Discriminazione per motivi di handicap, Obbligo del datore di lavoro di adottare ragionevoli accorgimenti , Tribunale di Avellino, ordinanza de 16.06.2019,
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale di Avellino, in funzione di giudice del lavoro, dott.ssa Alessia Marotta, a scioglimento della riserva assunta all’udienza di comparizione delle parti ex art. 669 sexies I comma cpc del 19.06.2019;
osserva:
Con ricorso ex art. 700 c.p.c. parte ricorrente ha convenuto in giudizio la società resistente concludendo nei seguenti termini:
“1) accertare e dichiarare – seppur in via sommaria – l’illegittimità, annullabilità e inefficacia del comminato trasferimento del 26.11.2018 per violazione da parte del datore di lavoro dei principi di correttezza contrattuale ex artt. 1175 e 1375 c.c. per il mancato rispetto dei criteri di scelta organizzativa per le ragioni esposte e per l’effetto
2) ordinare in via d’urgenza alla I spa di trasferire la ricorrente presso il Bar del Presidio Ospedaliero “L” di Solofra o presso altra sede lavorativa consona alle mutuate condizioni di salute e non distante oltre i 50 km dalla propria residenza per i motivi indicati in premessa, con ogni consequenziale statuizione di legge”.
Ha dedotto di essere dipendente della I spa con contratto subordinato part-time 75 % (per 5 ore di lavoro giornaliere) a tempo indeterminato, inquadrata quale addetta al servizio mensa (livello VI super CCNL Turismo) presso l’Ospedale di Solofra; di occuparsi della pulizia del piano cottura, del trasporto manuale del vitto presso i reparti dell’Ospedale mediante lo spostamenti di n. 3 carrelli (…); che in data 20.06.2017 le veniva certificata una “poliartrite reumatologica” agli arti superiori con riconoscimento di invalidità civile pari al 50 % che la limitava fortemente nelle attività lavorative; che a seguito della visita medica il medico competente la riteneva idonea con limitazioni alla movimentazione dei carichi; che a seguito di altra visita medica del 26.11.2018 veniva ritenuta inidonea alle mansioni specifiche.
Sicché la società datrice di lavoro le comunicava il trasferimento presso la mensa dell’Istituto di Istruzione della Polizia Penitenziaria di Castiglione delle Stiviere (MN).
Ha dunque concluso chiedendo accertarsi l’illegittimità del trasferimento perché discriminatorio con vittoria di spese, facendo leva sulla mancata prospettazione – da parte del datore di lavoro – dei cd. ragionevoli accomodamenti. Ha inoltre rappresentato la possibilità di essere adibita al servizio bar presso l’Ospedale di Solofra ove sono collocati altri dipendenti.
Si è costituita in giudizio l’I spa resistendo in giudizio con diverse eccezioni e chiedendo il rigetto del ricorso perché infondato. In particolare la società ha dedotto l’impossibilità di collocazione alternativa della ricorrente presso l’Ospedale di Solofra, atteso che presso il bar di detto Ospedale sono presenti dipendenti con livello di inquadramento maggiore rispetto a quello della ricorrente e comunque adibiti all’espletamento di mansioni non confacenti alle limitazioni riportate nel certificato medico di inidoneità perché – ritenute – più gravose.
In corso di giudizio è stata espletata la prova orale.
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Ai fini della concessione dei provvedimenti di urgenza più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione di merito, occorre verificare la ricorrenza di due requisiti concorrenti e non alternativi: il fumus boni iuris ed il periculum in mora.
Tale concorrenza deriva dalla disposizione dell’art. 700 c.p.c. in base alla quale la tutela strumentale e provvisoria residuale può essere concessa se chi la aziona è titolare di un diritto e se quest’ultimo è minacciato da un pregiudizio imminente ed irreparabile durante il tempo occorrente per farlo valere.
Del resto, la stessa funzione cautelare dei provvedimenti ex art. 700 c.p.c. è connotata dalla necessità di assicurare, sia pur in via provvisoria e strumentale, che la futura pronuncia del giudice non resti pregiudicata dal tempo necessario ad attuarla: ne consegue che requisito indispensabile è l’esistenza di un diritto da far valere in via ordinaria unitamente al pregiudizio, connotato dall’imminenza e dalla irreparabilità.
La concorrenza dei due requisiti deve, dunque, essere rigorosamente allegata e provata da colui il quale domanda la tutela cautelare.
