Discriminazione disabilità, applicazione periodo di comporto, Corte d’Appello Roma Sezione Lavoro Civile Sentenza 27 novembre 2023 n. 3716

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE D’APPELLO DI ROMA

III SEZIONE LAVORO E PREVIDENZA

composta da

dr. Stefano Scarafoni Presidente rel.

dr.ssa Maria Gabriella Marrocco Consigliere

dr. Vincenzo Turco Consigliere

All’udienza del 18 ottobre 2023 ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella controversia in grado di appello iscritta al n. 221/2022 del Ruolo Generale Civile – Lavoro e Previdenza

TRA

(…)

rappresentato e difeso dall’avv. (…) ed elettivamente domiciliato presso il suo studio in Roma,

APPELLANTE

E

(…) rappresentata e difesa dall’avv. (…) ed elettivamente domiciliata presso il suo studio (…)

APPELLATA

OGGETTO: appello avverso sentenza del giudice del lavoro del Tribunale di Roma n. 8865/2021, pubblicata il 28 ottobre 2021, non notificata.

CONCLUSIONI APPELLANTE: Piaccia a codesta Ecc.ma Corte di Appello, in riforma dell’impugnata sentenza, accertare e dichiarare la discriminatori età e/o nullità del licenziamento intimato al ricorrente in data 13.10.2020 e, per l’effetto, ordinarne la reintegra nel posto di lavoro e condannare la (…) al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento stabilendo a tal fine un’indennità commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione e al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali per il medesimo periodo.

Con vittoria di spese e competenze del doppio grado di giudizio, da distrarsi al sottoscritto procuratore antistatario.

CONCLUSIONI APPELLATA: Si conclude chiedendo, in via principale, che l’Ill.mo Tribunale voglia respingere il proposto ricorso in appello perché infondato ed in via meramente subordinata, in denegata ipotesi, limitare l’accoglimento della domanda al solo reintegro senza riconoscimento alcuno di risarcimento del danno e/o retribuzioni.

Vittoria di spese ed onorari.

Fatto e diritto

1. (…) ricorre in data 25 marzo 2021, al giudice del lavoro del Tribunale di Roma impugnando il licenziamento intimatogli, in data 14 ottobre 2020, dal datore di lavoro società (…) per superamento del periodo di comporto, avendo cumulato un totale di 366 giorni di assenza per malattia nell’arco degli ultimi 36 mesi, ossia un giorno in più di quanto previsto dal CCNL di settore per il diritto alla conservazione del posto in caso di malattia.

Il ricorrente non contesta i 366 giorni di assenza conteggiati dal datore di lavoro, bensì allega trattarsi di un licenziamento dovuto a discriminazione indiretta ai sensi dell’articolo 2, lett. b), del D.Lgs. 216/2003 che prevede che ricorra “discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o nazionalità o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone”.

Allega, e prova, di essere invalido civile nella misura del 67% e che i periodi di malattia complessivamente cumulati – che hanno dato luogo al superamento del periodo di comporto – sono dovuti alle patologie per le quali è stato riconosciuto invalido.

Deduce, quindi, in diritto che, nel caso di specie, ci si trovi, obiettivamente, di fronte a una discriminazione indiretta perché la disciplina del diritto alla conservazione del posto in caso di malattia, prevista dall’art. 51 del CCNL applicabile al rapporto di lavoro, pur essendo apparentemente neutra, tratta invece in maniera ingiustamente eguale situazioni che non lo sono affatto, ponendo un determinato gruppo di lavoratori, i disabili e invalidi, in una posizione di svantaggio rispetto agli altri. Osserva che la citata norma contrattuale, infatti, stabilisce per tutti i lavoratori lo stesso limite massimo di giorni di assenza, ossia 12 mesi nell’arco temporale di 36 mesi consecutivi, senza preoccuparsi di prevedere per i lavoratori invalidi e disabili un diverso trattamento per l’ipotesi di assenza per malattia non generica, bensì causata dalla loro disabilità/invalidità. In tal modo si attua una discriminazione indiretta del gruppo costituito dai lavoratori disabili e invalidi.

Deduce che la discriminazione indiretta sussiste obiettivamente e a prescindere dall’elemento psicologico del datore di lavoro.

Si duole, poi, che il datore di lavoro abbia incluso nel calcolo del periodo di comporto anche le assenze dal 16 al 20 dicembre 2019, per le quali il certificato medico erroneamente indica “Lombalgia acuta (art. 7 della legge 119 del 2001)”, ove il riferimento corretto avrebbe dovuto essere al D.Lgs. n. 119/2011, il cui articolo 7 prevede che detti periodi di congedo per cure siano esclusi dal periodo di comporto.

Conclude, quindi, chiedendo: “Voglia il Giudice adito accertare e dichiarare la discriminatorietà e/o nullità del licenziamento intimato al ricorrente in data 13.10.2020 e, per l’effetto, ordinarne la reintegra nel posto di lavoro e condannare la Ma. s.r.l. al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento stabilendo a tal fine un’indennità commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione e al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali per il medesimo periodo.”.

