Discriminazione razziale, contenuto diffamatorio notizie a mezzo stampa, Tribunale di Milano, sezione prima, ordinanza del 13 giugno 2019
TRIBUNALE DI MILANO – Sezione PRIMA CIVILE
ordinanza dd. 13/06/2019 – RG n. …..
Il Tribunale, nella persona della dott. Paola Gandolfi ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nella procedura cautelare iscritta al N. …. dell’anno 2017 R.G. promossa da
I SOCIETA’ COOPERATIVA SOCIALE, con il patrocinio degli avv. GA e NL, RICORRENTE;
contro
E L. S.R.L., con il patrocinio dell’avv. LGL e RESISTENTE
V.F. con il patrocinio dell’avv. LGL e RESISTENTE;
Il Giudice Designato, a scioglimento della riserva,
OSSERVA:
Con ricorso 11/2/17 la I, Società Cooperativa ONLUS, agiva per accertare il carattere discriminatorio e/o molesto della condotta dell’E L s.r.l. e di V F concretantesi nella pubblicazione dell’articolo “Turpe speculazione. Elenco dei papponi che si arricchiscono con la tratta dei neri. Nel 2016 fatturati milionari per Coop ed associazioni cattoliche”
In un riquadro accanto all’articolo viene indicata anche la Cooperativa ricorrente.
Secondo Intrecci, il comportamento in oggetto integrerebbe il reato di diffamazione, ma anche la discriminazione ex art 2 D.vo 215/03, nel senso che contribuirebbe a creare un clima “intimidatorio, ostile degradante ed offensivo” e renderebbe più difficoltoso per i richiedenti asilo accedere alle prestazioni di assistenza e costituirebbe molestia per l’attrice, che si occupa esclusivamente della attività a favore del gruppo protetto.
Si costituivano i conventi eccependo la carenza di legittimazione attiva della ricorrente e quella passiva di F, che non è direttore responsabile della testata, nonchè di quella sostanziale della E L.
La resistente eccepiva comunque la correttezza dell’articolo e contestava i danni lamentati e la loro dipendenza causale dall’articolo.
Veniva autorizzato lo scambio di memorie e la ricorrente, sia pure in via subordinata, chiedeva di riqualificare la domanda come da risarcimento da diffamazione.
I resistenti ribadivano le loro difese prendevano posizione sulla domanda dirisarcimento da diffamazione, allegando la correttezza dell’articolo.
All’udienza del 13/3/19 la causa veniva discussa ed il G.I. riservava la decisione.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Preliminarmente va esaminata la domanda principale di discriminazione/molestia.
Come noto, il diritto alla non discriminazione trova fondamento, oltre che nell’art. 43 d.lgs. 286/1998 (e successive integrazioni, cfr. art. 2 D.lvo 215/03), nell’articolo 3 della Costituzione, che sancisce il principio di pari dignità sociale e di eguaglianza davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
Ora, in relazione alla nozione di discriminazione, l’art. 43 del D.Lgs. 286/1998 dispone che: “ai fini del presente capo, costituisce discriminazione ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica”.
Alla stregua della normativa sopra citata è pertanto discriminatorio ogni comportamento che provochi una distinzione anche in ragione dell’origine nazionale e quindi della cittadinanza.
Del pari, ai sensi dell’art. 2 del D.lgs. 215/2003 costituisce discriminazione per ragioni di razza e origine etnica, non solo il trattamento di svantaggio comparativo subito da un soggetto per motivi connessi a tali fattori, ma anche la “molestia” subita in connessione ai medesimi motivi.
Per molestia, si intende “quei comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi di razza o di origine etnica, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona edi creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo” (aggettivi da intendersi non in senso cumulativo, come risulta da un’interpretazione letterale della congiunzione “o”, introdotta dalla modifica operata con decreto legge 59/2008, in seguito alla procedura d’infrazione n. 20005/2358 della Commissione Europea).