In tal caso, il giudice – in considerazione delle modalità in cui sono articolati il rito del lavoro, improntato alla celerità della decisione, e la fase cautelare, caratterizzata da una procedura nella quale i tempi di difesa sono spesso ridotti ed il contraddittorio limitato – dovrà valutare la compresenza di entrambi i requisiti e, nel caso di insussistenza del fumus o del periculum, rigettate l’istanza cautelare, senza essere vincolato ad un ordine preciso di verifica degli stessi. La verifica della insussistenza di uno degli elementi indicati dall’art. 700 c.p.c. infatti, esclude la necessità di esaminare anche l’altro elemento, restando assorbita ogni ulteriore valutazione.
Ebbene nella specie sono sussistenti entrambi i presupposti.
Preliminarmente alla disamina del fumus boni iuris giova compiere una precisazione in merito all’antefatto storico sottoposto al vaglio giudiziale.
La lavoratrice è addetta al servizio mensa, inquadrata nel livello VI super CCNL, con contratto part-time al 75 % che prevede l’espletamento di 5 ore di lavoro giornaliere. Quale addetta al servizio mensa la G si occupa di trasportare manualmente il vitto presso i reparti dell’Ospedale mediante lo spostamento di n. 3 carrelli mobili a vari reparti; del lavaggio degli utensili utilizzati dal cuoco (placche, pirofile, mestoli); della pulizia del piano cottura della cucina e dello smaltimento dei rifiuti della cucina e del vitto servito, mediante il trasporto manuale dei sacchi presso i siti esterni dell’Ospedale adibiti a raccolta.
La stessa invoca – quale ragionevole accomodamento – la possibilità di essere collocata presso il bar di detto Ospedale, ove la società resistente risulta aggiudicataria anche dell’appalto relativo al servizio bar, per lo svolgimento di mansioni ritenute dalla G meno usuranti rispetto al servizio mensa e vitto.
La I spa di contro sostiene l’impossibilità di collocazione presso il bar dell’Ospedale di S adducendo le seguenti ragioni: tutti gli addetti al bar (per la precisione tre) svolgono mansioni non corrispondenti al livello di inquadramento, all’esperienza e alla professionalità della ricorrente. Invero S C e I F sono inquadrati nel V livello e la dipendente M C è inquadrata nel IV livello; questi svolgono inoltre mansioni di baristi, cassieri, svolgendo mansioni comunque superiori a quelle attribuite alla G (inquadrata nel livello VI super); trattasi infine di mansioni ugualmente usuranti che implicano la movimentazione dei carichi e delle merci, attività precluse – si sostiene – alla odierna ricorrente.
Ebbene, l’articolo 2 quarto comma della Convenzione dell’ONU, definisce accomodamenti ragionevoli “le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali”.
Tale disposizione contempla una definizione ampia della nozione e si riferisce all’eliminazione delle barriere di diversa natura che ostacolano la piena ed effettiva partecipazione delle persone disabili alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori.
Pertanto non riguarderebbero solo l’accessibilità fisica dei luoghi di lavoro ma, più in generale, la compatibilità dell’ambiente di lavoro con il funzionamento della persona, compresa l’organizzazione e l’orario di lavoro.
Dunque alla luce delle fonti internazionali e sovranazionali (Convenzione ONU e Direttiva EU, poi completamente recepita con il comma 3bis dell’art. 3, D. Lgs. 216/2003), sul datore di lavoro grava l’obbligo di adottare provvedimenti appropriati per consentire ai disabili o meglio ai lavoratori portatori di handicap di superare il loro specifico impedimento e quindi di accedere ad un lavoro o di conservarlo; tali provvedimenti comprendono non solo interventi di carattere tecnico-materiale, come il riallestimento della postazione di lavoro e la sostituzione delle attrezzature, ma anche interventi di carattere organizzativo, come la redistribuzione delle mansioni, la riduzione o rimodulazione dell’orario di lavoro, o il cambiamento dei turni. Ad esempio, la ricerca di mansioni diverse, equivalenti o inferiori, deve essere considerato uno dei possibili accomodamenti ragionevoli e tale conclusione, già esplicitata dall’art. 42, D. Lgs. 81/2008, deve ritenersi oggi ulteriormente rafforzata alla luce della previsione contenuta nell’art. 2103, comma 5, cod.civ., che prevede la modifica delle mansioni “nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione o al miglioramento delle condizioni di vita”.
L’eccessiva sproporzione è, invece, il solo limite entro cui contenere i possibili adattamenti organizzativi, per il resto da considerare tutti potenzialmente fattibili; sproporzione che andrà valutata, caso per caso, con riferimento alle dimensioni e alle disponibilità finanziarie di un’impresa.
