Molestie, licenziamento, Corte di Cassazione, sentenza del 14 dicembre 2023
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRIA Lucia – Presidente –
Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – rel. Consigliere –
Dott. LEONE Margherita Maria – Consigliere –
Dott. CASO Francesco G. L. – Consigliere –
Dott. MICHELINI Gualtiero – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 28362-2020 proposto da:
A.A., domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato PAOLO BERTI;
– ricorrente –
contro
UNICREDIT Spa in persona dei legali rappresentanti pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LIVENZA 3, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO LOTTI, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati FABRIZIO DAVERIO, SALVATORE FLORIO;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 487/2020 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 07/09/2020 R.G.N. 564/2020;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16/11/2023 dal Consigliere Dott. ADRIANO PIERGIOVANNI PATTI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELENTANO CARMELO, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;
udito l’avvocato ACHILLE BORRELLI, per delega verbale avvocato FABRIZIO DAVERIO.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 7 settembre 2020, la Corte d’appello di Milano ha rigettato il reclamo del lavoratore indicato in epigrafe avverso la sentenza di primo grado, che, in esito a rito Fornero, ne aveva rigettato l’impugnazione del licenziamento per giusta causa intimatogli il 10 luglio 2019 dalla datrice Unicredit Spa a seguito della contestazione disciplinare del (Omissis).
2. A conferma della decisione del Tribunale, in entrambe le fasi sommaria e di opposizione, la Corte d’appello ha ritenuto – degli addebiti contestati (avere il dipendente, team leader presso gli uffici di (Omissis) di Unicredit Direct, con mansioni di coordinamento e supporto di colleghi in rapporto diretto con la clientela: a) intrattenuto, in tempi diversi, rapporti extralavorativi con due donne dipendenti della stessa banca, gravemente pregiudizievoli sia per queste che per la comune datrice; b) abusivamente compiuto negli ultimi due anni molteplici e immotivate interrogazioni, accedendo, mediante le proprie credenziali attraverso il sistema informatico, alle schede di clienti e colleghi per estrarne informazioni e dati esulanti dai suoi compiti di ufficio) – esaustiva la prova, acquisita senza alcuna lesione del diritto di difesa del lavoratore incolpato e idonea a sorreggere gli addebiti sub a). E questi sufficienti a ledere irrimediabilmente il rapporto di fiducia tra le parti, senza necessità di accertare l’addebito sub b).
3. Con atto notificato il 3 novembre 2020, il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione con sei motivi, cui la banca ha resistito con controricorso e memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente ha dedotto violazione e falsa applicazione degli art. 2909 c.c., artt. 324, 346, 433 c.p.c. e 1 legge n. 92/2012 per avere la Corte territoriale erroneamente ritenuto la formazione di un giudicato sull’addebito al lavoratore di (presunte) molestie verbali alla collega B.B., benché non trattato dal Tribunale né in fase sommaria, né di opposizione a cognizione piena, avendo esso fondato il proprio convincimento esclusivamente sui fatti occorsi il (Omissis) alla collega C.C., in quanto di per sé idoneo a giustificare il recesso della banca datrice (salvo il sintetico esame del giudice dell’opposizione, ai sensi dell’art. 1, comma 51 e ss. legge n. 92/2012 ad ulteriore riscontro della predetta contestazione disciplinare, dell’ultima di “indebito utilizzo dei sistemi informatici aziendali”).
2. Con il secondo, egli ha dedotto violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., per avere la Corte territoriale basato il proprio ragionamento decisorio sugli addebiti al lavoratore nei confronti di entrambe le colleghe (B.B. e C.C.), sul presupposto dell’assenza di alcuna sua doglianza in ordine al primo, su cui formatosi un giudicato, in realtà inesistente per la mancata trattazione in primo grado e pertanto in assenza di alcuna prova; così avendo essa violato il principio del fondamento del convincimento del giudice esclusivamente sulle “prove proposte dalle parti” ovvero sui “fatti non specificamente contestati”.
3. Essi, congiuntamente esaminabili per ragioni di stretta connessione, sono infondati.
4. In via di premessa, occorre ribadire la suscettibilità della formazione del giudicato interno su una statuizione minima della sentenza, costituita dalla sequenza rappresentata dall’esistenza di un fatto (pertanto fondata su un accertamento del giudice di merito: Cass. 20 dicembre 2006, n. 27196; Cass. 23 giugno 2021, n. 17955), di una norma e sull’effetto da questa previsto, suscettibile di acquisire autonoma efficacia decisoria nell’ambito della controversia (Cass. 28 settembre 2012, n 16583; Cass. 4 febbraio 2016, n. 2217; Cass. 17 aprile 2019, n. 10760; Cass. 19 ottobre 2022, n. 30728), quale è indubbiamente quella relativa all’addebito disciplinare contestato al lavoratore nei confronti della collega B.B.
