situazione o condizione; 6) la carenza di una adeguata e ragionevole giustificazione di tale differenziazione; c) infine, la sproporzione tra la giustificazione stessa ed i mezzi utilizzati (tra le altre Corte EDU 7 gennaio 2014, Cusan e Fazzo contro Italia, p. 59; 25 ottobre 2005, Niedzwiecki contro Germania; 27 marzo 1998, Petrovic contro Austria, p. 30; 1 febbraio 2000, Mazurek contro Francia, p. 46 e 48).
13.2. Sia il diritto dell’Unione sia la Corte EDU riconoscono che la discriminazione può derivare non solo dal trattamento diverso di persone che si trovano in una situazione analoga, ma anche da un medesimo trattamento riservato a persone che si trovano in situazioni diverse. In quest’ultimo caso
si tratta di discriminazione «indiretta», in quanto la differenza non risiede tanto nel trattamento, quanto piuttosto negli effetti che esso produce, che sono percepiti in modo diverso da persone con caratteristiche differenti. La Corte di Strasburgo ha fatto propria la definizione di discriminazione indiretta di cui all’art. 2, comma 2, lettera b), della direttiva sopra citata affermando che «una differenza di trattamento può consistere nell’effetto sproporzionatamente pregiudizievole di una politica o di una misura generale che, se pur formulata in termini neutri, produce una discriminazione nei confronti di un determinato gruppo» (Corte EDU, sentenza 13 novembre 2007, D.H. e a. c. Repubblica ceca n. 57325/00, punto 184; Corte EDU, sentenza 9 giugno 2009, Opuz c. Turchia n. 33401/02, punto 183; Corte EDU, sentenza 20 giugno 2006, Zarb Adami c. Malta n. 17209/02, punto 80a).
- Nell’ordinamento interno il principio di non discriminazione trova il suo fondamento costituzionale negli artt. 2 e 3 della Costituzione e dunque, nel riconoscimento e nella garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità oltre che nel principio di uguaglianza formale – che impone di trattare situazioni uguali in modo uguale e situazioni diverse in modo diverso – espresso attraverso una serie di divieti specifici di discriminazione: per sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali nonché nel principio di uguaglianza sostanziale che assegna allo Stato il compito di creare azioni positive per rimuovere quelle barriere di ordine sociale ed economico che di fatto limitano la libertà e l’uguaglianza dei cittadini. L’inclusione sociale delle persone disabili pone il tema del diritto al lavoro (art. 4 Cost.), come espressione di partecipazione operosa alla vita collettiva, di contributo alla crescita generale ed economica del Paese ma anche di realizzazione di sé e dei propri desideri, di soddisfacimento delle aspettative e dei bisogni personali. Ed infatti è l’inserimento nel mondo del lavoro occasione di frequenti e intensi rapporti sociali, di scambio e confronto e anche il modo più evidente per combattere la discriminazione culturale e sociale ancora persistente nei confronti della disabilità.
- Tra gli interventi normativi importanti che di tali principi hanno fatto concreta applicazione è utile ricordare la 5 febbraio 1992, n. 104 ‘Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate’ (si vedano, in particolare, l’art. 3, che definisce la persona handicappata, l’art. 8 che prevede misure atte a favorire la piena integrazione nel mondo del lavoro, in forma individuale o associata, e la tutela del posto di lavoro anche attraverso incentivi diversificati, gli artt. 17 e 18 che dettano i criteri per l’attuazione da parte delle regioni dell’inserimento, l’art. 20 che determina le modalità per lo svolgimento delle prove nei concorsi pubblici e per abilitazioni professionali).
Poi vi è stata la legge 8 novembre 1991, n. 381 ‘Disciplina delle cooperative sociali’ che all’art. 1, dopo aver stabilito che nelle cooperative si considerano persone svantaggiate gli invalidi fisici, psichici e sensoriali, ha stabilito che tali persone svantaggiate devono costituire almeno il trenta per cento dei lavoratori della cooperativa e, compatibilmente con il loro stato soggettivo, essere socie della cooperativa stessa.
- Si è, quindi pervenuti alla legge 12 marzo 1999, n. 68 ‘Norme per il diritto al lavoro dei disabili’ che ha specificamente inteso soddisfare la necessità di venire incontro al bisogno di inclusione ed integrazione effettiva delle persone affette da disabilità ed a quelle produttive degli operatori economici, unitamente all’esigenza di rimuovere disparità di trattamento con il comparto pubblico, destinato alla privatizzazione con il d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29.