La Corte di Giustizia, in conformità dell’art. 2, comma 4 della Convenzione dell’ONU, ha definito gli “accomodamenti ragionevoli” come “le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo, adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali” (CGUE, 4 luglio 2013, Commissione c. Italia, punto 58). In tale decisione la Corte, dopo aver esaminato la legislazione italiana vigente in materia di protezione dei disabili (in specie, la L. n. 104 del 1992, la L. n. 381 del 1991, la L. n. 68 del 1999, il D.Lgs. n. 81 del 2008), ha sottolineato che, dal testo dell’art. 5 della Direttiva 78/2000, letto in combinato disposto con i considerando 20 e 21, risulta che gli Stati membri devono stabilire nella loro legislazione un obbligo per i datori di lavoro di adottare provvedimenti appropriati, cioè provvedimenti efficaci e pratici, ad esempio sistemando i locali, adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro o la ripartizione dei compiti in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, riducendo l’orario di lavoro, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione, con il solo limite di imporre al datore di lavoro un onere sproporzionato.
Successivamente, la Corte di Giustizia Europea è nuovamente intervenuta con riguardo alla normativa danese (sentenza 11 aprile 2013, cause C-335/11 e C337/11) in ordine alla compatibilità dell’ambiente lavorativo con le funzionalità del disabile e ha rilevato che l’art. 5 della direttiva 2000/78 deve essere interpretato nel senso che la riduzione dell’orario di lavoro può costituire uno dei provvedimenti di adattamento di cui a tale articolo, competendo al giudice nazionale valutare se la riduzione dell’orario di lavoro rappresenti un onere sproporzionato per il datore di lavoro.
Va notato che in altri paesi, come gli Stati Uniti e il Regno Unito, sono stati creati specifici enti volti ad attuare concretamente la disposizione della Direttiva (l’U.S. Equal Employment Opportunity Commission-ADA e il Job Accommodation Network, negli Stati Uniti; The Equality and Human Rights Commission, nel Regno Unito). Con riguardo alle esperienze consolidate in altri Paesi, gli accomodamenti ragionevoli rappresentano molto spesso delle soluzioni di buon senso, quali la posizioni di strisce luminose nelle vetrate e/o di strisce antiscivolo nei gradini di marmo, l’utilizzo di hardware e/o software specifici, l’applicazione degli aspetti ergonomici della postazione, degli strumenti, degli aspetti psichico sociali.
Questa rinnovata sensibilità ermeneutica scardina il principio dell’assoluta intangibilità dell’organizzazione d’impresa, così che al giudice spetterà verificare l’adempimento dell’obbligo (e quindi l’inesistenza o impraticabilità di idonei “accomodamenti”) o invece la sua violazione.
Violazione che ove si manifesti nell’ipotesi estrema del licenziamento del lavoratore per sopravvenuta inidoneità fisica, in quanto costituisce infrazione del principio paritario, sarà di necessità sanzionata con la piena tutela reintegratoria, indipendentemente dalle dimensioni dell’impresa, dall’epoca del licenziamento e anche dell’assunzione del dipendente (peraltro, per i rapporti di lavoro cui si applichi il regime delle tutele crescenti, il d. lgs. 23/2015 all’ultimo comma dell’art. 2 sanziona espressamente con la reintegrazione il licenziamento di cui sia accertato «il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68»).
Con riguardo all’orientamento giurisprudenziale nazionale sinora elaborato (alla luce della normativa precedente l’introduzione del D.Lgs. n. 216 del 2003, art. 3, comma 3-bis), le Sezioni Unite (n. 7755 del 1998, richiamate dalla sentenza impugnata) hanno affermato il seguente principio di diritto: “La sopravvenuta infermità permanente e la conseguente impossibilità della prestazione lavorativa, quale giustificato motivo di recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro subordinato, non è ravvisabile nella sola ineleggibilità dell’attività attualmente svolta dal prestatore, ma può essere esclusa dalla possibilità di altre attività riconducibile – alla stregua di un’interpretazione del contratto secondo buona fede – alle mansioni attualmente assegnate o a quelle equivalenti o, se ciò è impossibile, a mansioni inferiori, purchè essa attività sia utilizzabile nell’impresa, secondo l’assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall’imprenditore”. Questo orientamento è stato confermato da numerose pronunce successive (ex multis Cass. n. 9624 del 2000, Cass. n. 7210 del 2001, Cass. n. 16141 del 2002, Cass. n. 8832 del 2011) che hanno ritenuto come solo l’inutilizzabilità della prestazione del lavoratore divenuto inabile, con alterazione dell’assetto organizzativo della medesima, può costituire giustificato motivo di licenziamento.