2. Si costituisce la società datrice di lavoro (…) che deduce sull’infondatezza della domanda, evidenziando che il ricorrente avrebbe omesso di richiamare le disposizioni della direttiva n. 78/2000/CE che fanno venire meno la sussistenza di una discriminazione indiretta laddove le disposizioni siano giustificate da una finalità legittima ed i mezzi impiegati siano appropriati e necessari (vale a dire, sia proporzionata la speciale forma di cessazione del rapporto di lavoro prevista dall’articolo 2110 c.c. per mezzo della contrattazione collettiva), oppure siano imposte al datore di lavoro dalla legislazione nazionale altre norme che lo obblighino ad adottare misure adeguate per ovviare agli svantaggi previsti dalle disposizioni in ipotesi discriminatorie.

Deduce che la giurisprudenza di legittimità ha affermato che la discriminazione sussiste solo quando si è in presenza di un trattamento deteriore del lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta, non in presenza di una situazione legittimante di carattere generale, quale il superamento del periodo di comporto, in presenza della quale qualsiasi lavoratore sarebbe stato licenziato. Deduce, inoltre, che le disposizioni di cui all’articolo 2110 cc. ed articolo 51 del CCNL di settore potrebbero ritenersi viziate, nel senso esposto da controparte, e cioè per discriminazione indiretta, soltanto nell’ipotesi in cui esse consentissero di includere, nel periodo di comporto, le assenze per malattia effettuate dal lavoratore disabile o invalido che fosse stato assegnato a mansioni non compatibili con la disabilità o la invalidità.

Tuttavia, nel corso del rapporto di lavoro il lavoratore è stato sottoposto alle periodiche visite del medico competente che l’ha sempre giudicato idoneo alle mansioni assegnate.

Deduce, poi, che nell’ordinamento esistono meccanismi di protezione del disabile per sottrarre le assenze per malattia dovute al suo particolare stato di salute dal computo del comporto, ma il ricorrente non ha mai comunicato al datore di lavoro il suo stato di invalidità.

Osserva, quindi, che la sussistenza di una discriminazione indiretta viene meno anche nel caso in cui il lavoratore non comunichi e non documenti lo stato di disabilità o di invalidità al datore di lavoro.

Con riguardo al secondo motivo, relativo al computo delle assenze dal 16 al 20 dicembre 2019, ne osserva l’infondatezza perché il congedo previsto dall’articolo 7 del D.Lgs. 119/2011 richiede una domanda che il ricorrente non ha mai proposto.

Conclude, quindi, per il rigetto del ricorso.

3. Il Tribunale di Roma, sulla base dei documenti prodotti dalle parti, senza alcuna ulteriore attività istruttoria, pronuncia sentenza con cui respinge la domanda aderendo alle argomentazioni della società resistente.

Evidenzia che la direttiva 78/2000/CE fa venire meno la sussistenza della discriminazione indiretta laddove:

a) le disposizioni siano giustificate da una finalità legittima ed i mezzi impiegati siano appropriati e necessari;

b) l’ordinamento interno nazionale preveda meccanismi difensivi per il lavorator e disabile idonei ad evitare una discriminazione indiretta;

c) il lavoratore non comunichi e documenti lo stato di disabilità o invalidità al datore di lavoro.

Osserva, poi, che la giurisprudenza di legittimità esclude la sussistenza di qualsiasi discriminazione in caso di superamento, da parte del disabile, del periodo di comporto, intento discriminatorio che deve essere escluso, in particolare, quando quest’ultimo è stato adibito, come nel caso di specie, a mansione compatibile con il suo stato di salute.

Rileva che l’adibizione del ricorrente a mansioni compatibili con il suo stato di salute esclude che lo stesso sia stato esposto al rischio ulteriore di assenze dovute a una malattia collegata alla sua disabilità, rispetto agli altri lavoratori non disabili.

Ritiene infondato, richiamando una recente pronuncia del Tribunale di Milano, anche l’ulteriore assunto attoreo secondo cui il dipendente non avrebbe avuto alcun obbligo di comunicare lo stato di invalidità al datore di lavoro.

Osserva che anche nel caso in esame la mancata comunicazione, da parte del ricorrente, della disabilità ha impedito al datore di lavoro di mettere in atto i meccanismi di protezione; non vi è, quindi, alcuna violazione da parte della società datrice di lavoro del divieto di discriminazione, ma solo la legittima applicazione dell’articolo 51 del CCNL di settore.

Con riguardo al secondo motivo di ricorso, il Tribunale osserva, in primo luogo, che il certificato medico inviato al datore di lavoro non contiene riferimento alcuno all’articolo 7 del D.Lgs. n. 119/2011, in secondo luogo che l’infondatezza della pretesa sta nel fatto che il congedo previsto da tale ultima disposizione di legge può essere concesso dietro domanda del lavoratore che, nel caso in oggetto, non è mai stata presentata.

4. Avverso tale decisione propone l’odierno appello (…) sulla base di un unico articolato motivo d’impugnazione, lamentando che, nel caso sia richiesto l’accertamento di una discriminazione indiretta, il giudice non deve procedere all’accertamento di alcuna responsabilità in capo al datore di lavoro, poiché tale discriminazione sussiste quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri pongano un “gruppo protetto” in posizione di particolare svantaggio.

Sotto questo aspetto la discriminazione indiretta si distingue dalla discriminazione diretta, in quanto sposta l’attenzione del giudice dalla differenza di trattamento alla diversità degli effetti.

Si duole che nel caso in esame, invece, il Tribunale di Roma non sembra aver colto la natura della discriminazione indiretta, poiché si è soffermato nel motivare la sua decisione sull’asserita mancata comunicazione da parte del lavoratore del suo stato d’invalidità e sul fatto che il lavoratore sia stato sempre adibito a mansioni compatibili con il suo stato di salute.