16.1. Con tale legge il legislatore ha operato una revisione organica della materia con l’obiettivo di superare la logica meramente impositiva sottesa alla I. n. 482 del 1968 ed il modello di intervento statuale di tipo ‘compensativo’ o ‘risarcitorio’ della menomazione psico-fisica nell’ambito della più ampia riforma del welfare caratterizzato tra, gli altri dagli interventi legislativi di cui alle sopracitate leggi n. 104 del 1992 e n. 381 del 1991 e di diversa regolamentazione del mercato del lavoro e dei servizi per l’impiego, espressiva di un mutato approccio al problema e dalla logica di garantire in modo pieno ed effettivo il diritto al lavoro dei disabili. In particolare l’art. 1, comma 1, di tale legge ha stabilito che: «La presente legge ha come finalità la promozione dell’inserimento e della integrazione lavorativa delle persone disabili nel mondo del lavoro attraverso servizi di sostegno e di collocamento mirato». E’ proprio il collocamento mirato che costituisce la vera novità, intendendosi per tale, come precisato dall’art. 2, «quella serie di strumenti tecnici e di supporto che permettono di valutare adeguatamente le persone con disabilità nelle loro capacità lavorative e di inserirle nel posto adatto, attraverso analisi di posti di lavoro, forme di sostegno, azioni positive e soluzioni dei problemi connessi con gli ambienti, gli strumenti e le relazioni interpersonali sui luoghi quotidiani di lavoro e di relazione». Come osservato dalle Sezioni Unite di questa Corte, ad un sistema che risentiva della concezione volta a configurare l’inserimento degli invalidi nelle imprese come un peso da sopportare in chiave solidaristica, se ne è sostituito altro, volto a coniugare la valorizzazione delle capacità professionali del disabile con la funzionalità economica delle imprese stesse. La normativa, inoltre, manifesta rispetto al passato una più accentuata sensibilità del legislatore verso la persona affetta da disabilità, resa evidente dal riallineamento dei parametri delle quote di riserva a quelli fissati dagli altri paesi europei, nonché dalla equiparazione dei datori di lavoro pubblici a quelli privati, con la perdita da parte dei primi del privilegio, accordato dall’art. 12 della I. n. 482 del 1968, di subordinare l’assunzione degli invalidi al verificarsi delle vacanze in organico (v. Cass., Sez. Un., 22 febbraio 2007 n. 4110).
16.2. Sempre l’art. 1 della I. n. 68 del 1999, al comma 1, lett. a) – poi modificata dall’art. 2, comma 1, del d.lgs. 14 settembre 2015, n.151 -, b), c), e d), ha individuato la platea dei beneficiari prevedendo al successivo art. 8, primo comma, che: “Le persone di cui al comma 1 dell’articolo 1, che risultano disoccupate e aspirano ad una occupazione conforme alle proprie capacità lavorative, si iscrivono nell’apposito elenco tenuto dagli uffici competenti (espressione, quest’ultima, modificata all’art. 7, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 151 del 2015 cit. in ‘servizi per il collocamento mirato’) nel cui ambito territoriale si trova la residenza dell’interessato (…)” e al comma 2 che “Presso gli uffici competenti è istituito un elenco, con unica graduatoria, dei disabili che risultano disoccupati (…)”.