Ne consegue che anche la “molestia deve essere sussunta nel concetto generale di discriminazione. La nozione normativa di discriminazione (artt. 43 del D.Lgs. 286/1998 e art. 2 del D.Lgs. 215/2003) -nella parte in cui si definisce discriminatorio quel comportamento che, direttamente o indirettamente, abbia l’effetto (solo l’effetto e quindi non anche lo scopo) di vulnerare (distruggendolo o compromettendolo) il godimento, in condizioni di parità, dei diritti umani -porta a ritenere che l’imputazione della responsabilità non possa essere ancorata solo al tradizionale criterio della colpa (vedi in questo senso la giurisprudenza comunitaria e, in particolare, la sentenza della Corte di Giustizia, 8.11.1990, Dekker c. StichtingVormingscentrumvoor Jong Volwas-senen Plus, causa C-177/88, in Racc., 1990, p. 3941).
Secondo la disposizione legislativa, infatti, costituisce condotta discriminatoria anche quella che, pur senza essere animata da uno “scopo” di discriminazione, produca comunque un “effetto” di ingiustificata pretermissione per motivi razziali, etnici ecc.
Trattandosi di normativa interna in esecuzione di direttiva comunitaria, trovano applicazione vincolante le pronunce della Corte di Giustizia, che definiscono l’effettivo contenuto delle norme comunitarie.
In proposito va ricordato come nella direttiva 2000/43 i considerando 2, 3, 9, 12, 13, 15, 16 e 28 così recitano:
(2) conformemente all’articolo 6 del trattato sull’Unione europea, l’Unione europea si fonda sui principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali e dello Stato di diritto, principi che sono comuni a tutti gli Stati membri e dovrebbe rispettare i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali[, firmata a Roma il 4 novembre 1950,] e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario;
(3)Il diritto all’uguaglianza dinanzi alla legge e alla protezione di tutte le persone contro le discriminazioni costituisce un diritto universale riconosciuto dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, dalla Convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, dalla Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, dai Patti delle Nazioni Unite relativi rispettivamente ai diritti civili e politici e ai diritti economici, sociali e culturali e dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, di cui tutti gli Stati membri sono firmatari;
(9)le discriminazioni basate sulla razza o sull’origine etnica possono pregiudicare il conseguimento degli obiettivi del trattato CE, in particolare il raggiungimento di un elevato livello di occupazione e di protezione sociale, il miglioramento del tenore e della qualità della vita, la coesione economica e sociale e la solidarietà. Esse possono anche compromettere l’obiettivo di sviluppare l’Unione europea in direzione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia;
(12)per assicurare lo sviluppo di società democratiche e tolleranti che consentono la partecipazione di tutte le persone a prescindere dalla razza o dall’origine etnica, le azioni specifiche nel campo della lotta contro le discriminazioni basate sulla razza o l’origine etnica dovrebbero andare al di là dell’accesso alle attività di lavoro dipendente e autonomo e coprire ambiti quali l’istruzione, la protezione sociale, compresa la sicurezza sociale e l’assistenza sanitaria, le prestazioni sociali, l’accesso a beni e servizi e la loro fornitura;
(13)qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata sulla razza o l’origine etnica nei settori di cui alla presente direttiva dovrebbe pertanto essere proibita in tutta la Comunità;
(15)la valutazione dei fatti sulla base dei quali si può argomentare che sussiste discriminazione diretta o indiretta è una questione che spetta alle autorità giudiziarie nazionali o ad altre autorità competenti conformemente alle norme e alle prassi nazionali. Tali norme possono prevedere in particolare che la discriminazione indiretta sia stabilita con qualsiasi mezzo, compresa l’evidenza statistica;
(16)è importante proteggere tutte le persone fisiche contro la discriminazione per motivi di razza o di origine etnica. Gli Stati membri dovrebbero inoltre, se del caso e conformemente alle rispettive tradizioni e prassi nazionali, prevedere una protezione per le persone giuridiche che possono essere discriminate per motivi di razza o origine etnica dei loro membri;
(28)lo scopo della presente direttiva, volta a garantire un elevato livello di protezione contro la discriminazione in tutti gli Stati membri, non può essere realizzato in misura sufficiente dagli Stati membri;
Ai sensi dell’articolo 1 della direttiva 2000/43, quest’ultima «mira a stabilire un quadro per la lotta alle discriminazioni fondate sulla razza o l’origine etnica, al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento».
