Discriminazione di genere, Tribunale di Firenze, Sentenza del 14 maggio 2014
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE ORDINARIO di FIRENZE
Sezione Lavoro
Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Anita Maria Brigida Davia ha pronunciato. la seguente
SENTENZA
nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 1182/2011 promossa da:
E. D. P. , con il patrocinio dell’avv. RUSCONI FABIO e dell’avv. , elettivamente domiciliato in VIA DELLA CONDOTTA 12 50122 FIRENZEpresso il difensore avv. RUSCONI FABIO
CONSIGLIERA REGIONALE DI PARITA’ (C.F. ), con il patrocinio dell’avv. RUSCONI FABIO e dell’avv. , elettivamente domiciliato in VIA DELLA CONDOTTA 12 50122 FIRENZEpresso il difensore avv. RUSCONI FABIO
Parte ricorrente
contro
xxxxx. , con il patrocinio dell’avv. GIANNELLI PIER LUIGI e dell’avv. BOGANI GIOVANNi VIA GIAMBOLOGNA 37 FIRENZE; , elettivamente domiciliato in VIA GIAMBOLOGNA 37 50132 FIRENZEpresso il difensore avv. GIANNELLI PIER LUIGI
T. P., con il patrocinio dell’avv. BRINI ANDREA e dell’avv. TAGLIAFERRI MARCO VIA FIORENTINA 64/A 59100 PRATO; , elettivamente domiciliato in VIA DELLA CERNAIA 102 50129 FIRENZEpresso il difensore avv. BRINI ANDREA
Parte resistente
Concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione
Con atto di ricorso depositato il 03.03.2011, E D P, commessa presso il punto vendita xxx di proprietà della società xxxxx. , e la Consigliera di Parità della Toscana proponevano opposizione ai sensi dell’art.38, comma 3 del D. Lgs.vo 198/2006 avverso il decreto del Tribunale di Firenze – sezione lavoro – del 11.02.2011 che respingeva il ricorso presentato dalle opponenti in data 04.11.2010.
La sig.ra D P rappresentava che erroneamente il giudice aveva escluso la natura discriminatoria del comportamento tenuto dalla sig.ra P e consistente nell’aver posto in essere condotte vessatorie che si sarebbero concretizzate in pressioni esercitate sulla sig.ra D P perché non riprendesse il lavoro a seguito del parto gemellare avvenuto il 10.6.2009, nel rifiuto di trasformare il rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto part-time nonché in un episodio di gravi offese che si sarebbe verificato il 14.06.2010 quando la sig.ra D P comunicava la possibilità di una sua assenza dal lavoro a causa della malattia di uno dei figli.
A modifica del decreto opposto, parte ricorrente insisteva nella richiesta di accertamento della natura discriminatoria ascritta al comportamento mantenuto dalla sig.ra P, nonché nell’ordine di far cessare la condotta vessatoria adottando ogni misura efficace a rimuoverne gli effetti, oltre al risarcimento del danno non patrimoniale quantificabile in € 50.000,00 (ex art. 38, commi 1 e 6 D.Lgs.vo 198/2006).
Entrambe le parti resistenti si costituivano con separate memorie di comparsa rilevando concordemente l’insussistenza di una condotta discriminatoria ai danni della sig.ra Del Prete e facendo presente come la stessa non aveva in alcun modo provato i comportamenti vessatori lamentati. Contestavano inoltre che la P rivestisse anche solo di fatto la qualifica di responsabile del punto vendita. Pertanto chiedevano la conferma del decreto opposto.
Il giudice ritiene infondata l’opposizione essendo la motivazione del decreto opposto e le sue conclusioni pienamente condivisibili.
- a) Prova della discriminazione (punto 2 del decreto)
In tema di comportamenti datoriali discriminatori, l’art. 40 del d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198 nel fissare un principio applicabile sia nei casi di procedimento speciale antidiscriminatorio che di azione ordinaria, promossi dal lavoratore ovvero dal consigliere di parità, non stabilisce un’inversione dell’onere probatorio, ma solo un’attenuazione del regime probatorio ordinario, prevedendo a carico del soggetto convenuto, in linea con quanto disposto dall’art.19 della Direttiva CE n. 2006/54, l’onere di fornire la prova dell’inesistenza della discriminazione, ma ciò solo dopo che il ricorrente abbia fornito al giudice elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, relativi ai comportamenti discriminatori lamentati, purché idonei a fondare, in termini precisi (ossia determinati nella loro realtà storica) e concordanti (ossia fondati su una pluralità di fatti noti convergenti nella dimostrazione del fatto ignoto), anche se non gravi, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori (cfr Cass. Civ. sez. lav. 14206/2013).
Ciò premesso si osserva che nella fattispecie de qua, gli elementi addotti dalla lavoratrice non siano sufficienti a far ritenere integrato il requisito probatorio, sia pur nella accezione attenuata sopra delineata .