Anche se ciò fosse vero, non avrebbe alcuna rilevanza per l’accertamento della discriminazione indiretta subita dal lavoratore a causa dell’applicazione della norma contrattuale che deve ritenersi non conforme al principio costituzionale di eguaglianza, in quanto disciplina in modo identico situazioni diverse. Mentre nel caso di discriminazione diretta è la condotta, il comportamento tenuto, che determina la disparità di trattamento, nel caso di discriminazione indiretta la disparità vietata è l’effetto di un atto, di un patto, di una disposizione, di una prassi in sé legittimi, di un comportamento che è corretto in astratto e che, in quanto destinato a produrre i suoi effetti nei confronti di un soggetto con particolari caratteristiche determina, invece, una situazione di disparità che l’ordinamento sanziona. La circostanza che il lavoratore sia sempre stato assegnato a mansioni compatibili con il suo stato di salute non ha alcuna rilevanza rispetto all’indagine che il Tribunale era chiamato a compiere circa l’effetto indirettamente discriminatorio derivante dall’applicazione della norma che disciplina il comporto.

Si duole, quindi, dell’errore in cui è incorso il Tribunale, poiché non è stato mai lamentato dal ricorrente di essere stato esposto al rischio ulteriore di assenze per aver prestato un’attività lavorativa non compatibile con il suo stato di salute. Ribadisce, anzi, che il ricorrente è stato adibito allo svolgimento di mansioni pienamente compatibili con il suo stato di salute, ma che la questione non è questa: la discriminazione indiretta sussiste a prescindere dalle mansioni che il ricorrente ha sempre svolto, e non è cagionata da una condotta illegittima del datore di lavoro, bensì dalla mancata previsione, da parte dell’indicata norma del CCNL, di un differente periodo di comporto per i portatori di handicap. Si costituisce la società (…) richiamando le difese del primo grado. L’appello è fondato.

5. In punto di fatto, si osserva che, con contratto del 31 luglio 2017, (…) è stato assunto da (…) con contratto a tempo indeterminato e con mansioni di operaio addetto alle pulizie e servizi integrati, inquadrato al 2° livello del CCNL imprese di pulizie e servizi integrati/multiservizi (doc. 1 allegato al ricorso introduttivo).

Al momento dell’assunzione, lo stesso già risultava invalido al 67%, come da accertamento effettuato dall’Azienda USL RMD in data 9 febbraio 2010, per esiti di artroprotesi all’anca destra, esiti spondilodiscite L5 – S2 con stenosi canale midollare, epatopatia HCV correlata, lieve insufficienza mitralica (doc. 2 allegato al ricorso introduttivo).

Infatti, in sede di visite mediche per il giudizio di idoneità alla mansione specifica, il medico competente ha emesso giudizio positivo con specifiche limitazioni: in particolare, ha raccomandato di frazionare i carichi che il dipendente movimenta manualmente (sacco rifiuti solidi urbani massimo 10 kg di peso) e di non effettuare asportazione di ROT e sacchi di immondizia (vedere certificati del 4 agosto 2018 e 16 luglio 2019, doc. 5 allegato alla memoria difensiva di (…) nel primo grado del giudizio).

Con lettera di licenziamento del 13 ottobre 2020, ricevuta dall’odierno appellante il successivo giorno 14, (…) ha comunicato il recesso immediato dal rapporto di lavoro, tenuto conto che, considerando l’evento con prognosi fino al 9 ottobre 2020, il (…) aveva accumulato più di 12 mesi di assenza nell’arco di tempo considerato utile dall’articolo 51 del CCNL imprese di pulizia e servizi integrati/multiservizi (doc. 3 allegato al ricorso introduttivo).

5.1. Il richiamato articolo 51 stabilisce che “Il diritto alla conservazione del posto viene a cessare qualora il lavoratore anche con più periodi di infermità raggiunga in complesso 12 mesi di assenza nell’arco di 36 mesi consecutivi. Ai fini del trattamento di cui sopra si procede al cumulo dei periodi di assenza per malattia verificatisi nell’arco temporale degli ultimi 36 mesi consecutivi che precedono l’ultimo giorno di malattia considerato” (doc. 4 allegato al ricorso introduttivo).

L’odierno appellante non contesta l’avvenuto superamento dei 12 di assenza nell’arco dei 36 mesi consecutivi, concordando con il calcolo effettuato dal datore di lavoro di 366 giorni di assenza nel periodo sopra indicato.

Si duole, però, che nel computo siano stati compresi i periodi di malattia chiaramente riconducibili alle menomazioni che hanno dato luogo all’invalidità.