Intitolato «Nozione di discriminazione», l’articolo 2 di tale direttiva così dispone: che ai fini della presente direttiva, il principio della parità di trattamento comporta che non sia praticata alcuna discriminazione diretta o indiretta a causa della razza o dell’origine etnica.
Configura una discriminazione diretta qualsiasi trattamento più sfavorevole di una persona sulla base delle caratteristiche personali di cui al paragrafo 1 rispetto al modo in cui è, è stata o sarebbe trattata un’altra persona in condizioni comparabili o simili.
Una discriminazione indiretta consiste nel collocare una persona, sulla base delle caratteristiche personali di cui al paragrafo 1, in una situazione più sfavorevole rispetto ad altre persone attraverso una disposizione, un criterio o una prassi in apparenza neutri, salvo che tale disposizione, tale criterio o tale prassi siano oggettivamente giustificati da uno scopo legittimo e che i mezzi utilizzati al fine di raggiungerlo siano adeguati e necessari».
Ai fini del paragrafo 1,sussiste discriminazione diretta quando, a causa della sua razza od origine etnica, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga; sussiste altresì discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere persone di una determinata razza od origine etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone, a meno che tale disposizione, criterio o prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari.
Le molestie sono da considerarsi, ai sensi del paragrafo 1, una discriminazione in caso di comportamento indesiderato adottato per motivi di razza o di origine etnica e avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo. (…)».Sotto il titolo «Campo di applicazione», l’articolo 3 della richiamata direttiva, al paragrafo 1, lettera h), così recita: «Nei limiti dei poteri conferiti alla Comunità, la presente direttiva si applica a tutte le persone (…) per quanto attiene: all’accesso a beni e servizi che sono a disposizione del pubblico e alla loro fornitura, incluso l’alloggio».
Intitolato «Requisiti minimi», l’articolo 6 della direttiva 2000/43 al paragrafo 1 così prevede: «Gli Stati membri possono introdurre o mantenere, per quanto riguarda il principio della parità di trattamento, disposizioni più favorevoli di quelle fissate nella presente direttiva».
L’articolo 8 di tale direttiva, intitolato «Onere della prova», al paragrafo 1 prevede che «Gli Stati membri prendono le misure necessarie, conformemente ai loro sistemi giudiziari nazionali, per assicurare che, allorché persone che si ritengono lese dalla mancata applicazione nei loro riguardi del principio della parità di trattamento espongono, dinanzi a un tribunale o a un’altra autorità competente, fatti dai quali si può presumere che vi sia stata una discriminazione diretta o indiretta, incomba alla parte convenuta provare che non vi è stata violazione del principio della parità di trattamento».
La giurisprudenza della Corte, sottolinea altresì che la sfera di applicazione della direttiva 2000/43 non può, considerato il suo oggetto e la natura dei diritti che si propone di tutelare, essere definita in modo restrittivo, sicchè si giustifica l’interpretazione secondo la quale il principio della parità di trattamento al quale si riferisce detta direttiva si applica non in relazione a una determinata categoria di persone, bensì sulla scorta dei motivi indicati al suo articolo 1, cosicché può giovare anche a coloro che, seppure non appartenenti essi stessi alla razza o all’etnia interessata, subiscono tuttavia un trattamento meno favorevole o un particolare svantaggio per uno di tali motivi (v., per analogia, sentenza Coleman, C-303/06, EU:C:2008:415, punti 38 e 50).
Tale interpretazione è peraltro corroborata dal considerando 16 e dall’articolo 3, paragrafo 1, di tale direttiva, secondo i quali la protezione contro la discriminazione fondata sulla razza o l’origine etnica che essa mira a garantire si applica a «tutte» le persone.
Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, la Corte risponde alle questioni sollevate nella controversia C 83-14 che la nozione di «discriminazione fondata sull’origine etnica», ai sensi della direttiva 2000/43 e, in particolare, degli articoli 1 e 2, paragrafo 1, dev’essere interpretata nel senso che, in circostanze come quelle di cui al procedimento principale, detta nozione si applica, indifferentemente, a seconda che la predetta misura collettiva interessi le persone che hanno una determinata origine etnica o quelle che, senza possedere detta origine, subiscono, insieme alle prime, il trattamento meno favorevole o il particolare svantaggio risultante da tale misura.
Quindi quella allegata da I, che si occupa delle tutela di soggetti di una determinata origine etnica e/o nazionale (gruppo pretetto), si presenterebbe alla stregua di una molestia diretta, che rende difficoltoso l’esercizio della sua attività.
Tuttavia, dal tenore della normativa e dalla giurisprudenza della Corte, in tutti i casi ritenuti illeciti di trattamento sfavorevole, lo stesso è addebitabile ad un soggetto che possa, per la natura dei suoi atti, incidere direttamente, attraverso l’esercizio di un potere di sovraordinazione, sulla persona che lamenta la discriminazione e/o molestia (datore di lavoro, gestore di servizi di erogazione di energia elettrica o altro, autorità amministrative).
Diverso è il caso in cui la condotta, in violazione principio di rispetto dovuti alle persone provenienti da Paesi differenti (e dei soggetti che della loro assistenza) sia espressione dei desiderata espressi in un articolo di stampa la cui legittimità va considerata sotto il diverso criterio del conflitto tra la libertà di espressione del pensiero ex art. 21 Cost e la reputazione di chi si ritiene leso, riconosciuta anche a soggetti collettivi ed imprenditoriali, ex art.2 Cost.
Va aggiunto che il contenuto dell’articolo fa riferimento non solo ai centri di accoglienza dei profughi, ma anche a chi eroga servizi a soggetti deboli in genere (minori, anziani) anche di nazionalità italiana, sicchè la discriminazione di razza rappresenta solo una parte, anche se la principale, di quanto addebitato alle cooperative.
Ed invero, avendo già indicato la prospettiva della natura diffamatoria del fatto, nella memoria autorizzata la ricorrente ha in parte modificato le sue conclusioni chiedendo, sia pure invia subordinata l’accertamento di diffamazione ai suoi danni, fondata sul medesimo fatto e già indicata nella narrativa del ricorso.
Come è noto, la S.C. intervenendo a dirimere le questioni poste da interpretazioni divergenti delle Sezioni, ha statuito che “la modificazione della domanda ammessa ex art. 183 cod. proc. civ. può riguardare anche uno o entrambi gli elementi oggettivi della stessa (“petitum” e “causa petendi”), sempre che la domanda così modificata risulti comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio e senza che, perciò solo, si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte, ovvero l’allungamento dei tempi processuali. (Ne consegue l’ammissibilità della modifica, nella memoria ex art. 183 cod. proc. civ., dell’originaria domanda formulata ex art. 2932 cod. civ. con quella di accertamento dell’avvenuto effetto traslativo)” Cass. SU 12310/15.
Anche recentemente la Corte, uniformandosi alle S.U. ha ribadito che “la modificazione della domanda, consentita dall’art. 183, comma 6, c.p.c., può riguardare uno o entrambi gli elementi oggettivi della stessa (“petitum” e “causa petendi”), sempre che la domanda così modificata risulti connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio e senza che, perciò solo, si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte, ovvero l’allungamento dei tempi processuali. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto ammissibile la modificazione dell’originaria domanda risarcitoria, formulata da un investitore nei confronti dell’intermediario finanziario, in quella di risoluzione per inadempimento, tenuto conto che entrambe le richieste riguardavano la stessa operazione di compravendita titoli ed erano fondate sull’allegazione dei medesimi comportamenti inadempienti dell’intermediario” (Cass. ord 13091/18, conf 11369/19 ord.).
Pertanto deve essere affronta la domanda così emendata nella causa petendi, esplicitamente proposta in via subordinata in sede di memoria autorizzata.
I convenuti, come accennato, eccepiscono la liceità del servizio e comunque la scriminante del diritto di critica e di cronaca ex art. 21 Cost.