4.1. Nel caso di specie, la Corte territoriale ha puntualmente ricostruito il percorso argomentativo della sentenza del Tribunale, a definizione del giudizio di opposizione ai sensi dell’art. 1, comma 57 legge n. 92/2012 (anche per richiamo alla confermata ordinanza dello stesso Tribunale, ai sensi dell’art. 1, comma 49 legge cit.), da cui risulta l’accertamento anche delle molestie verbali addebitate al lavoratore nei confronti della collega B.B. (in particolare: al p.to ii del secondo capoverso di pg. 3 e al primo periodo di pg. 6 della sentenza), rispetto alle quali essa ha rilevato la mancata formulazione, da parte del ricorrente, di “alcuna critica sui punti della sentenza dedicati a tale vicenda”, ossia relativa a B.B. (seconda parte del penultimo capoverso di pg. 11 della sentenza): così concludendo per “la formazione sul punto di un giudicato che è rimasto del tutto immune da critiche” (al primo capoverso di pg. 12 della sentenza).
4.2. Peraltro, la Corte d’appello anche sull’addebito in questione ha svolto un articolato e argomentato ragionamento probatorio, fondato sulle risultanze istruttorie ad esso specificamente relative (al secondo capoverso di pg. 9 e al penultimo di pg. 10 della sentenza) ed applicato in via conclusiva il principio di “non contestazione”, non avendo il lavoratore “contestato radicalmente gli episodi addebitatigli nella lettera di contestazione”, proponendone “a ben vedere… un diverso inquadramento per via delle varie particolarità circostanziali palesatesi…” (all’ultimo capoverso di pg. 10 della sentenza).
Essa ha così operato un’applicazione corretta del principio, posto che, nel rito del lavoro, il convenuto ha l’onere di contestare in termini specifici, e non limitati a una generica negazione, le circostanze di fatto dedotte a fondamento della domanda, ai sensi dell’art. 416 c.p.c., terzo comma (Cass. 27 giugno 2018, n. 16970; e dovendo, parimenti nel rito ordinario, i fatti dedotti dall’attore ritenersi non contestati, per i fini previsti dall’art. 115 c.p.c., qualora il convenuto, a fronte di un’allegazione da parte dell’attore chiara e articolata in punto di fatto, non prenda posizione, ai sensi dell’art. 167 c.p.c., in modo analitico sulle circostanze di cui intenda contestare la veridicità: Cass. 26 novembre 2020, n. 2698; Cass. 23 marzo 2022, n. 9439); avendo per converso l’attore, nel rito del lavoro, l’onere di specifica e tempestiva contestazione, entro l’udienza di cui all’art. 420 c.p.c., dei fatti estintivi specificamente dedotti dal convenuto in comparsa di risposta e rientranti nella sua sfera di conoscibilità, salvo il potere del giudice di accertarne, d’ufficio, l’inesistenza in base alle risultanze ritualmente acquisite (Cass. 17 febbraio 2023, n. 5166).
Inoltre, giova ribadire che l’accertamento, quale contenuto della posizione processuale della parte rientrante nel quadro della sua interpretazione e dell’ampiezza dell’atto della parte medesima, è riservato al giudice di merito ed è sindacabile in cassazione solo per vizio di motivazione (Cass. 3 maggio 2007, n. 10182; Cass. 28 ottobre 2019, n. 27490; Cass. 12 ottobre 2021 n. 27847; Cass. 11 ottobre 2023, n. 28375), nei circoscritti limiti del novellato testo dell’art. 360 c.p.c., primo comma, n. 5, qui non ricorrenti.
4.3. Ma neppure si configura una violazione dell’art. 115 c.p.c., sotto il diverso profilo dell’avere il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, essendo invece inammissibile la diversa doglianza, cui la censura piuttosto inclina, di una sua attribuzione, nel valutare le prove proposte dalle parti, di maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art.
116 c.p.c., sempre che nella denuncia di questa norma non si contesti soltanto il corretto esercizio, da parte del giudice, del suo prudente apprezzamento della prova: in tal caso, essendo la censura ammissibile, ai sensi del novellato art. 360 c.p.c., primo comma, n. 5, solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consenta il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (Cass. s.u. 30 settembre 2020, n. 20867; Cass. 9 giugno 2021, n. 16016).
5. Con il terzo motivo, il ricorrente ha dedotto violazione e falsa applicazione dell’art. 2105 c.c., per l’irrilevanza disciplinare dei comportamenti tenuti dal lavoratore nei confronti della collega C.C. (tra l’altro, apprezzati sull’indimostrato collegamento con le accuse della collega B.B.), in quanto di natura privata e pertanto riguardanti la sfera extralavorativa, senza alcun comprovato riflesso sull’oggettiva compromissione della fiducia datoriale sul puntuale adempimento della prestazione lavorativa del proprio dipendente.