5.2. Nel ricorso introduttivo allega, e prova mediante la produzione dei certificati medici, i seguenti periodi di assenza dal lavoro per le causali appresso indicate:

– dal 14.10.2017 a tutto il 13.11.2017 per “Riposo per giorni 30” prescritto in sede di dimissione post ricovero per “Intervento chirurgico di artrodesi L4 -L5 e decompressione” (doc. 5 allegato al ricorso, lettera di dimissione e lettera del prof. (…) al medico curante);

– dal 14.11.2017 a tutto il 10.05.2018 per “Intervento di Artrodesi L4-L5” (certificati del 14.11.2017; 13.12.2017; 12.01.2018; 16.02.2018; 26.03.2018; 05.04.2018; 13.04.2018; 30.04.2018);

– dal 30.08.2018 a tutto il 31.8.2018 per “Lombosciatalgia sx” (certificato del 30.08.2018);

– dal 05.09.2018 a tutto il 07.09.2018 per “Lombosciatalgia” (certificato del 05.09.2018);

– dal 08.01.2019 a tutto il 11.01.2019 per “Lombosciatalgia” (certificato del 08.01.2019);

– dal 09.04.2019 sino a tutto il 18.06.2019 ricovero presso il Policlinico Portuense “L. Di Liegro”, prima nel reparto Ortopedia e poi nel reparto Riabilitazione motoria per “Postumi di artroprotesi anca sx” (doc. 7 allegato al ricorso, certificati di ricovero e lettera di dimissione);

– dal 02.09.2019 a tutto il 06/09/2019 per “Lombalgia” (certificato del 02.09.2019);

– dal 27.11.2019 a tutto il 28.11.2019 per “Lombalgia” (certificato del 27.11.2019);

– dal 16.12.2019 a tutto il 20.12.2019 per “Lombalgia acuta” (certificato del 16.12.2019);

– dal 21.01.2020 a tutto il 24.01.2020 per “Lombosciatalgia”(certificato del 21.01.2020);

– dal 03.04.2020 a tutto il 08.04.2020 per “Lombosciatalgia” (certificato del 03.04.2020);

– dal 13.05.2020 a tutto il 15.05.2020 per “Lombosciatalgia” (certificato del 13.05.2020);

– dal 27.05.2020 a tutto il 31.05.2020 per “Lombosciatalgia” (certificato del 27.05.2020);

– dal 03.06.2020 a tutto il 05.06.2020 per “Lombosciatalgia” (certificato del 03.06.2020);

– dal 27.08.2020 a tutto il 28.08.2020 per “Lombalgia” (certificato del 27.08.2020);

– dal 06.10.2020 a tutto il 09.10.2020 per “Lombosciatalgia” (certificato del 06.10.2020).

La società (…) non contesta i periodi e le causali delle assenze che, peraltro, risultano all’evidenza riconducibili alle patologie per cui è stata accertata l’invalidità dell’odierno appellante e la sua riduzione della capacità lavorativa alla misura del 67%.

Ciò sia per l’intervento chirurgico di artrodesi L4-L5 e decompressione, collegato e reso evidentemente necessario dalla pregressa patologia di spondilodiscite L5 – S2 con stenosi canale midollare, sia per l’ulteriore ricovero per postumi di artroprotesi anca sx e riabilitazione motoria, evidentemente collegato alla artroprotesi in precedenza effettuata, come risulta dalla prognosi alla dimissione in cui si legge “postumi di artroprotesi anca sinistra per coxartrosi. Portatore di artroprotesi anca destra” (doc. 7 allegato al ricorso introduttivo).

Ma anche le numerose assenze dovute a lombalgie e lombosciatalgie sono, evidentemente, da ricollegare alla spondilodiscite L5 – S2 con stenosi canale midollare ed all’intervento chirurgico di artrodesi L4-L5 e decompressione, trattandosi di patologie che, per comune conoscenza, sono causate dalla compressione del nervo sciatico determinata dalla stenosi del canale midollare.

6. Effettuata la doverosa premessa sui presupposti in fatto dell’odierno giudizio, è necessario, ora, affrontare la questione centrale del processo relativa alla possibilità di configurare una discriminazione indiretta nella richiamata disposizione dell’articolo 51 del CCNL delle imprese di pulizia, nella parte in cui prevede un unico termine per il periodo di comporto, senza considerare in maniera differenziata i lavoratori portatori di handicap.

L’articolo 2 del D.Lgs. 216/2003, che ha dato attuazione nell’ordinamento nazionale alla direttiva 78/2000/CE relativa alla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, al comma 1 prevede che:

“1. Ai fini del presente decreto e salvo quanto disposto dall’articolo 3, commi da 3 a 6, per principio di parità di trattamento si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell’età, della nazionalità o dell’orientamento sessuale. Tale principio comporta che non sia praticata alcuna discriminazione diretta o indiretta, così come di seguito definite:

a) discriminazione diretta quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età, per nazionalità o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga;

b) discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o nazionalità o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone”.

La distinzione delineata dalla legge è estremamente chiara e netta: si ha discriminazione diretta quando una persona è trattata meno favorevolmente di altra dal datore di lavoro in ragione delle professioni religiose o ideologiche o delle connotazioni personali di cui alla norma; si ha, invece, discriminazione indiretta quando il trattamento deteriore non è dovuto alla condotta del datore di lavoro, bensì è l’effetto di “una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri” la cui applicazione, tuttavia, finisce per mettere le persone che si trovino in determinate condizioni personali in una situazione di particolare svantaggio rispetto agli altri lavoratori. E’, quindi, corretta l’affermazione di parte appellante che, mentre l’attenzione, nel caso della discriminazione diretta, è incentrata sulla condotta, nel caso di quella indiretta l’attenzione si concentra sugli effetti di una disposizione, una prassi, un atto apparentemente neutri che finiscono, però, per mettere in posizione di svantaggio coloro che si trovano in determinate condizioni personali.