16.3. Invero, nella individuazione della platea dei destinatari della tutela antidiscriminatoria il novero dei soggetti protetti è più ampio rispetto a quello definito dal diritto nazionale ed in particolare dal sopra citato art. 1, comma 1, lett. da a) a d) della I. n. 68 del 1999 che lo ha individuato in ragione del grado di invalidità o della natura della menomazione nonché dell’accertamento di tali presupposti da parte degli organi pubblici competenti. Per tale ragione la Corte di Giustizia, con sentenza 4 luglio 2013, C 312/2011, proposta da Commissione europea contro Repubblica italiana, esaminato il complesso delle tutele interne (I. n. 104 del 1992, I. n. 381 del 1991, I. n. 68 del 1999, d.lgs. n. 81 del 2008 – quest’ultimo per l’aspetto dell’adeguamento delle mansioni alla situazione di disabilità -), ha accertato l’inadempimento della Repubblica Italiana all’obbligo di dare esecuzione alla disposizione dell’art. 5 della direttiva 2000/78/CE, per non avere imposto l’obbligo di prevedere soluzioni ragionevoli applicabili a tutti i disabili, in relazione a tutti i datori di lavoro ed ai diversi aspetti dell’occupazione e delle condizioni di lavoro. In particolare, secondo tale pronuncia, per trasporre correttamente l’art. 5 della direttiva, letto alla luce dei considerando 20 e 21 sopra ricordati, non è sufficiente disporre misure pubbliche di incentivo e sostegno, ma è compito degli Stati membri imporre a tutti i datori di lavoro l’obbligo di adottare provvedimenti efficaci e pratici, in funzione delle esigenze concrete, a favore di tutte le persone con disabilità, che riguardino i diversi aspetti dell’occupazione e delle condizioni di lavoro e che consentano ad essi di accedere ad un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione. In particolare, richiamando il considerando 21 del preambolo della direttiva, la Corte di Giustizia, in conformità dell’art. 2, comma 4, della Convenzione dell’ONU, ha definito gli ‘accomodamenti ragionevoli’ come «le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo, adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali». Quanto alla I. n. 68 del 1999, la CG ha evidenziato che essa ha lo scopo esclusivo di favorire l’accesso all’impiego di taluni disabili e non è volta a disciplinare quanto richiesto dall’art. 5 della direttiva 2000/78/CE.
16.4. Il legislatore per sanare l’inadempimento con l’art. 9, comma 4-ter del d.l. 28 giugno 2013, n. 76 (convertito con modificazioni dalla I. 9 agosto 2013, n. 99) ha inserito nel testo dell’art. 3 del d.lgs. n. 216 del 2003, di attuazione della direttiva 2000/78/CE sopra ricordato, un comma 3 bis, ai termini del quale: «Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. I datori di lavoro pubblici devono provvedere all’attuazione del presente comma senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente».
16.5. Quanto alle modalità di avviamento al lavoro, va detto che il legislatore ha tenuto conto delle peculiarità del lavoro pubblico contrattualizzato rispetto a quello privato, ed in particolare dell’insuperabile principio dell’accesso mediante concorso, fissato dall’art. 97 della Carta fondamentale e a più riprese ribadito dalla Consulta come cardine di portata generale, derogabile solo in casi eccezionali dalla legge, nei limiti della ragionevolezza.
L’art. 7 della I. n. 68 del 1999, pertanto, mentre al comma 1 ha stabilito che i datori di lavoro privati e gli enti pubblici economici adempiono l’obbligo imposto dall’art. 3 «mediante richiesta nominativa di avviamento agli uffici competenti o mediante la stipula delle convenzioni di cui all’art. 11», al comma 2 ha previsto distinte ipotesi di assunzione per le pubbliche amministrazioni, che tengono conto delle diverse modalità di reclutamento disciplinate dall’art. 36 del d.lgs. 3 febbraio 1993 n. 29, poi trasfuso nell’art. 35 del d.lgs. n. 165 del 2001. La norma, infatti, dopo avere richiamato il comma 2 dell’art. 36 (che testualmente recita: «Le assunzioni obbligatorie da parte delle amministrazioni pubbliche, aziende ed enti pubblici dei soggetti di cui all’articolo 1 della legge 2 aprile 1968, n. 482, come integrato dall’articolo 19 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, avvengono per chiamata numerica degli iscritti nelle liste di collocamento ai sensi della vigente normativa, previa verifica della compatibilità della invalidità con le mansioni da svolgere»), del quale prevede l’applicazione salva l’ipotesi disciplinata dall’art. 11 della stessa legge n. 68 dei 1999 (che riguarda le ‘convenzioni di integrazione lavorativa’), aggiunge che per le assunzioni effettuate tramite procedure selettive «i lavoratori disabili iscritti nell’elenco di cui all’articolo 8, comma 2, della presente legge hanno diritto alla riserva dei posti, nei limiti della complessiva quota d’obbligo e fino al cinquanta per cento dei posti messi a concorso». In tal modo il legislatore ha inteso armonizzare la disciplina del collocamento dei disabili con il principio, fissato dall’art. 36 del d.lgs. n. 29 del 1993, nel testo vigente a seguito delle modifiche apportate dal d.lgs. n. 80 del 1998, e poi ribadito dall’art. 35 del d.lgs. n. 165 del 2001, secondo cui è consentito alle pubbliche amministrazioni il ricorso all’avviamento degli iscritti nelle liste di collocamento solo per le qualifiche e i profili per i quali è richiesto il requisito della scuola dell’obbligo. Per le qualifiche più elevate, invece, è necessaria la procedura concorsuale, in occasione della quale l’ente, ove non abbia già adempiuto l’obbligo del necessario rispetto delle quote, è tenuto ad osservare la riserva in favore del disabile, che sia incluso nell’elenco di cui all’art. 8 della legge, nel quale possono essere iscritte «le persone di cui al comma 1 dell’art. 1 che risultano disoccupate e aspirano ad una occupazione conforme alle proprie capacità lavorative».