6. Con il quarto motivo, egli ha dedotto violazione e falsa applicazione degli artt. 2106 e 2119 c.c., per avere la Corte territoriale operato valutazioni su una fattispecie astratta e non sul fatto concretamente contestato, ravvisando irrilevanti i mezzi istruttori dedotti in funzione del suo puntuale accertamento, alla luce delle divergenti versioni delle parti, anche in relazione alla proporzionalità della sanzione disciplinare comminata al lavoratore alla sua condotta.
7. Con il quinto motivo, il ricorrente ha dedotto nullità della sentenza e violazione e falsa applicazione degli art. 610 c.p. e art. 115 c.c., per la qualificazione, da parte della Corte d’appello, alla stregua di violenza privata, della ravvisata volontà del lavoratore di costringere la collega C.C. a “proiettarsi sul divano”, in assenza di prova a fronte della sua ferma contestazione della circostanza (ed esclusa per irrilevanza la puntuale deduzione istruttoria in merito) e per motivazione apparente sul punto.
8. Essi, congiuntamente esaminabili per ragioni di stretta connessione, sono in parte inammissibili e in parte infondati.
9. In linea di diritto, giova ribadire che, in tema di licenziamento per giusta causa, il lavoratore debba astenersi dal porre in essere non solo i comportamenti espressamente vietati ma anche qualsiasi altra condotta che, per la natura e per le possibili conseguenze, risulti in contrasto con gli obblighi connessi al suo inserimento nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa, dovendosi integrare l’art. 2105 c.c. con gli artt. 1175 e 1375 c.c., che impongono l’osservanza dei doveri di correttezza e di buona fede anche nei comportamenti extralavorativi, sì da non danneggiare il datore di lavoro (Cass. 9 gennaio 2015, n. 144; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2550; Cass. 15 ottobre 2021, n. 28368).
10. Lungi dall’avere la Corte territoriale operato valutazioni su una fattispecie astratta e non sui fatti concretamente contestati, essa ha compiuto, in esatta applicazione dei suenunciati principi di diritto, quell’accertamento specificamente riservato al giudice di merito, sviluppando un ragionamento probatorio congruamente argomentato, pertanto insindacabile in sede di legittimità, puntualmente calibrato sul contegno del lavoratore, “tradotto” si “in azioni moleste”, ancorché non chiaramente contrassegnato da “prevalenti spunti psichici di ordine sessuale” (così all’ultimo capoverso di pg. 11), ulteriormente approfondito nei suoi “aspetti negativi e allarmanti della relazione” con le due colleghe B.B. e C.C. (ai primi due capoversi di pg. 12 della sentenza), per approdare quindi alla valutazione dei suoi riflessi sul rapporto di lavoro e sulla conseguente “reazione disciplinare della Banca” (dal penultimo capoverso di pg. 12 al secondo di pg. 13 della sentenza). In tale ampia disanima il riferimento alla violenza privata appare del tutto incidentale e avulso da qualunque riferimento a profili o sviluppi penalistici della vicenda (che non risultano sussistenti), sicché si configura come un obiter dictum, che non ha lo scopo di sorreggere la decisione (già basata su altre decisive ragioni) e che quindi è improduttivo di effetti giuridici e, come tale, non suscettibile di gravame, né di censura in sede di legittimità (Cass. 22 novembre 2010, n. 23635; Cass. 10 aprile 2018, n. 8755; Cass. 8 giugno 2022, n. 18429).
10.1. Pare allora qui necessario un chiarimento in ordine alla nozione di “molestie” sul lavoro (di questo nel caso di specie essendosi trattato), nel solco dei principi enunciati da questa Corte, che ha recentemente distinto tra queste (ricorrenti in quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni anche connesse al sesso e aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo: art. 26, primo comma d.lgs 198/2006) e le “molestie sessuali” (invece ricorrenti in quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona, in particolare, creando un clima intimidatorio, ostile, degradante umiliante o offensivo: art. 26, secondo comma d.lgs 198/2006); ed opportunamente sottolineato come la nozione di molestia risulti integrata dal carattere comunque indesiderato della condotta, pur senza che ad essa conseguano effettive aggressioni fisiche a contenuto sessuale; essendo questa e la conseguente tutela accordata fondate sull’oggettività del comportamento tenuto e dell’effetto prodotto, nell’irrilevanza dell’effettiva volontà di recare offesa: secondo la valutazione del giudice di merito, cui è riservata e insindacabile, se congruamente argomentata, in sede di legittimità (Cass. 31 luglio 2023, n. 23295).