La giurisprudenza ha affermato che “Mentre nel caso di discriminazione diretta è la condotta, il comportamento tenuto, che determina la disparità di trattamento, nel caso di discriminazione indiretta la disparità vietata è l’effetto di un atto, di un patto di una disposizione di una prassi in sé legittima. Di un comportamento che è corretto in astratto e che, in quanto destinato a produrre i suoi effetti nei confronti di un soggetto con particolari caratteristiche, nello specifico un portatore di handicap, determina invece una situazione di disparità che l’ordinamento sanziona.” (Cass. 20204/2019).

E’, pertanto, condivisibile la critica effettuata da parte appellante alla sentenza di primo grado che, sostanzialmente, ha respinto la domanda sul rilievo che la società sarebbe esente da responsabilità, avendo applicato una disposizione generale del CCNL, valevole per tutti, avendo sempre adibito il (…) a mansioni compatibili con il suo stato di salute e non essendo mai stata informata, da quest’ultimo, della sua condizione di disabilità.

In realtà, l’accertamento della discriminazione indiretta prescinde da profili di colpa del datore di lavoro, andando a colpire gli effetti distorti, determinati da previsioni di carattere generale “apparentemente neutre”, di per sé legittime, sui lavoratori che si trovano nelle condizioni di cui alla disposizione di legge, ponendoli in una situazione di particolare svantaggio rispetto agli altri che non versano in quella stessa condizione.

7. La sentenza del Tribunale di Roma richiama anche, a giustificazione dell’assunto che nel caso di specie non sussisterebbe discriminazione indiretta, la direttiva 78/2000/CE.

Tale direttiva, all’articolo 2, par. 2, lett. b), prevede che:

“Sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di un particolare handicap, le persone di una particolare età o di una particolare tendenza sessuale, rispetto ad altre persone, a meno che:

i) tale disposizione, tale criterio o tale prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari; o che

ii) nel caso di persone portatrici di un particolare handicap, il datore di lavoro o qualsiasi persona o organizzazione a cui si applica la presente direttiva sia obbligato dalla legislazione nazionale ad adottare misure adeguate, conformemente ai principi di cui all’articolo 5, per ovviare agli svantaggi provocati da tale disposizione, tale criterio o tale prassi”. E’ necessario verificare, pertanto, se la presente fattispecie non ricada in una delle eccezioni di cui ai punti i) e ii) che escludono la ricorrenza di una fattispecie di discriminazione indiretta.

Nell’esame dell’eccezione di cui al punto i), si osserva che certamente è giustificata la previsione del CCNL che definisce il termine del periodo di comporto, in ossequio alla legittima finalità di cui all’articolo 2110 c.c. di combattere l’assenteismo e di non obbligare il datore di lavoro a sopportare oneri economici eccessivi per il mantenimento in servizio, oltre il termine accettabile, del lavoratore in malattia. L’eccezione di cui alla lettera i), però, richiede che non solo la finalità sia legittima, ma che i mezzi adottati siano anche appropriati e necessari: in proposito, questa Corte ritiene che non sia appropriata, né necessaria, la previsione di un termine unico di comporto, sia per i lavoratori affetti da handicap (quando la malattia sia riconducibile all’invalidità), sia per quelli che non n e sono affetti, a pena di rendere sostanzialmente inefficace la previsione della discriminazione indiretta.

E’ evidente, infatti, che il lavoratore disabile è esposto al rischio di contrarre patologie conseguenti alle sue menomazioni fisiche, psicologiche, intellettuali, sensoriali, oltre le normali patologie cui sono soggetti anche i lavoratori non disabili, e pertanto soggetto con maggiore frequenza, rispetto ad un altro lavoratore non disabile, alla possibilità del recesso datoriale per superamento del periodo di comporto, con ciò determinando una situazione di svantaggio che determina una disparità di trattamento indirettamente basata sulla disabilità.

La CGUE ha in proposito specificato, quanto alle problematiche di morbilità intermittente eccessiva ed ai costi connessi per le imprese, che gli Stati membri dispongono di un ampio margine di discrezionalità non solo nella scelta di perseguire uno scopo determinato in materia di politica sociale e di occupazione, ma altresì nella definizione delle misure atte a realizzarlo; e che la lotta all’assenteismo sul lavoro può essere riconosciuta come finalità legittima, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2), lettera b), i), della direttiva 2000/78, dal momento che costituisce una misura di politica occupazionale, senza tuttavia ignorare, nella valutazione della proporzionalità dei mezzi, il rischio cui sono soggette le persone disabili, le quali, in generale, incontrano maggiori difficoltà rispetto ai lavoratori non disabili a reinserirsi nel mercato del lavoro e hanno esigenze specifiche connesse alla tutela richiesta dalla loro condizione (sentenza 18 gennaio 2018, in causa C-270/16, Carlos Enrique Ruiz Conejero, punti 39-51).

Quanto all’eccezione di cui al punto ii), la legislazione nazionale non prevede misure adeguate per ovviare agli svantaggi provocati dalla previsione del CCNL di un termine unico di comporto applicabile sia ai lavoratori disabili sia a quelli che non sono affetti da disabilità.

8. Non si può omettere di osservare, infine, che i richiami alla giurisprudenza di legittimità effettuati dal giudice a quo non appaiono del tutto conferenti, essendo attinenti a fattispecie in cui si dibatteva della sussistenza di ipotesi di discriminazione diretta.

