Discriminazione per disabilità, obbligo di accomodamenti ragionevoli, Corte di Cassazione, sentenza del 22 maggio 2024
Fatto
1. La Corte di Appello di Napoli, con la sentenza impugnata, ha confermato – per quanto qui rileva – la pronuncia di primo grado, resa all’esito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012, nella parte in cui, dopo aver riconosciuto l’illegittimità del licenziamento intimato dalla (OMISSIS) Spa ad M.A. in considerazione della sopravvenuta inidoneità parziale alle mansioni di guardia particolare giurata, ha condannato la società a reintegrare il dipendente e a pagare una indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello della effettiva reintegra, in misura non superiore a dodici mensilità.
2. La Corte – in particolare – ha ritenuto che “la mancata ricollocazione del dipendente” non costituisse una condotta discriminatoria ma una condotta inadempiente rispetto agli obblighi di correttezza e buona fede che imponevano al datore di lavoro gli “accomodamenti ragionevoli” previsti dall’art. 3, comma 3 bis, d. lgs. n. 216 del 2003, con la conseguenza che il licenziamento non poteva considerarsi affetto da nullità e non poteva dare luogo alla tutela reintegratoria piena prevista dal comma 1 dell’art. 18 S.d.L. novellato dalla l. n. 92 del 2012.
3. La Corte napoletana ha poi, in riforma della decisione del primo giudice sul punto, rideterminato la misura della indennità risarcitoria commisurandola “all’ultima retribuzione globale di fatto pari ad euro 1494,51”. Ha argomentato che “dal contratto sottoscritto dal lavoratore e dalla (OMISSIS) emerge che la retribuzione de M.A. era determinata in misura pari ad euro 1470,64 (paga conglobata; scatti di anzianità; assegno ad personam […]). A tale importo dovevano essere aggiunte le seguenti voci: indennità di lavoro notturno (euro 16,73) e piantonamento fisso diurno (7,15) che costituiscono voci fisse e continuative che attengono alle modalità tipiche di svolgimento della prestazione di guardia giurata svolta sino a tale data dal ricorrente (evincibili dalla busta paga in atti)”.
4. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso il M.A. con due motivi, illustrati da memoria; ha resistito con controricorso la società.
Nell’adunanza del 3 ottobre 2023 il Collegio ha ritenuto che non sussistessero le condizioni per la pronuncia in camera di consiglio e la causa è stata fissata in pubblica udienza.
Diritto
1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia: “Violazione e falsa applicazione degli artt. 133,134 e 140 TULPS, dell’art. 3D.M. 269/2010, dell’art. 31 del CCNL, dell’art. 115, co. 1, c.p.c., dell’art. 4L. 604/1966, degli artt. 2, 5 e 10 Direttiva 2000/78/CE e degli artt. 2 e 3, comma 3-bis, D. Lgs. 216/2003”.
In sintesi, si deduce che, contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte territoriale, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo irrogato dall’azienda è da ritenersi nullo per violazione del divieto di discriminazione diretta, correlata al fattore di protezione della disabilità/handicap, ai sensi dell’art. 2 della Direttiva 78/2000/CE, per non avere l’azienda medesima adottato le misure concrete ed effettive (cd. “adattamenti ragionevoli”) ai sensi dell’art. 5 della stessa Direttiva.
2. Il motivo sottopone a questa Corte la questione di rilievo nomofilattico della tutela applicabile, ai sensi dell’art. 18 l. n. 300 del 1970, come novellato dalla l. n. 92 del 2012, in caso di licenziamento della persona con disabilità intimato in violazione dell’obbligo di accomodamenti ragionevoli imposto dall’art. 3, comma 3 bis, d. lgs. n. 216 del 2003.
2.1. Per risolvere il dubbio della scelta tra la cd. tutela reintegratoria attenuata (riconosciuta dalla Corte territoriale) e la cd. tutela reintegratoria piena (pretesa dalla parte ricorrente), appare opportuno rammentare le disposizioni di legge nei loro contenuti pertinenti al caso.