Tale orientamento è stato di recente rivalutato, anche alla luce delle più recenti fonti sovranazionali ed internazionali. Invero, la Suprema Corte (Cass. n. 6798 del 2018) ha stabilito che la Corte di Giustizia ha rimarcato come la Direttiva n. 78/2000 impone al datore di lavoro di adottare – secondo il parametro (e con il limite) della ragionevolezza – provvedimenti efficaci e pratici, in funzione delle esigenze concrete, a favore di tutte le persone con disabilità.
Dunque in questa prospettiva l’onere di provare l’eccessiva sproporzionalità del riassetto organizzativo della azienda in prospettiva ostativa all’accomodamento ragionevole spetta al datore di lavoro.
In questo contesto normativo ed interpretativo la nozione di handicap ricomprende – anche a norma del d.lgs. 9.7.2003 n. 216 che reca disposizioni relative all’attuazione della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall’età e dall’orientamento sessuale, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro – la malattia di lunga durata che incida negativamente sulla vita professionale del lavoratore. Nella specie la malattia da cui è affetta la G (quale la poliartrite reumatologica) è da considerarsi sicuramente malattia lungo latente, incidente negativamente sulle proprie mansioni specifiche.
Acclarata dunque la riconducibilità della fattispecie esaminata all’alveo della nozione di disabilità euro-unitaria, occorre verificare quali siano stati in concreto gli accomodamenti attivati dal datore di lavoro, la cui mancanza comporta la perpetrazione di una discriminazione indiretta, in quanto tale inficiante sotto il profilo della nullità l’atto di trasferimento.
L’espletata prova orale è stata dirimente.
Ed infatti, dalle dichiarazioni dell’informatore M C è emerso che “al bar ci sono io, poi S C e poi c’è I F. Io sono responsabile del bar. Sono inquadrata nel IV livello (…) che io sappia S C sta da circa due anni e dovrebbe essere un V livello o un V livello plus; mentre I F pur avendo lo stesso livello (n.d.e. del C) lavora presso il bar da metà marzo 2019. Prima che arrivasse I F, c’era C C, era barista ma svolgeva anche mansioni di servizio mensa a seconda delle esigenze. C si è dimesso a Febbraio 2019 e non lavora più per l’I. Io mi occupo della cassa, inforno i cornetti (..) preparo la vetrina dove sono esposte le pietanze, apparecchio e sparecchio. C e F si alternano e si occupano della macchinetta del caffè e aiutano al bancone dove si consuma. Qualche anno fa la G è venuta ad aiutare al bar, quando mancava l’unità per malattia o qualche imprevisto. Si occupava della macchinetta del caffè. Che io sappia la F ha il contratto a termine che scade a settembre 2019. C è a tempo indeterminato. Gli addetti al bar la mattina si occupano della preparazione o delle consumazione delle colazioni fino alle 13/14, nel pomeriggio ci occupiamo del lavaggio di tutte le apparecchiature e anche dei locali (bar, deposito e bagno). Ci occupiamo anche di portare fuori la spazzatura, questo però solo per chi fa il turno di pomeriggio (…) quando laviamo la macchinetta si devono montare e smontare “i bracci” che però non sono pesanti. Il lavaggio della macchinetta va fatto tutte le sere. Per gli altri utensili c’è la lavastoviglie che però è rotta da un mese/un mese e mezzo pertanto stiamo utilizzando il monouso” (cfr. verbale di udienza del 29.05.2019).
Dalle dichiarazioni dell’informatore G S, escusso in qualità di “Capo Centro” presso il cantiere dell’Ospedale di S, in quanto tale responsabile della gestione del personale è invece emerso che “presso il cantiere di S ci sono – compreso me – 13 dipendenti: 3 sono al bar ed il resto in cucina. In cucina ci sono due cuochi IV livello; i due aiuto cuochi sono V livello ed il resto tutti gli addetti al servizio mensa sono livello VI super. Quelli del bar sono tutti livello V” (cfr. verbale di udienza del 29.05.2019). Ebbene la descrizione resa dallo Sappare contraddirsi con la realtà dei fatti, atteso che presso il bar dell’Ospedale di Solofra risultano adibiti tre dipendenti di cui uno avente livello IV (M Ca) e gli altri due aventi livello V (I F e S C), pertanto tale deposizione non risulta utilizzabile per i fini di causa in quanto affetta da deficit ricognitivi ed assertivi.