9. La problematica della discriminazione indiretta derivante dalla previsione del CCNL di un termine unico di comporto sia per i lavoratori affetti da handicap, sia per quelli che non versano in suddetta condizione, è stata, da ultimo, affrontata e risolta da recentissima pronuncia della giurisprudenza di legittimità.

La questione sottoposta alla Suprema Corte riguardava la vicenda di un lavoratore dipendente, con mansioni di spazzino stradale o spazzino porta-sacchi, che era stato licenziato per superamento del periodo di comporto.

La Corte d’Appello aveva confermato la reintegra disposta al Tribunale ritenendo che detta discriminazione era consistita, alla luce del grave quadro patologico del lavoratore qualificabile come disabilità ai sensi della direttiva 2 000/78/CE, nell’avere la società applicato l’art. 42 CCNL Federambiente al lavoratore licenziato, trascurando di distinguere assenze per malattia ed assenze per patologie correlate alla disabilità, in contrasto con i principi espressi dalla sentenza della Corte di Giustizia UE con sentenza del 18/1/2018 in causa C-270/16.

La Corte Suprema, a fronte delle doglianze della società datrice di lavoro che lamentava la violazione e falsa applicazione dell’articolo 2, comma 1, lett. b), del D.Lgs. 216 del 2003 e dell’articolo 42 del CCNL Federambiente – il cui contenuto è analogo all’articolo 51 del CCNL Imprese di pulizie -, ha osservato quanto segue:

“4. L’applicazione della norma contrattuale collettiva in questione al licenziamento del lavoratore dipendente nel caso in esame, per superamento del periodo di comporto breve, è stata ritenuta dalla Corte di merito discriminatoria, per avere la società trascurato, nell’adottare la decisione di recesso, “di distinguere assenze per malattia ed assenze per patologie correlate alla disabilità”.

5. E’ stata, precisamente, ravvisata un’ipotesi di discriminazione indiretta, che ricorre, ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. b), D.Lgs. 216/2003 (normativa di attuazione della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro) “quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o nazionalità o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone “(testo vigente, di trasposizione dell’art. 2, paragrafo 2, lett. b, della direttiva 2000/78/CE); ciò valorizzando, segnatamente, la sentenza CGUE del 18 gennaio 2018, che ha affermato che l’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), i), della direttiva 2000/78/CE deve essere interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale in base alla quale un datore di lavoro può licenziare un lavoratore in ragione di assenze intermittenti dal lavoro, sebbene giustificate, nella situazione in cui tali assenze sono dovute a malattie imputabili alla disabilità di cui soffre il lavoratore, a meno che tale normativa, nel perseguire l’obiettivo legittimo di lottare contro l’assenteismo, non vada al di là di quanto necessario per raggiungere tale obiettivo, circostanza che spetta al giudice del rinvio valutare…

8. La tutela contro la discriminazione sulla base della disabilità si fonda, oltre che sulla della direttiva 2000/78/CE, attuata nell’ordinamento italiano, sulla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, che include il motivo della disabilità nell’ambito dell’art. 21 (che sancisce il divieto generale di discriminazioni) e contiene anche una disposizione specifica (art. 26) che riconosce il diritto dei disabili di beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità (azioni positive).

9. È inoltre fondata sulla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dall’Italia con legge n. 18/2009 (“Ratifica ed esecuzione della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, con Protocollo opzionale, fatta a New York il 13 dicembre 2006 e istituzione dell’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità”). Detta Convenzione (CDPD) è stata altresì approvata dall’UE, nell’ambito delle proprie competenze, con “Decisione del Consiglio del 26 novembre 2009 relativa alla conclusione, da parte della Comunità europea, della convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità” (2010/48/CE), con la conseguenza che per la Corte di giustizia UE le stesse direttive normative antidiscriminatorie vanno interpretate alla luce della Convenzione.

10. Già con la sentenza 11 aprile 2013 in cause riunite C-335/11 e C337/11, HK Danmark, la CGUE ha chiarito che la nozione di “handicap” di cui alla direttiva 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretata nel senso che essa include una condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, e tale limitazione sia di lunga durata, e che la natura delle misure che il datore di lavoro deve adottare non è determinante al fine di ritenere che lo stato di salute di una persona sia riconducibile a tale nozione.

11. In tale pronuncia, la CGUE ha sottolineato che la direttiva 2000/78 deve essere oggetto, per quanto possibile, di un’interpretazione conforme alla CDPD (Par.Par. 28-32); infatti, la nozione di “handicap” non è definita dalla direttiva 2000/78 stessa (cfr. sentenza 11 luglio 2006 in causa C-13/05, Chacón Navas). Peraltro, la Convenzione dell’ONU, ratificata dall’Unione europea con decisione del 26 novembre 2009, alla sua lettera e) riconosce che “la disabilità è un concetto in evoluzione e che la disabilità è il risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali ed ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri”.

12. In tal modo, l’articolo 1, secondo comma, di tale Convenzione dispone che sono persone con disabilità “coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su una base di uguaglianza con gli altri”. Inoltre, dall’articolo 1, secondo comma, della Convenzione dell’ONU risulta che le menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali debbano essere “durature”. Né risulta che la direttiva 2000/78 miri a coprire unicamente gli handicap congeniti o derivanti da incidenti, escludendo quelli cagionati da una malattia; sarebbe, infatti, in contrasto con la finalità stessa della direttiva in parola, che è quella di realizzare la parità di trattamento, ammettere che essa possa applicarsi in funzione della causa dell’handicap (Par.Par. 36 -41).