16.6. L’art. 16 della I. n. 68 del 1999 disciplina, poi, l’assunzione delle persone di cui al comma 1 dell’art. 1, mediante concorso pubblico ed al riguardo prevede, al comma 1, che: «Ferme restando le disposizioni di cui agli articoli 3, comma 4, e 5, comma 1, i disabili possono partecipare a tutti i concorsi per il pubblico impiego, da qualsiasi amministrazione pubblica siano banditi. A tal fine i bandi di concorso prevedono speciali modalità di svolgimento delle prove di esame per consentire ai soggetti suddetti di concorrere in effettive condizioni di parità con gli altri». La medesima disposizione al comma 2, stabiliva che: «I disabili che abbiano conseguito le idoneità nei concorsi pubblici possono essere assunti, ai fini dell’adempimento dell’obbligo di cui all’articolo 3, anche se non versino in stato di disoccupazione e oltre il limite dei posti ad essi riservati nel concorso». L’inciso «anche se non versino in stato di disoccupazione» è stato eliminato dall’ art. 25, comma 9 bis, della I. n. 114/2014.
- Il quadro normativo si è arricchito con la I. 4 novembre 2010, n. 183 che, nel modificare alcuni articoli del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ha rafforzato la garanzia del principio di parità e pari opportunità e il conseguente divieto di discriminazione. In particolare, a seguito delle modifiche intervenute, l’art. 7, comma 1, del d.lgs. 165 del 2001 obbliga le pubbliche amministrazioni a garantire parità e pari opportunità tra uomini e donne e l’assenza di ogni forma di discriminazione, diretta e indiretta, relativa, tra l’altro, alla disabilità nell’accesso al lavoro, nel trattamento e nelle condizioni di lavoro, nella formazione professionale, nelle promozioni e nella sicurezza sul lavoro. Tale disposizione chiude per così dire il cerchio delle previsioni di tutela dovendosi ricordare anche il comma 2 dell’art. 57 del d.lgs. 165 del 2001 secondo cui le pubbliche amministrazioni sono chiamate ad adottare tutte le misure per attuare le direttive dell’Unione europea in materia di pari opportunità, contrasto alle discriminazioni ed alla violenza morale o psichica, sulla base di quanto disposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della funzione pubblica.
- L’ordinamento prevede, quindi, tre diverse modalità di assunzione dei soggetti con disabilità: la chiamata numerica per le categorie e i profili per cui è richiesto il solo requisito della scuola dell’obbligo in base all’art. 35, comma 2, del d.lgs. 165 del 2001; il concorso (con riserva di posti) per le altre qualifiche secondo l’art. 16 della legge 68 del 1999; le convenzioni ai sensi dell’art. 11 della medesima legge 68 del 1999.
- Nel caso in esame l’Azienda Ospedaliera con il bando di concorso in questione si è avvalsa della seconda indicata modalità di assunzione prevedendo non un concorso aperto a tutti e con riserva di posti ma proprio un concorso interamente riservato alle categorie ex art. 8 della I. n. 68 del 1999.