Giova allora richiamare in proposito la Convenzione OIL n. 190 sull’eliminazione della violenza e delle molestie sul luogo di lavoro, adottata a Ginevra il 21 giugno 2019 e ratificata dall’Italia con la L. 15 gennaio 2021, n. 4.
La Convenzione e la relativa Raccomandazione del 21 giugno 2019 n. 206 hanno, infatti, arricchito il codice internazionale 11 del lavoro e promosso il rafforzamento della legislazione, delle politiche e delle istituzioni nazionali al fine di rendere effettivo il diritto ad un luogo di lavoro libero da violenza e da molestie. E ciò per avere riconosciuto l’inaccettabilità e l’incompatibilità della violenza e delle molestie con il lavoro dignitoso.
Essa ha, in particolare, dettato la prima definizione riconosciuta a livello internazionale di violenza e molestie legate al lavoro, includendo la violenza e le molestie basate sul genere. E tale definizione si riferisce a “un insieme di pratiche e di comportamenti inaccettabili” che “si prefiggano, causino o possano comportare un danno fisico, psicologico, sessuale o economico” e si estende a tutti i lavoratori e le lavoratrici, includendo tirocinanti e apprendisti e apprendiste, individui che svolgano il ruolo o l’attività di imprenditore o imprenditrice, nel settore pubblico e privato, in imprese nel settore formale e informale, in zone rurali e urbane.
11. Venendo ora all’onere di allegazione dell’incidenza, irrimediabilmente lesiva del vincolo fiduciario, del comportamento extralavorativo del dipendente sul rapporto di lavoro, esso è assolto dal datore di lavoro con la specifica deduzione del fatto in sè, quando lo stesso abbia un riflesso, anche solo potenziale ma oggettivo, sulla funzionalità del rapporto compromettendo le aspettative di un futuro puntuale adempimento (Cass. 24 novembre 2016, n. 24023).
E nel caso di specie, la banca datrice ha tratto un particolare e giustificato allarme dal “lo stampo dei contegni del proprio dipendente, che rendendosi oltre modo petulante e per giunta violento in pregiudizio di altre due dipendenti, aveva mostrato di essere immune da limiti e discipline – una connotazione assai grave per colui che esprimeva il ruolo di team leader – nella gestione dei rapporti extraprofessionali coi colleghi anche nei rapporti di svago…” (così al primo capoverso di pg. 13 della sentenza).
Sicché, la Corte territoriale ha valutato le condotte contestate idonee alla definitiva perdita di fiducia della banca nei confronti del sottoposto (al secondo capoverso di pg. 13 della sentenza).
12. Per il resto, appare evidente come i motivi scrutinati si risolvano nella sostanziale contestazione (sotto i profili illustrati) della valutazione probatoria del giudice di merito, cui solo spetta il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando così libera prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (Cass. 10 giugno 2014, n. 13054; Cass. 27 gennaio 2015, n. 1547): secondo un esercizio insindacabile dal giudice di legittimità, al quale solo pertiene la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni del giudice di merito, non equivalendo il sindacato di logicità del giudizio di fatto a revisione del ragionamento decisorio della Corte territoriale (Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass. 18 marzo 2011, n. 6288; Cass. 19 marzo 2009, n. 6694): secondo principi consolidati di questa Corte (ribaditi più recentemente da Cass. 28 gennaio 2020, n. 1890).
13. Con il sesto motivo, il ricorrente ha infine dedotto violazione e falsa applicazione dell’art. 210 c.p.c., per erronea negazione dell’istanza del lavoratore di esibizione degli atti del procedimento disciplinare, in funzione di accertamento della corrispondenza tra le dichiarazioni dei soggetti interpellati dalla banca e la capitolazione della sua memoria difensiva.
14. Esso è infondato.
15. La Corte territoriale ha, infatti, rigettato l’istanza del lavoratore di ordine di esibizione documentale alla banca datrice con argomentazione congrua (al primo capoverso di pg. 10 della sentenza), pertanto incensurabile per tale ragione (Cass. 17 marzo 2010, n. 6439; Cass. 20 giugno 2011, n. 13533; Cass. 24 gennaio 2014, n. 1484) o addirittura insindacabile neppure sotto un tale profilo (Cass. 29 ottobre 2010, n. 22196), in applicazione dei principi affermati da questa Corte.
16. Per le ragioni suesposte, il ricorso deve essere rigettato, con la regolazione delle spese secondo il regime di soccombenza e il raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali (Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535).
P.Q.M.
La Corte:
rigetta il ricorso e condanna il lavoratore alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in € 200,00 per esborsi e € 5.500,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali in misura del 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 16 novembre 2023.
Il Presidente
(Dott. Lucia Tria)
Il consigliere est.
(dott. Adriano Patti)