Come è noto, il giudice di legittimità ha da tempo definito che: “per considerare la divulgazione di notizie lesive dell’onore lecita espressione del diritto di cronaca ed escludere la responsabilità civile per violazione del diritto all’onore, devono ricorrere tre condizioni consistenti:
- a) nella verità oggettiva (o anche soltanto putativa, purché frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca) che non sussiste quando, pur essendo veri i singoli fatti riferiti, siano, dolosamente o anche soltanto colposamente, taciuti altri fatti, tanto strettamente ricollegabili ai primi da mutarne completamente il significato; ovvero quando i fatti riferiti siano accompagnati da sollecitazioni emotive ovvero da sottintesi, accostamenti, insinuazioni, allusioni o sofismi obiettivamente idonei a creare nella mente del lettore (od ascoltatore) rappresentazioni della realtà oggettiva false; il che si esprime nella formula che “il testo va letto nel contesto”, il quale può determinare un mutamento del significato apparente della frase altrimenti non diffamatoria, dandole un contenuto allusivo, percepibile dall’uomo medio (Cass. 14 ottobre 2008, n. 25157);
- b) nella sussistenza di un interesse pubblico all’informazione, vale a dire la cd. pertinenza (ex multis: Cass. 15 dicembre 2004, n. 23366; Cass. n. 15999/2001; Cass. n. 5146/2001);
- c) nella forma “civile” dell’esposizione dei fatti e della loro valutazione, e cioè la cd. continenza, posto che lo scritto non deve mai eccedere lo scopo informativo da conseguire ed essere improntato a serena obiettività, con esclusione di ogni preconcetto intento denigratorio e nel rispetto di quel minimo di dignità cui ha pur sempre diritto anche la più riprovevole delle persone, evitando forme di offese indiretta (Cass. 18 ottobre 1984 n. 5259).
- d) l’esistenza concreta di un pubblico interesse alla divulgazione.
Quanto all’interesse pubblico, lo stesso ravvisato“anche quando non si tratti di interesse della generalità dei cittadini ma di quello della categoria di soggetti ai quali, in particolare, si indirizza la comunicazione” (così Cass. 2537/18).
Non può quindi dubitarsi dell’interesse che i lettori di un quotidiano avente l’orientamento politico di L a conoscere i costi sostenti dallo Stato per sovvenzionare strutture destinate all’accoglienza di profughi.;
Quanto alla “verità” cioè alla corrispondenza tra la narrazione ed i fatti realmente accaduti, la stessa Cooperativa ricorrente non lamenta la correttezza delle cifre indicate nelle tabelle allegate all’articolo, nella quale si fa riferimento specifico a Intrecci.
Il terzo, ma non secondario requisito è quello della continenza ovvero la correttezza formale e sostanziale dell’esposizione dei fatti da intendersi nel senso che l’informazione non deve assumere contenuto lesivo dell’immagine e del decoro.
In sostanza soltanto la correlazione rigorosa tra fatto e notizia di esso soddisfa all’interesse pubblico dell’informazione, che è la ratio dell’art. 21 Cost., di cui il diritto di cronaca è estrinsecazione, e riporta l’azione nell’ambito dell’operatività dell’art. 51 cod. pen., rendendo la condotta non punibile nel concorso degli altri due requisiti della continenza e pertinenza. Invero il potere-dovere di raccontare e diffondere a mezzo stampa notizie e commenti, quale essenziale estrinsecazione del diritto di libertà di informazione e di pensiero, incontra limiti in altri diritti e interessi fondamentali della persona, come l’onore e la reputazione, anch’essi costituzionalmente protetti dagli artt. 2 e 3 Cost.” (sintesi dei principi così espressa in Cass.21404/14).
Nella specie la giurisprudenza della S.C. ha imposto al giudice di accertare se le comunicazioni dirette a valutare negativamente il comportamento di un soggetto fossero strumentalmente collegate alla manifestazione di un dissenso ragionato del comportamento preso di mira o si fossero tradotte in un’aggressione gratuita e distruttiva dell’onore e della reputazione dell’interessato. In proposito, risulta di tutta evidenza che la tabella di cui sé detto, compaia a corredo di un articolo in cui le sovvenzioni ricevute dalle strutture di accoglienza siano indicate come “turpe speculazione”, a suggerire che il lecito percepimento di contributi per lo svolgimento di essenziali attività di assistenza, rappresenti un fatto disgustoso ed inammissibilmente illecito, al limite del reato.