- Si trattava, dunque, nella specie di un concorso non aperto ai normodotati e quindi la discriminazione andava valutata, a termini della giurisprudenza della Corte EDU sopra ricordata, con riferimento ai soggetti nella medesima situazione o condizione e cioè con riferimento agli altri appartenenti alle categorie ex art. 8 della I. n. 68 del 1999. Ed infatti con le degli iscritti nelle liste di collocamento ai sensi della vigente normativa, previa verifica della compatibilità della invalidità con le mansioni da svolgere»), del quale prevede l’applicazione salva l’ipotesi disciplinata dall’art. 11 della stessa legge n. 68 dei 1999 (che riguarda le ‘convenzioni di integrazione lavorativa’), aggiunge che per le assunzioni effettuate tramite procedure selettive «i lavoratori disabili iscritti nell’elenco di cui all’articolo 8, comma 2, della presente legge hanno diritto alla riserva dei posti, nei limiti della complessiva quota d’obbligo e fino al cinquanta per cento dei posti messi a concorso». In tal modo il legislatore ha inteso armonizzare la disciplina del collocamento dei disabili con il principio, fissato dall’art. 36 del d.lgs. n. 29 del 1993, nel testo vigente a seguito delle modifiche apportate dal d.lgs. n. 80 del 1998, e poi ribadito dall’art. 35 del d.lgs. n. 165 del 2001, secondo cui è consentito alle pubbliche amministrazioni il ricorso all’avviamento degli iscritti nelle liste di collocamento solo per le qualifiche e i profili per i quali è richiesto il requisito della scuola dell’obbligo. Per le qualifiche più elevate, invece, è necessaria la procedura concorsuale, in occasione della quale l’ente, ove non abbia già adempiuto l’obbligo del necessario rispetto delle quote, è tenuto ad osservare la riserva in favore del disabile, che sia incluso nell’elenco di cui all’art. 8 della legge, nel quale possono essere iscritte «le persone di cui al comma 1 dell’art. 1 che risultano disoccupate e aspirano ad una occupazione conforme alle proprie capacità lavorative».
16.6. L’art. 16 della I. n. 68 del 1999 disciplina, poi, l’assunzione delle persone di cui al comma 1 dell’art. 1, mediante concorso pubblico ed al riguardo prevede, al comma 1, che: «Ferme restando le disposizioni di cui agli articoli 3, comma 4, e 5, comma 1, i disabili possono partecipare a tutti i concorsi per il pubblico impiego, da qualsiasi amministrazione pubblica siano banditi. A tal fine i bandi di concorso prevedono speciali modalità di svolgimento delle prove di esame per consentire ai soggetti suddetti di concorrere in effettive condizioni di parità con gli altri». La medesima disposizione al comma 2, stabiliva che: «I disabili che abbiano conseguito le idoneità nei concorsi pubblici possono essere assunti, ai fini dell’adempimento dell’obbligo di cui all’articolo 3, anche se non versino in stato di disoccupazione e oltre il limite dei posti ad essi riservati nel concorso». L’inciso «anche se non versino in stato di disoccupazione» è stato eliminato dall’ art. 25, comma 9 bis, della I. n. 114/2014.
- Il quadro normativo si è arricchito con la I. 4 novembre 2010, n. 183 che, nel modificare alcuni articoli del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ha rafforzato la garanzia del principio di parità e pari opportunità e il conseguente divieto di discriminazione. In particolare, a seguito delle modifiche intervenute, l’art. 7, comma 1, del d.lgs. 165 del 2001 obbliga le pubbliche amministrazioni a garantire parità e pari opportunità tra uomini e donne e l’assenza di ogni forma di discriminazione, diretta e indiretta, relativa, tra l’altro, alla disabilità nell’accesso al lavoro, nel trattamento e nelle condizioni di lavoro, nella formazione professionale, nelle promozioni e nella sicurezza sul lavoro. Tale disposizione chiude per così dire il cerchio delle previsioni di tutela dovendosi ricordare anche il comma 2 dell’art. 57 del d.lgs. 165 del 2001 secondo cui le pubbliche amministrazioni sono chiamate ad adottare tutte le misure per attuare le direttive dell’Unione europea in materia di pari opportunità, contrasto alle discriminazioni ed alla violenza morale o psichica, sulla base di quanto disposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della funzione pubblica.
- L’ordinamento prevede, quindi, tre diverse modalità di assunzione dei soggetti con disabilità: la chiamata numerica per le categorie e i profili per cui è richiesto il solo requisito della scuola dell’obbligo in base all’art. 35, comma 2, del d.lgs. 165 del 2001; il concorso (con riserva di posti) per le altre qualifiche secondo l’art. 16 della legge 68 del 1999; le convenzioni ai sensi dell’art. 11 della medesima legge 68 del 1999.
- Nel caso in esame l’Azienda Ospedaliera con il bando di concorso in questione si è avvalsa della seconda indicata modalità di assunzione prevedendo non un concorso aperto a tutti e con riserva di posti ma proprio un concorso interamente riservato alle categorie ex art. 8 della I. n. 68 del 1999.