Le risultanze della prova orale confermano la pretesa attorea posto che è emersa in primo luogo la fungibilità delle mansioni espletate dai dipendenti all’interno del bar (quantomeno per quelli aventi livello V) rispetto a quelli addetti al servizio mensa. Invero si legge “C si è dimesso a febbraio 2019, era barista ma svolgeva anche mansioni di servizio mensa a seconda delle esigenze” ed ancora “la G è venuta ad aiutare al bar quando mancava qualche unità per malattia o qualche imprevisto, si occupava della macchinetta del caffè”. Tale assunto è peraltro compatibile con le declaratorie contrattuali riferibili ai livelli di inquadramento invocati, atteso che appartengono al livello VI super “i lavoratori in possesso di adeguate capacità tecnico-pratiche comunque acquisite che eseguono lavori di normale complessità: quali ad esempio commis di cucina, sala e bar diplomato o con pluriennale esperienza Addetto servizi mensa” (cfr. estratto CCNL in atti).
In seconda istanza, è emerso che presso il bar gli addetti non espletano attività particolarmente usuranti e che la movimentazione dei carichi più pesanti (quali ad esempio il trasporto dei sacchi della spazzatura all’esterno) è effettuata solo da parte di coloro che sono adibiti all’espletamento del turno pomeridiano (ergo di chiusura dell’attività) ed è condizionato dal quantitativo e dalla tipologia di rifiuti da smaltire in giornata.
Di pregnante rilevanza è la circostanza della assunzione a tempo determinato della nuova dipendente al servizio bar nel periodo di marzo 2019, a seguito delle dimissioni rassegnate dal dipendente C nel febbraio 2019, considerata altresì l’epoca di instaurazione del presente giudizio (febbraio 2019).
Già solo considerando tali elementi il trasferimento in esame profila dubbi di legittimità, che si confermano avuto riguardo alla posizione del disabile, le cui tutele – per le ragioni sopra esposte – si intensificano.
Ne deriva l’obbligo della convenuta, come di ogni altro datore di lavoro, pubblico e privato, a norma della citata direttiva 2000/78 e della normativa interna diretta a darvi attuazione (nella specie il comma 3 bis dell’art. 3 del D.L.vo 216/2003, introdotto dal D.L. 76/2013, in esito alla decisione della Corte di Giustizia, 4.7.2013, C-312/211, di cui infra, e vigente all’epoca del licenziamento impugnato), di “adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori” da intendersi come “quelle modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento o l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali”.
Mentre il ventesimo ed il ventunesimo considerando della direttiva 2000/78 prevedono l’introduzione di “misure appropriate, ossia misure efficaci e pratiche destinate a sistemare il luogo di lavoro in funzione dell’handicap, ad esempio sistemando i locali o adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro, la ripartizione dei compiti o fornendo mezzi di formazione o di inquadramento. Per determinare se le misure in questione danno luogo a oneri finanziari sproporzionati, è necessario tener conto in particolare dei costi finanziari o di altro tipo che esse comportano, delle dimensioni e delle risorse finanziarie dell’organizzazione o dell’impresa e della possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni”.
Quindi secondo le fonti superprimarie di interesse (alla cui attuazione è diretto specificamente, si ribadisce, nella parte che qui il rileva, il D.L. 76/2013), attesa la condizione di handicap dell’attrice, gravava sulla convenuta un obbligo di adeguare attrezzature, ritmi di lavoro e distribuzione delle mansioni nell’ambito della propria organizzazione di impresa in modo da consentire alla lavoratrice la prosecuzione dell’attività lavorativa in condizioni di uguaglianza con gli altri dipendenti (e quindi senza rischi per la sua salute e con adeguata efficienza), sempre che un tale adeguamento richiedesse oneri proporzionati in relazione, tra l’altro, alle dimensioni e alle risorse finanziarie dell’azienda (cfr. sul punto espressamente Corte di Giustizia, 4.7.2013, C-312/11, che ha ritenuto che l’Italia non avesse trasposto correttamente la direttiva 2000/78, giacché a tal fine “non è sufficiente disporre misure pubbliche di incentivo e di sostegno, ma è compito degli Stati membri imporre a tutti i datori di lavoro l’obbligo di adottare provvedimenti efficaci e pratici, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, a favore di tutti i disabili, che riguardino i diversi aspetti dell’occupazione e delle condizioni di lavoro e che consentano a tali persone di accedere ad un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione”, giudizio cui è seguito il citato D.L. 76/2013, con ogni conseguenza quanto all’obbligo del giudice nazionale di interpretazione conforme della detta normativa nazionale rispetto al contenuto e allo scopo della direttiva).