Oltre ad insinuare una evidente grave riprovevolezza di siffatto comportamento, va considerato il titolo dell’articolo “Elenco dei papponi che si arricchiscono con la tratta dei neri”
Innanzitutto la scelta del sostantivo “papponi” per definire chi riceve le sovvenzioni, rappresenta una volontaria ricerca dell’offesa gratuita.
Come è noto il termine in questione indica, nella percezione comune, colui che si arricchisce per mezzo dello sfruttamento della prostituzione e solo in via secondaria viene collegato al termine “pappa” nel senso comunque scroccone, profittatore (v. vocabolario Zingarelli).
Siffatto significato primario è fortemente rafforzato dal riferimento a chi “si arricchisce con la tratta dei neri” (il termine tratta ancora si riferisce al commercio di carne umana, in primisle prostitute).Risulta evidente ancora una volta l’intenzione di Libero di indicare ai propri lettori la natura para-delinquenziale delle attività di accoglienza e dei fondi legittimamente ricevuti per svolgerle, aggravato dal riferimento alla cooperativa di Buzzi (protagonista dell’inchiesta su Mafia Capitale) e ad altrenon menzionate strutture che sarebbero entrate nel mirino della AG.
Come è noto, da tempo la S.C. ribadisce che “per stabilire se uno scritto giornalistico abbia o meno contenuto diffamatorio non è sufficiente avere riguardo alla verità delle notizie da esso diffuse, né limitarsi alla sola analisi testuale dello scritto, ma è invece necessario considerare tutti gli ulteriori elementi -come ad esempio i titoli, l’occhiello, le fotografie, gli accostamenti, le figure retoriche -che formano il contesto della comunicazione e che possono arricchirla di significati ulteriori, anch’essi lesivi dell’altrui onore o reputazione” (Cass. 25157/08).
Anche più recentemente il S.C. ha ribadito che “in tema di esercizio dell’attività giornalistica, il carattere diffamatorio di uno scritto non può essere escluso sulla base di una lettura atomistica delle singole espressioni in esso contenute, dovendosi, invece, giudicare la portata complessiva del medesimo con riferimento ad alcuni elementi, quali: l’accostamento e l’accorpamento di notizie, l’uso di determinate espressioni nella consapevolezza che il pubblico le intenderà in maniera diversa o contraria al loro significato letterale, il tono complessivo e la titolazione dell’articolo” (Cass. 18769/13; conf. anche 5146/01).
In conseguenza di tale lettura complessiva dell’articolo e delle tabelle allegate di riferimento, che hanno senso solo in quanto siano a corredo della tesi propugnata, pare di non potere rilevare l’esistenza degli estremi per riconoscere la scriminante del diritto di cronaca e critica (come definiti dalla giurisprudenza della SC) sicchè deve ritenersi ingiustificata la lesione alla reputazione della ricorrente.
L’accertamento del carattere diffamatorio dell’articolo in oggetto comporta la condanna al risarcimento dei danni causati all’attore, come allegati nel ricorso (ove si riferisce peraltro solo di conseguenze lesive alla reputazione).
Anche se tale danno non è “in re ipsa”, nel senso che non coincide con la lesione dell’ interesse, ma deve essere considerato con riferimento alle conseguenze che ha determinato nella sfera personale del soggetto leso, sotto il profilo della ripercussione negativa sulla vita sociale e relazionale e, nel caso che ci occupa, dell’attività di imprenditoria sociale. Si tratta dievenienze di danno-conseguenza che, laddove non siano allegati effetti di tipo patologico, possono essere valutate e liquidate utilizzando anche elementi di prova fondati sul notorio, prendendo in considerazione un soggetto-tipo nelle stesse condizioni del diffamato.