- Si trattava, dunque, nella specie di un concorso non aperto ai normodotati e quindi la discriminazione andava valutata, a termini della giurisprudenza della Corte EDU sopra ricordata, con riferimento ai soggetti nella medesima situazione o condizione e cioè con riferimento agli altri appartenenti alle categorie ex art. 8 della I. n. 68 del 1999. Ed infatti con le previsioni di alla I. n. 68 del 1999 ed in particolare con le previsioni speciali riservate ai disabili e concernenti le pur differenti modalità di assunzione non può ragionarsi in termini di rapporto con il normodotato avendo il legislatore previsto, per facilitare al disabile il reperimento della prima occupazione, un iter particolarmente agevolato e modalità diverse rispetto a quelle previste per il lavoratore abile.
Era solo con riguardo agli altri appartenenti alle categorie protette («termine di confronto», e cioè persone in circostanze materiali paragonabili, che si differenziano dalla presunta vittima principalmente per la caratteristica che forma oggetto del divieto di discriminazione) che andavano verificate l’eventuale carenza di una adeguata e ragionevole giustificazione della verificatasi differenziazione ovvero la sproporzione tra la giustificazione stessa ed i mezzi utilizzati. Non vi è dubbio, allora, che la scelta di cui al bando (lex specialis) di richiedere la sussistenza dello stato di disoccupazione non solo al momento della presentazione della domanda ma anche al momento dell’assunzione fosse misura idonea a tutelare o quantomeno a non postergare il disabile che, all’atto dell’assunzione, permanesse nello stato di disoccupazione.
- Peraltro si trattava di specificazione del tutto conforme alle stesse indicazioni di cui alla I. n. 68 del 1999.
21.1. Si consideri, infatti, che previsione di cui all’art. 16, comma 2, della I. n. 68 del 1999 (nel testo anteriore alle modifiche di cui alla sopra citata n. 114 del 2014) secondo la quale che i disabili che abbiano conseguito le idoneità nei concorsi pubblici possono essere assunti dalle pp.aa. anche se non versino in stato di disoccupazione e oltre il limite dei posti agli essi riservati nel concorso non può indurre a superare il convincimento della rilevanza, in termini generali, dello stato di disoccupazione nel sistema dell’avviamento obbligatorio, atteso che, in altre disposizioni del medesimo testo legislativo, è ribadita la necessità dell’iscrizione agli elenchi dei disoccupati. Ed infatti la previgente formulazione dell’art. 16, comma 2, lungi dall’introdurre una deroga alla indicata generale irrilevanza, prevede(va), al contrario, un’ipotesi particolare (che si collocava successivamente alla individuazione, ai fini dell’assunzione, dei vincitori), confermando a fortori, che al di fuori della fattispecie ivi prevista, in termini di disciplina generale il disabile doveva essere disoccupato per poter beneficiare delle speciali procedure di assunzione legislativamente previste. Si consideri, del resto, che in una logica di interpretazione sistematica dell’art. 16 e delle sopra citate disposizioni di cui agli artt. 7, comma 2 e 8 della I. n. 68 del 1999, che, esplicitamente richiedono e presuppongono lo stato di disoccupazione, assume indubbia valenza chiarificatrice del significato e della portata delle stesse proprio l’abrogazione dell’inciso di cui all’art. 16 «anche se non versino in stato di disoccupazione» ad opera della I. n. 114 del 2014.
21.2. E’ pur vero che questa Corte nella sentenza n. 12441/2016 ha ritenuto che: «la disposizione di cui all’art. 16 cit., letta alla luce dell’intero contesto nel quale si iscrive, non sia finalizzata ad attribuire all’ente una facoltà discrezionale, ma persegua, invece, l’obiettivo di garantire il necessario adempimento da parte delle Pubbliche Amministrazioni dell’obbligo imposto dall’art. 3, nella ipotesi in cui, all’esito delle operazioni concorsuali, non vi siano idonei in possesso del requisito prescritto dal combinato disposto degli artt. 7 e 8 della legge, ma sia comunque possibile garantire la tutela della disabilità, attraverso la assunzione del o dei candidati affetti da handicap che siano stati positivamente valutati dalla commissione esaminatrice. La norma in tal caso autorizza la deroga al requisito della disoccupazione, perché giustificata dalla esigenza primaria ed indifferibile».