Il comma 1 dell’art. 18 S.d.L. stabilisce che “Il giudice, con la sentenza con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio ai sensi dell’articolo 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108, […] ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro. La presente disposizione si applica anche ai dirigenti. […].”
Il successivo comma 2 definisce i contenuti economici della tutela stabilendo che “Il giudice, […], condanna altresì il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata la nullità, stabilendo a tal fine un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato inoltre, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.”
Il comma 7 del medesimo art. 18 l. n. 300 del 1970 prevede che “Il giudice […] nell’ipotesi in cui accerti il difetto di giustificazione del licenziamento intimato, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68, per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore, […]”, applica la disciplina di cui al quarto comma, e cioè “annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di cui al primo comma e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. In ogni caso la misura dell’indennità risarcitoria non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto. […].”
2.2. Per ragioni di completezza dell’evoluzione sistematica vale rammentare anche che il successivo d. lgs. n. 23 del 2015, benché non applicabile alla fattispecie, all’art. 2, dopo aver confermato la tutela reintegratoria più ampia nel caso in cui il giudice dichiari “la nullità del licenziamento perché discriminatorio a norma dell’articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni” (comma 1) riconosce la medesima disciplina “anche nelle ipotesi in cui il giudice accerta il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68” (comma 4).
2.3. Tanto premesso, il Collegio giudica il motivo fondato.
Dalla descritta logica legislativa – che associa alla pronuncia del giudice, che accerta e dichiara il vizio che rende illegittimo il licenziamento, la conseguente tutela – deriva che: a) se il giudice accerta “la nullità del licenziamento perché discriminatorio ai sensi dell’articolo 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108” applica la tutela reintegratoria più ampia prevista dai commi 1 e 2 dell’art. 18 l. n. 300/70; b) se il giudice “accerta il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68”, applica la tutela reintegratoria attenuata prevista dal combinarsi dei commi 4 e 7 del medesimo art. 18.
Ciò posto, non può negarsi che sia discriminatorio il licenziamento del disabile intimato in violazione dell’obbligo di “accomodamenti ragionevoli” sancito, in attuazione di obblighi comunitari, dal comma 3 bis dell’art. 3 del d. lgs. n. 216 del 2003, secondo cui: “Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. I datori di lavoro pubblici devono provvedere all’attuazione del presente comma senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie, e strumentali disponibili a legislazione vigente”.
La disposizione è stata interpretata da questa Corte nel senso che essa impone obblighi ulteriori anche al datore di lavoro che intenda licenziare un lavoratore in condizione di disabilità (v. Cass. n. 6497 del 2021; successive conf.: Cass. n. 15002 del 2023; Cass. n. 31471 del 2023; Cass. n. 35850 del 2023; da ultimo, Cass. n. 10568 del 2024).
Secondo tale orientamento oramai consolidato, nell’ipotesi di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore e in presenza dei presupposti di applicabilità dell’art. 3, comma 3 bis, del d.lgs. n. 216 del 2003, il datore di lavoro ha l’onere di provare la sussistenza delle giustificazioni del recesso, ai sensi dell’art. 5 della l. n. 604 del 1966, dimostrando non solo il sopravvenuto stato di inidoneità del lavoratore e l’impossibilità di adibirlo a mansioni, eventualmente anche inferiori, compatibili con il suo stato di salute, ma anche l’impossibilità di adottare accomodamenti organizzativi ragionevoli, i quali, senza comportare oneri finanziari sproporzionati, siano idonei a contemperare, in nome dei principi di solidarietà sociale, buona fede e correttezza, l’interesse del disabile al mantenimento di un lavoro confacente alla sua condizione psico-fisica con quello del datore a garantirsi una prestazione lavorativa utile all’impresa.
Dalla violazione di norme specificamente poste a protezione del disabile e della sua condizione non può che derivare la natura discriminatoria dell’atto.
2.4. Come noto, infatti, il licenziamento discriminatorio è stato inizialmente previsto dall’art. 4 della l. n. 604 del 1966, come quello “determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall’appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali […] indipendentemente dalla motivazione adottata”.