13. In proposito, la sentenza HK ha osservato che un lavoratore disabile è maggiormente esposto al rischio di vedersi applicare il periodo di preavviso ridotto (rilevante secondo la legislazione danese in materia) rispetto ad un lavoratore non disabile, perché, rispetto ad un lavoratore non disabile, un lavoratore disabile è esposto al rischio ulteriore di una malattia collegata al suo handicap. Pertanto, egli corre un rischio maggiore di accumulare giorni di assenza per malattia, con la conseguenza che la normativa in discussione in tale causa è idonea a svantaggiare i lavoratori disabili e, dunque, a comportare una disparità di trattamento indirettamente basata sull’handicap ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78. Occorre perciò esaminare se tale disparità di trattamento sia oggettivamente giustificata da una finalità legittima, se i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e se essi non vadano al di là di quanto necessario per conseguire l’obiettivo perseguito dal legislatore (Par.Par. 76, 77).

14. La nozione di handicap/disabilità quale limitazione risultante da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, ed il principio per cui le direttive normative antidiscriminatorie UE vanno interpretate alla luce della Convenzione ONU, sono stati ribaditi nelle sentenze CGUE 4 luglio 2013, in causa C- 312/2011 Commissione c. Italia (Par. 56-57) e 18 dicembre 2014, in causa C- 354/13, FOA; Par.Par.53- 56).

15. Con la sentenza 18 gennaio 2018, in causa C-270/16, Carlos Enrique Ruiz Conejero, valorizzata nella sentenza qui impugnata, la CGUE ha, appunto, affermato che la definizione di discriminazione indiretta contenuta nella direttiva UE osta a una normativa nazionale che consenta il licenziamento di un lavoratore in ragione di assenze intermittenti dal lavoro giustificate e dovute a malattie imputabili alla disabilità di cui soffre il lavoratore, salva verifica di quanto necessario per raggiungere l’obiettivo legittimo di lotta contro l’assenteismo.

16. Ha osservato che un trattamento sfavorevole basato sulla disabilità contrasta con la tutela prevista dalla direttiva 2000/78 unicamente nei limiti in cui costituisca una discriminazione ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 1, della stessa. Infatti, il lavoratore disabile che rientri nell’ambito di applicazione di tale direttiva deve essere tutelato contro qualsiasi discriminazione rispetto a un lavoratore che non vi rientri (Par. 36). Ha confermato, a tal proposito, la constatazione che un lavoratore disabile è, in linea di principio, maggiormente esposto al rischio di vedersi applicare la normativa spagnola in discussione in tale causa rispetto a un lavoratore non disabile, essendo, rispetto a un lavoratore non disabile, esposto al rischio ulteriore di assenze dovute a una malattia collegata alla sua disabilità, e quindi soggetto a un maggiore rischio di accumulare giorni di assenza per malattia e di raggiungere i limiti massimi di cui alla normativa pertinente. A tale rischio consegue l’idoneità di tale normativa a svantaggiare i lavoratori disabili e, quindi, a comportare una disparità di trattamento indirettamente basata sulla disabilità ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78.

17. La CGUE ha specificato, quanto alle problematiche di morbilità intermittente eccessiva ed ai costi connessi per le imprese, che gli Stati membri dispongono di un ampio margine di discrezionalità non solo nella scelta di perseguire uno scopo determinato in materia di politica sociale e di occupazione, ma altresì nella definizione delle misure atte a realizzarlo; e che la lotta all’assenteismo sul lavoro può essere riconosciuta come finalità legittima, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2), lettera b), i), della direttiva 2000/78, dal momento che costituisce una misura di politica occupazionale, senza tuttavia ignorare, nella valutazione della proporzionalità dei mezzi, il rischio cui sono soggette le persone disabili, le quali, in generale, incontrano maggiori difficoltà rispetto ai lavoratori non disabili a reinserirsi nel mercato del lavoro e hanno esigenze specifiche connesse alla tutela richiesta dalla loro condizione (Par.Par. 39-51).

18. Alla luce della ricostruzione della giurisprudenza UE sopra richiamata, in materia regolata da specifica direttiva trasposta nell’ordinamento interno, nonché rientrante nell’area di tutela dell’art. 21 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea, applicabile alla fattispecie (in base all’art. 51 della stessa Carta, essendo certo il collegamento con il diritto dell’Unione), la sentenza impugnata si sottrae alle censure svolte con il primo motivo di ricorso. 19.Se è vero che la nozione di handicap/disabilità non è coincidente con lo stato di malattia, oggetto della regolazione contrattuale collettiva applicata al rapporto ai fini del computo del periodo di comporto rilevante ai sensi dell’art. 2110 c.c., ciò non significa che essa sia contrapposta a tale stato, che può esserne tanto causa quanto effetto, e le cui interazioni devono essere tenute in considerazione nella gestione del rapporto di lavoro.

20. In questo senso, nel caso di specie, l’applicazione al lavoratore dell’ordinario periodo di comporto ha condivisibilmente rappresentato, secondo la Corte di merito, discriminazione indiretta. Ciò perché, rispetto a un lavoratore non disabile, il lavoratore disabile è esposto al rischio ulteriore di assenze dovute a una malattia collegata alla sua disabilità, e quindi soggetto a un maggiore rischio di accumulare giorni di assenza per malattia e di raggiungere i limiti massimi di cui alla normativa pertinente.