Tuttavia la fattispecie di riferimento di tale decisione era del tutto diversa da quella oggetto della presente causa atteso che, in quel caso, si discuteva del diritto all’assunzione, ai sensi dell’art. 16, comma 2, della legge n. 68 del 1999 mentre nell’ipotesi in esame è solo prospettata la discriminatorietà di una previsione, in sede di bando concorsuale, della permanenza dello stato di disoccupazione anche al momento dell’assunzione.
21.3. Se, dunque, è stata ritenuta non conforme allo spirito della direttiva una interpretazione del diritto nazionale che, nel contesto della disciplina di cui all’art. 16 di cui sopra si è detto, legittimi il datore di lavoro pubblico a non rispettare le quote di riserva in favore dei disabili, facendo leva solo sull’assenza del requisito della disoccupazione, posto che la tutela dell’invalido non si esaurisce nel garantire allo stesso il primo accesso nel mondo del lavoro, questo non comporta automaticamente una valutazione in termini di discriminatorietà di una scelta di prevedere lo stato di disoccupazione quale condizione per l’assunzione del disabile. Anzi, a ben guardare, si desume implicitamente proprio da tale precedente che i riservisti in senso stretto disoccupati hanno la precedenza.
Come evidenziato nella medesima citata Cass. n. 12441/2016 lo stesso sistema della legge è finalizzato in via principale (ancorché non esclusiva) a garantire l’inserimento nel mondo del lavoro del disabile che sia anche privo di occupazione e la stessa riserva opera, quindi, innanzitutto in favore del portatore di handicap che, oltre ad essere affetto da disabilità, sia anche privo di occupazione.
- Né vale invocare in senso contrario la nuova filosofia della I. n. 68 del 1999 in base alla quale il sistema del collocamento obbligatorio è meno burocratizzato e più attento alle attitudini delle persona con disabilità risultando, così, maggiormente ottemperante al dettato costituzionale, ed in particolare oltre che all’art. 4, al principio di eguaglianza sostanziale (art. 3, comma 2) e al principio di solidarietà (art. 2).
Non c’è infatti bisogno di richiamare l’antico brocardo del ‘primum vivere…’ per considerare ragionevole una scelta che abbia avuto la finalità di tutelare (nell’impostazione del bando, per quanto detto conforme al dettato legislativo) il disabile disoccupato, ritenuta prevalente, piuttosto che quella di consentire il miglioramento della condizione lavorativa di altro soggetto, egualmente disabile ma nelle more fuoriuscito dalla categoria dei disoccupati, trattandosi di scelta improntata, in conformità con le stesse previsioni di cui all’art. 8 della I. n. 68 del 1999, a garantire innanzitutto una occupazione a chi non l’abbia, in piena conformità con il dettato costituzionale, ed in particolare, oltre che con l’art. 4, con il principio di eguaglianza sostanziale (art. 3, comma 2) e con quello di solidarietà (art. 2).
Questo evidentemente non significa svilire legittime aspettative di miglioramento di una condizione lavorativa ma semplicemente consente di accordare tutela prioritaria a chi versi in uno stato di disoccupazione al momento dell’assunzione.
Diversamente opinando, e dunque ritenendo che possa prescindersi dallo stato di disoccupazione (quantomeno sempre al momento dell’assunzione), si perverrebbe ad una conclusione sicuramente discriminatoria nei confronti della posizione del disoccupato ancora tale al momento dell’assunzione perché è proprio tale stato di disoccupazione (certificato dalla permanenza dell’iscrizione negli elenchi) che assolve alla funzione di garanzia dell’interesse tutelato dalla norma e non l’opposto.
- Si ricorda, al riguardo, quanto affermato dalla Corte cost. nella sentenza n. 190 del 2006 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 8-bis del d.l. 28 maggio 2004, n. 136 (Disposizioni urgenti per garantire la funzionalità di taluni settori della pubblica amministrazione), convertito, con modificazioni, dalla I. 27 luglio 2004, n. 186, nella parte in cui si riferisce alle procedure per il conferimento degli incarichi di presidenza ed altresì dichiarato l’illegittimità costituzionale della parte residua dello stesso art. 8-bis. In tale decisione il giudice delle leggi, dopo aver evidenziato che le quote di riserva nelle assunzioni presso le pubbliche amministrazioni postulano necessariamente lo stato di disoccupazione del soggetto interessato, anche dopo l’entrata in vigore della legge n. 68 del 1999, essendo solo consentito (art. 16 cit.) alle amministrazioni di prescindere dallo stato di disoccupazione qualora ritengano di saturare l’aliquota da riservare agli invalidi, anche in deroga al limite percentuale dei posti riservati nei concorsi pubblici ha ritenuto che la «legge ordinaria che, oltre a favorire l’accesso dei disabili al lavoro, ne agevola la carriera, produce una irragionevole compressione dei principi dell’eguaglianza e del merito, a danno dell’efficienza e del buon andamento della pubblica amministrazione».