In seguito, la legge n. 108 del 1990 ha esteso tale fattispecie stabilendo, all’art. 3, che è la disposizione specificamente richiamata dal comma 1 novellato dell’art. 18 S.d.L., che “[i]l licenziamento determinato da ragioni discriminatorie ai sensi dell’articolo 4 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e dall’articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall’articolo 13 della legge 9 dicembre 1977, n. 903, è nullo indipendentemente dalla motivazione adottata […]”. L’art. 15 S.d.L. sancisce la nullità di “patti o atti diretti a fini di discriminazione […] di handicap […]”.
2.5. Le norme di diritto interno si pongono nel più ampio contesto sovranazionale.
Nella già citata Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, adottata il 13 dicembre 2006, ratificata e resa esecutiva dall’Italia con l. n. 18 del 2019, approvata a nome della Comunità europea con la decisione 2010/48/CE del Consiglio del 26 novembre 2009, si trova il riconoscimento del “diritto al lavoro delle persone con disabilità, su base di uguaglianza con gli altri” (art. 27). La Convenzione definisce (art. 2) per “discriminazione fondata sulla disabilità qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione sulla base della disabilità che abbia lo scopo o l’effetto di pregiudicare o annullare il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo. Essa include ogni forma di discriminazione, compreso il rifiuto di un accomodamento ragionevole”.
In ambito comunitario, la direttiva 2000/78/CE sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, dopo una serie di considerando, all’art. 1 sancisce che essa “[…] mira a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate (su) […] gli handicap […] per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento”. L’art. 5 – di cui il comma 3 bis dell’art. 3 del d. lgs. n. 216 del 2003 costituisce diretta emanazione – intitolato “Soluzioni ragionevoli per i disabili”, statuisce: “Per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato. Tale soluzione non è sproporzionata allorché l’onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili”.
L’art. 21 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE infine proclama: “E’ vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul[…]la disabilità”.
2.6. La stretta correlazione tra le disposizioni, interne e sovranazionali, a tutela della disabilità, individuata come specifico fattore di discriminazione, e la loro funzione di salvaguardia del principio di parità di trattamento, rientrante nel novero dei diritti fondamentali che costituiscono parte integrante dei princìpi generali del diritto comunitario, preclude la possibilità di negare alla condotta datoriale che concreti una violazione di tali disposizioni la natura di atto discriminatorio e, quindi, nullo.
In particolare, il datore di lavoro che licenzi una persona in condizione di disabilità, in violazione degli obblighi posti per rimuovere gli ostacoli che impediscono alla persona stessa di lavorare in condizioni di parità con gli altri lavoratori, attua una discriminazione diretta, in quanto la persona subisce un trattamento sfavorevole in ragione di una sua particolare caratteristica che costituisce il fattore discriminante protetto.
La qualificazione del licenziamento come discriminatorio, stante l’intima connessione tra l’effetto vietato dell’atto e le conseguenze sanzionatorie, impone di applicare la tutela di cui ai primi due commi dell’art. 18 S.d.L.
2.7. La Corte è consapevole che in tal modo, nella più parte dei casi di illegittimo licenziamento per impossibilità sopravvenuta della prestazione dovuta a condizioni fisiche o psichiche menomate del lavoratore, la tutela applicabile risulta essere quella cd. reintegratoria piena.
Con la conseguenza che la tutela stabilita dal combinato disposto dei commi 4 e 7 dell’art. 18 S.d.L., ricorrente laddove il giudice “accerti il difetto di giustificazione del licenziamento intimato, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68, per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore”, viene confinata ad ipotesi residuali che voci dottrinali ravvisano nei casi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo illegittimo, in presenza di una inidoneità non riconducibile ad una condizione di disabilità, perché, ad esempio, avente natura temporanea (e quindi non “duratura” secondo il diritto dell’Unione), o perché non qualificabile come menomazione, per il venir meno di qualità rispondenti a finalità di efficienza o utilità di prestazioni lavorative peculiari.
In ogni caso resta fermo che la cd. tutela reintegratoria attenuata troverà applicazione tutte le volte in cui il lavoratore non deduca e provi specificamente la disabilità come fattore di discriminazione ed invochi esclusivamente la tutela di cui ai commi 4 e 7 dell’art. 18 S.d.L., come accaduto anche in ipotesi in precedenza esaminate da questa Corte (cfr. Cass. n. 24377 del 2015; conf. Cass. n. 26675 del 2018, in cui la questione posta era quella di applicare il comma 4 ovvero il comma 5 dell’art. 18 S.d.L.).