Di tale lesione della sfera relazionale, conseguenti alla lesione del valore persona garantito dall’ art. 2 Cost., deve necessariamente darsi una valutazione equitativa ex art. 1226 c.c., che al Tribunale –considerato da un lato il mix tra notizia vera titolazione e contento del esclusivamente finalizzati alla derisione ed alla insinuazione del carattere para-delittuoso del ricevimento di fondi per lo svolgimento della attività della struttura, nonché dell’ enfasi dell’articolo, pubblicato in prima pagina, quasi fosse la “notizia del giorno” pare di poter individuare (secondo i parametri usuali di questo Tribunale, che tengono conto della gravità del fatto e della su diffusione) in euro 25.000,00, in moneta attuale e comprensivi di interessi ado ggi (e su cui decorreranno gli interessi legali dalla pubblicazione della sentenza al saldo effettivo).
Responsabile dei danni conseguenti alla riconosciuta diffamazione è l’E L s.r.l. per il disposto dell’art. 11 L.47/48 (non essendo citato l’autore.
Quanto a V F, che non riveste la qualità di direttore responsabile, bensì di direttore editoriale, non può trovare applicazione la disposizione dell’art. 57 c.p., che disciplina il reato di omesso controllo.
La ricorrente non si offerta in alcun modo di allegare ed offrire fatti che, almeno in via di presunzione, consentano di ritenere Feltri direttamente responsabile proprio della scelta di pubblicare quell’articolo con la tabella allegata facente riferimento ad Intrecci, sicchè la domanda nei suoi confronti deve essere rigettata.
Anche all’accertamento della natura illecita del fatto, non può conseguire la cancellazione dell’articolo dal Web, che mantiene la sua funzione di archivio interno, salva la sua deindicizzazione dai motori di ricerca generali e l’ordine di creare un link di riferimento nell’articolo alla presente sentenza. Può inoltre essere accolta la richiesta di riparazione in forma specifica ex art. 120 c.p.c., ordinando la pubblicazione del dispositivo della presente sentenza, a cura e spese della convenuta, su Libero, a caratteri doppi del normale.
Considerata la parziale soccombenza reciproca, le spese possono essere compensate per il 50% tra le parti, ponendo a carico della convenuta Editoriale Libero s.r.l. il residuo50%,, percentuale qui liquidata di euro 4.000,00 oltre IVA CPA e 15% spese generali
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunciando sulle domande proposte con ricorso 11/2/17 da I, Società Cooperativa ONLUS, nei confronti di E L s.r.l. e di V F, ogni altra domanda ed eccezione disattesa:
- A) rigetta la domanda di accertamento del carattere discriminatorio e/o molesto della condotta dell’E L s.r.l. e di V F concretantesi nella pubblicazione dell’articolo “Turpe speculazione. Elenco dei papponi che si arricchiscono con la tratta dei neri. Nel 2016 fatturati milionari per Coop ed associazioni cattoliche”, con tabella allegata;
- B) in accoglimento della domanda subordinata accerta la portata diffamatoria ai danni della ricorrente del contenuto dell’articolo “Turpe speculazione. Elenco dei papponi che si arricchiscono con la tratta dei neri. Nel 2016 fatturati milionari per Coop ed associazioni cattoliche” accompagnata da una tabella in cui viene indicata anche la Cooperativa ricorrente;
- C) rigetta la domanda nei confronti di V F;
- D) condanna la convenuta E L s.r.l. rifondere alla I, Società Cooperativa ONLUS danni, come sopra quantificati in euro 25.00,00, in moneta attuale e comprensivi di interessi ad oggi (e su cui decorreranno gli interessi legali dalla pubblicazione della sentenza al saldo effettivo);
- E) ordina la deindicizzazione dell’articolo dai motori ricerca generali e di creare un link di riferimento nell’articolo archiviato alla presente sentenza;
- F) ordina la pubblicazione del dispositivo della presente sentenza, a cura e spese della convenuta, su L, a caratteri doppi del normale;
- G) compensa le spese per il 50% tra le parti, ponendo a carico della convenuta E L s.r.l. il residuo 50%, percentuale come sopra liquidata di euro 4.000,00 oltre IVA CPA e 15% spese generali.
Milano 13/6/19
Il giudice