21. Come si è visto, secondo la normativa dell’Unione europea come interpretata dalla Corte di Giustizia UE, è tale rischio a rendere idonea una normativa che fissa limiti massimi di malattia – identici per lavoratori disabili e non – in vista del recesso datoriale per (quale quella sul comporto breve) a svantaggiare i lavoratori disabili e, quindi, a comportare una disparità di trattamento indirettamente basata sulla disabilità.

22. L’evidenziato profilo di discriminatorietà prescinde dalle peculiarità e dai meccanismi previsti dalle normative danese e spagnola esaminati nelle citate sentenze della CGUE, e dalla fonte legislativa o contrattuale collettiva della regolazione del comporto o di meccanismi similari. Quel che rileva è l’approdo interpretativo, necessitato dalla normativa europea trasposta in quella domestica, secondo il quale il rischio aggiuntivo di essere assente dal lavoro per malattia di un lavoratore disabile deve essere tenuto in conto nell’assetto dei rispettivi diritti e obblighi in materia, con la conseguenza che la sua obliterazione in concreto, mediante applicazione del periodo di comporto breve come per i lavoratori non disabili, costituisce condotta datoriale indirettamente discriminatoria e perciò vietata.

23. Questo non significa che un limite massimo in termini di giorni di assenza per malattia del lavoratore disabile non possa o non debba essere fissato. Una simile scelta discrezionale del legislatore o delle parti sociali per quanto di competenza, anche ai fini di combattere fenomeni di assenteismo per eccessiva morbilità, può integrare, come ricordato nelle sentenze della CGUE citate, una finalità legittima di politica occupazionale, ed in tale senso oggettivamente giustificare determinati criteri o prassi in materia. Tuttavia, tale legittima finalità deve essere attuata con mezzi appropriati e necessari, e quindi proporzionati, mentre la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, proprio in conseguenza della disabilità, trasmuta il criterio apparentemente neutro del computo del periodo di comporto breve in una prassi discriminatoria nei confronti del particolare gruppo sociale protetto in quanto in posizione di particolare svantaggio.

24. Non si pone, quindi, una questione di mancato bilanciamento con la finalità di contrasto dell’eccessiva morbilità dannosa per le imprese: nella misura in cui la previsione del comporto breve viene applicata ai lavoratori disabili e non, senza prendere in considerazione la maggiore vulnerabilità relativa dei lavoratori disabili ai fini del superamento del periodo di tempo rilevante, la loro posizione di svantaggio rimane tutelata in maniera recessiva.

25. La necessaria considerazione dell’interesse protetto dei lavoratori disabili, in bilanciamento con legittima finalità di politica occupazionale, postula, invece, l’applicazione del principio dell’individuazione di soluzioni ragionevoli per assicurare il principio di parità di trattamento dei disabili, garantito dall’art. 5 della direttiva 2000/78/CE (ovvero degli accomodamenti ragionevoli di cui alla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, alla cui luce vanno interpretate le direttive normative antidiscriminatorie UE), secondo una prospettiva che non risulta percorsa in concreto nel caso in esame… ” (Cass. n. 9095/2023).

10. Questa Corte di merito condivide pienamente gli approdi della giurisprudenza di legittimità, dai quali non intende discostarsi, non intravedendo motivi che possano giustificare una decisione di contrario avviso.

Peraltro, è necessario osservare che la decisione appena richiamata ha un’evidente finalità nomofilattica, essendo stata pronunciata con sentenza resa all’esito di pubblica udienza, quindi con chiara finalità di indirizzo della successiva giurisprudenza di merito e di legittimità.

11. L’accertamento della natura discriminatoria del licenziamento impone l’applicazione della disciplina dell’articolo 2, commi 1 e 2, del D.Lgs. 23 del 2015 (applicabile ratione temporis in considerazione della data di stipula del contratto di lavoro), con conseguente reintegrazione del (…) nel posto di lavoro e condanna della (…) al pagamento di un’indennità commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, pari ad Euro 1.311,46 mensili, dalla data del licenziamento fino a quella della effettiva reintegrazione, oltre al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.

Le spese di lite di entrambi i gradi del giudizio devono essere poste a carico della parte soccombente e si liquidano tenendo conto del valore indeterminabile della controversia, di media complessità, e dell’attività effettivamente espletata (in entrambi i gradi del giudizio non si è tenuta la fase di istruttoria/trattazione).

P.q.m.

Accoglie l’appello e, integralmente riformando la sentenza di primo grado, dichiara la nullità del licenziamento intimato all’appellante perché discriminatorio e, per l’effetto, ne ordina la reintegrazione nel posto di lavoro e condanna la (…) al pagamento di un’indennità commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, pari ad Euro 1.311,46 mensili, dalla data del licenziamento fino a quella della effettiva reintegrazione, oltre al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.

Condanna la società (…) a rimborsare a (…) le spese di lite del doppio grado di giudizio che liquida, quanto al primo, nella somma di Euro 4.500,00 per compenso, oltre spese generali al 15%, iva e c.p.a. e, quanto al presente grado d’appello, nella somma di Euro 6.500,00 per compenso, oltre spese generali al 15%, iva e c.p.a., da distrarre al difensore antistatario.

Così deciso all’udienza del 18 ottobre 2023.