In tale decisione la Corte costituzionale, dopo aver posto in rilievo i principali atti dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea, che dispongono il divieto di discriminazioni nell’accesso all’impiego ha richiamato precedenti sue sentenze quali la n. 622 del 1987 (secondo la quale la legge «è intesa a favorire le aspirazioni di coloro che al lavoro debbano ancora attingere in via primaria» e gli enunciati dell’art. 38 Cost. «concernono l’approntamento dei mezzi per l’inserimento dei disabili nel contesto sociale»), la n. 55 del 1961 e la n. 38 del 1960 (secondo cui la locuzione «avviamento professionale» di cui al citato art. 38 Cost. «non può essere intesa quale sinonimo di ‘educazione’», ma, piuttosto, «a integrazione di questa, prescrive il compito ultimo per rendere operante il disposto di cui al terzo comma dell’art. 38 cit., compito che si sostanzia e realizza nell’effettivo collocamento al lavoro»).
E’ pur vero che tale pronuncia è intervenuta prima che la Corte di Giustizia, nella decisione sopra ricordata del 4 luglio 2013, in causa C – 312/11 sanzionasse l’Italia valorizzando, nel contesto motivazionale, non solo l’aspetto dell’accesso al lavoro ma anche quello della ‘promozione’ e cioè della progressione o avanzamento professionale, di tal che la tutela dell’invalido non si esaurisce nel garantire allo stesso il primo accesso nel mondo del lavoro, tuttavia il principio affermato resta certamente attuale in una vicenda quale quella che ci occupa in cui, ragionando esclusivamente in termini di discriminazione, non può essere disconosciuto che una tutela incondizionata del disabile già occupato comprimerebbe quella del disabile disoccupato superando così quell’adeguato livello di tutela imposto dal rispetto dei canoni di solidarietà che devono ispirare la legislazione sociale, specialmente in materia di impiego pubblico.
- Da tanto consegue che il ricorso principale deve essere accolto dovendosi escludere che il modus operandi dell’Azienda possa aver integrato un comportamento discriminatorio.
- Va, pertanto, enunciato il seguente principio di diritto: “Non costituisce comportamento discriminatorio la previsione, in sede di bando di concorso riservato alle categorie ex art. 8 della I. n. 68 del 1999, del requisito della sussistenza dello stato di disoccupazione anche al momento dell’assunzione trattandosi di previsione avente la finalità di tutelare, in conformità con il dettato legislativo e con i principi affermati dalla Corte di Giustizia UE, il disabile disoccupato rispetto ad altro soggetto, egualmente disabile ma nelle more fuoriuscito dalla categoria dei disoccupati”.
- Le evidenziate ragioni della decisione e l’interpretazione qui privilegiata della disciplina nazionale di cui alle disposizioni della I. n. 68 del 1999 sopra richiamate, conforme ai principi già affermati dalla Corte di Giustizia UE in tema di tutela della disabilità ed in genere di discriminazione, escludono ogni rilevanza delle questioni pregiudiziali prospettate dall’Azienda ricorrente.
- L’accoglimento del ricorso principale consente di ritenere assorbito il ricorso incidentale.
- La sentenza impugnata va, in conseguenza, cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa deve essere decisa nel merito ex art. 384, comma 2, cod. proc. civ. con il rigetto dell’originaria domanda.
- L’esito alterno della causa e la complessità delle questioni trattate giustifica la compensazione delle spese dell’intero processo.
- Non sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1, quater d.P.R. n. 115 del 2002.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso principale nei sensi di cui in motivazione e dichiara assorbito il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e decidendo nel merito rigetta l’azionata domanda; compensa fra le parti le spese dell’intero processo.
Roma, così deciso nella camera di consiglio del 10 dicembre 2019