Invero dall’istruttoria compiuta nel presente procedimento di opposizione, non è emerso, rispetto ai dati già valutati in sede sommaria, alcun ulteriore elemento di rilievo in grado di fondare la pretesa, confermandosi così l’insussistenza di elementi da cui potersi desumere l’esistenza della dedotta discriminazione.
L’esistenza di pressioni volte a ostacolare il rientro a lavoro dopo la maternità non può dirsi accertata. La circostanza infatti emerge esclusivamente dalle dichiarazioni rese dal teste G, compagno della ricorrente e quindi emotivamente partecipe della vicenda, il quale riferisce di un colloquio intervenuto tra la ricorrente e la sig.ra P a gennaio 2010, colloquio nel quale la D. P sarebbe stata invitata a non riprendere il lavoro atteso che “tornando a lavorare avrebbe creato problemi alle colleghe” . Peraltro anche qualora potesse ritenersi provata l’esistenza del colloquio (smentita dalle testi G e P, ritenute più attendibili in quanto estranee alla vicenda) lo stesso non sarebbe sufficiente a dimostrare la dedotta discriminazione, non essendo stato seguito, nei fatti, da comportamenti concreti volti a negare, limitare o comunque rendere di più difficile l’esercizio dei diritti della neo madre.
Al contrario, la teste G ha riferito che al ritorno dalla maternità alla D P fu immediatamente garantito l’orario ridotto previsto per legge di tre ore e 33 giornaliere con l’accordo che “la presenza lavorativa sarebbe stata effettuata in orari diversi a seconda dei giorni per contemperare l’esigenze della sig.ra D P con quella del negozio. I turni venivano predisposti ogni 15 giorni proprio per consentire alla ricorrente di organizzarsi al meglio nella gestione dei bambini” (circostanza non smentita né contestata dalla ricorrente).
Indimostrata appare l’allegata circostanza secondo la quale la D P avrebbe invano richiesto di poter accedere al part-time successivamente alla maternità. Al contrario l’allegazione è smentita dalle dichiarazioni della teste G che afferma di avere inutilmente proposto alla ricorrente di svolgere l’attività lavorativa con orario part-time in almeno due occasioni tra maggio e giugno 2010, ritenendo in tal modo di meglio organizzare il negozio “da un lato mi rendevo conto che l’orario full-time di fatto era difficilmente compatibile con l’esigenze familiare della ricorrente e dall’altro mi dispiaceva licenziare la sig.ra F che avevamo assunto per sostituire la ricorrente quando era in maternità”.
Indimostrata appare la circostanza che alla ricorrente fu imposto di godere delle ferie per ritardare il suo rientro al lavoro.
Resta, dunque, l’episodio verificatosi il 14.06.2010 che, per come riferito dai testi escussi, appare più che altro un violento e deprecabile diverbio tra colleghi sorto in occasione di sopravvenute esigenze di sostituzione .( cfr dichiarazioni rese dall’informatore G nella fase sommaria) .
La natura di mero alterco del contrasto di cui si discute appare confermata dalle reazioni della ricorrente , che non ne fu particolarmente turbata, atteso che sua sorella, chiesta di riferire se E si fosse mostrata preoccupata circa il suo futuro lavorativo, chiarisce “non ho avuto modo di parlare con mia sorella di suoi eventuali timori a ritornare in azienda dopo l’episodio. Non so dire quindi se lei ne avesse” (cfr teste M D P).
Ruolo svolto dalla P (punto 1 del decreto)
L’assenza di prova della discriminazione rende del tutto irrilevante l’indagine circa il ruolo svolto dalla sig.ra P all’interno della organizzazione aziendale. Ad abundantiam si osserva che, anche sul punto, sono rimaste indimostrate le allegazioni contenute in ricorso, per le ragioni espresse dal giudice nel provvedimento che ha chiuso la fase sommaria, motivazioni che in questa sede si intendono integralmente riportate.
Tanto basta a motivare l’integrale rigetto del ricorso.
Le spese seguono la soccombenza, non rinvenendosi nella fattispecie, all’esame del giudice, i gravi motivi previsti dalla legge per la compensazione. Le stesse sono liquidate come da dispositivo ex D.M. 55/14 con la massima riduzione effettuata in ragione delle particolari condizioni soggettive delle parti ricorrenti.
PMQ
Rigetta il ricorso e condanna le ricorrenti in solido tra di loro al pagamento delle spese di lite sostenute dalle convenute e liquidate in complessivi euro 4050,00 oltre contributo spese, iva e cap per ciascuna di esse.
Sentenza resa ex articolo 429 c.p.c., pubblicata mediante lettura in udienza ed allegazione al verbale.
Il Giudice
dott. Anita Maria Brigida Davia