Ora l’obbligo de quo concorre certamente, per quanto qui a rileva, a delimitare il legittimo esercizio del potere datoriale di ius variandi.
In altri termini, tenuta la resistente, nei limiti di uno sforzo proporzionato, ad adeguare la sua organizzazione d’impresa in modo da consentire alla ricorrente di continuare a svolgere la sua prestazione in condizione di uguaglianza con gli altri lavoratori, all’interno di un contesto lavorativo che non aggravi od impedisca di fatto la prosecuzione del rapporto di lavoro.
Né può dubitarsi che fosse la società ad essere gravata (anche) della prova dell’inesistenza o inutilità di tali ragionevoli accomodamenti, in quanto necessariamente costitutivi nella specie della legittimità del trasferimento allegato, alla luce dell’obbligo legale di non discriminazione per motivi di handicap, attesa la natura obiettiva e funzionale dei divieti di discriminazione imposti dal diritto dell’Unione.
Facendo applicazione di tali principi, sembra a questo giudice che una simile prova non sia stata raggiunta e che in contrario vi sia evidenza in atti della disponibilità nell’organizzazione aziendale, ed anzi presso la stessa sede di assegnazione della ricorrente, di posizioni professionali che la stessa potrebbe utilmente ricoprire senza rischi per la sua salute, previa adozione da parte della Innova di una misura organizzativa non avente alcun apparente costo aziendale, in quanto consistente nella sola redistribuzione di taluni compiti tra i dipendenti addetti all’Ospedale di S.
La società infatti ha fornito esclusivamente una prova negativa adducendo ragioni – peraltro – confutate a seguito della espletata prova orale, senza considerare che il trasferimento operato a fronte della sopravvenuta inidoneità della dipendente presso una sede notevolmente distante dalla propria abitazione, considerata altresì l’esiguità dell’orario di lavoro prestato, non appare suffragato da valida giustificazione, volta a comprovare l’attivazione del datore di lavoro per il rinvenimento dell’accomodamento ragionevole.
La riprova di tale mancata attivazione risiede altresì nella genericità delle motivazioni addotte a sostegno del trasferimento, ove si legge “la I ha effettuato una indagine sull’intero perimetro aziendale (…) purtroppo al momento gli impianti più vicini al suo Comune di Residenza non presentano posizioni vacanti, mentre in un’altra Regione è presente un posto vacante ossia presso la mensa dell’Istituto di Istruzione della Polizia Penitenziaria di Castiglione delle Stiviere (Mantova) (…) nella nuova unità di destinazione sarà adibita alle mansioni proprie della sua qualifica (…) che saranno compatibili con il suo stato di salute” (cfr. allegato 12 produzione G).
Alla luce di quanto detto, in assenza di ulteriori elementi di valutazione, la condotta datoriale non appare improntata ai principi di buona fede e correttezza ex artt. 1175 e 1375 cc, nonché contrastante con il dictum sovranazionale, come elaborato dalla Corte di Giustizia Europea e fatto proprio dagli interpreti italiani.
Altresì sussistente è il periculum in mora. Invero le condizioni di salute della ricorrente potrebbero concretamente aggravarsi a fronte di un trasferimento presso una sede notevolmente distante dalla propria abitazione (circa 700 km), considerando altresì che oltre alla patologia per cui è stata dichiarata inidonea alle mansioni specifiche (quale la poliartrite reumatologica) è anche affetta da sindrome depressiva endoreattiva (cfr. certificati medici in atti).
Il ricorso va dunque accolto e va dichiarata la illegittimità del trasferimento operato dalla società resistente. Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
– accoglie il ricorso e per l’effetto condanna I spa a riadibire la ricorrente presso la precedente sede di lavoro (Ospedale di Solofra) in mansioni confacenti alla propria condizione di salute;
– condanna Innova al pagamento delle spese di lite che si liquidano in euro 1.000 oltre spese generali Iva e Cpa come per legge con attribuzione ai procuratori dichiaratisi anticipatari.
Manda alla cancelleria per le comunicazioni.
Così deciso all’esito della camera di consiglio del 19.06.2019
Il giudice del lavoro
Dott.ssa Alessia Marotta