2.8. Rispetto alla dominante vis actractiva imposta dall’esigenza di protezione del disabile non appare praticabile un diverso percorso esegetico che, pur riconoscendo la natura discriminatoria del licenziamento attuato in violazione dell’obbligo di accomodamento ragionevole, con conseguente nullità dell’atto, attribuirebbe al legislatore la libertà di optare per una tutela, sempre ripristinatoria, ma attenuata.
Oltre alle considerazioni già espresse, ostano ad una tale interpretazione profili di ragionevolezza di una siffatta opzione, oltre che di coerenza sistematica: si somministrerebbe, infatti, una tutela differenziata al disabile rispetto a tutte le altre ipotesi di discriminazione, laddove è implausibile un giudizio di minor riprovazione della discriminazione del disabile rispetto alla discriminazione per altri fattori; quindi, tale ingiustificata disparità di trattamento solleciterebbe dubbi di compatibilità costituzionale e comunitaria; inoltre, porrebbe la questione della disciplina di maggior favore applicabile ai dirigenti e ai dipendenti delle piccole imprese, per i quali sarebbe operante la tutela dei primi due commi dell’art. 18 S.d.L. piuttosto che quella minore prevista dai commi quarto e settimo; infine, divaricherebbe la tutela con gli assunti dopo il 7 marzo 2015, assoggettati al più favorevole regime del d.lgs. n. 23 del 2015, mentre appare preferibile, anche in via interpretativa ed ove possibile, procedere alla omogeneizzazione delle successive discipline, almeno per questo aspetto, recependo una istanza di razionalizzazione più volte ribadita dalla Corte costituzionale, ancora da ultimo con la sentenza n. 22 del 2024.
3. Il secondo motivo di ricorso lamenta la “violazione e falsa applicazione dell’artt. 112 del CCNL” laddove la Corte di appello avrebbe omesso di computare nella retribuzione globale di fatto, quale parametro utile al calcolo indennitario, le voci dei ratei della tredicesima e della quattordicesima mensilità nonché l’assegno ad personam, attribuito al lavoratore in seguito a successione di azienda ex art. 2112 c.c. a titolo di invarianza retributiva, il tutto per la somma complessiva pari ad euro 1804,67.
Il motivo è inammissibile.
Esso denuncia la violazione e falsa applicazione di una norma del CCNL Vigilanza Privata, evidentemente a mente del n. 3 dell’art. 360 c.p.c., ma non censura una interpretazione della contrattazione collettiva ad opera della Corte territoriale, che neanche menziona la disposizione negoziale richiamata nel motivo, quanto piuttosto lamenta una errata quantificazione della “ultima retribuzione globale di fatto maturata” dal dipendente, idonea a commisurare l’indennità risarcitoria di cui all’art. 18 novellato.
Posto che dalla sentenza impugnata non si evince direttamente che detti emolumenti siano stati esclusi, né che la questione del computo di essi sia stata sottoposta alla Corte territoriale, la determinazione del concreto quantum dell’indennità è quaestio facti che involge apprezzamenti di merito, che non possono essere riesaminati innanzi a questa Corte, tanto più con un motivo che rinvia all’esame di documentazione e che è formulato denunciando un errore di diritto. Peraltro, nelle conclusioni del reclamo il ricorrente commisura l’ultima retribuzione globale di fatto ad euro 1.531,55, mentre nel ricorso per cassazione la somma diventa quella di euro 1.804,67 (rispetto ad euro 1.494,51, che è la somma riconosciuta dalla Corte napoletana).
4. In conclusione, il primo motivo di ricorso deve essere accolto, dichiarato inammissibile il secondo, con cassazione della sentenza impugnata e rinvio al giudice indicato in dispositivo che si uniformerà a quanto statuito, provvedendo anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara inammissibile il secondo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di Appello di Napoli, in diversa composizione, anche per le spese.