Rifiuto di togliersi il velo e mancata assunzione come hostess in una fiera commerciale, comportamento che non integra discriminazione. Tribunale di Lodi, ordinanza 3 luglio 2014.
TRIBUNALE DI LODI
Sezione Lavoro
Il Giudice del Lavoro
Nel procedimento iscritto al n.298\2013 promosso da
M.S.
-ricorrente –
contro
E E SRL
– resistente –
Sciogliendo la riserva assunta all’udienza del 11 marzo 2014
OSSERVA
Con ricorso ex artt. 44 d.lgs. n. 286/98, e 702 bis c.p.c., depositato il 12 aprile 2013 la ricorrente in epigrafe indicata, cittadina italiana, figlia di genitori egiziani, studentessa di scienza dei beni culturali , di religione musulmana, ha esposto:
-di avere presentato la propria candidatura in risposta ad una proposta di lavoro della società resistente(il cui oggetto sociale è la collaborazione e consulenza per qualsiasi evento,fiere,meeting,convention ,cene aziendali)che ricercava personale per mansioni di volantinaggio da svolgersi in occasione della Fiera MICAM(fiera della calzatura)a Rho Fiera per due giorni(3 e 4 marzo 2013);
– di avere inviato curriculum e fotografia;
– di essere stata contattata tramite posta elettronica con mail del seguente contenuto:” ciao Sara,mi piacerebbe farti lavorare perché sei molto carina, ma sei disponibile a toglierti lo chador?”
– di avere immediatamente risposto con il seguente messaggio i “ciao Jessica porto il velo per motivi religiosi e non sono disposta a toglierlo. Eventualmente potrei abbinarlo alla divisa.”
- di avere ricevuto,in risposta, il seguente messaggio “ciao Sara immaginavo, purtroppo i clienti non saranno mai così flessibili. Grazie comunque”.
La ricorrente ,invocando l’applicazione dell’art.43 TU immigrazione ed il dlgs 216\2003,oltre ai principi costituzionali ,all’art.14 Cedu e all’art.21 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE,assume di essere stata discriminata per motivi religiosi e comunque di genere.
Ella ha dunque concluso chiedendo che venisse accertato il carattere discriminatorio del comportamento della convenuta consistito nel non aver ammesso al lavoro la ricorrente nei giorni 3 e 4 marzo 2013 a causa della sua decisione di non togliere il velo; che venisse ordinato alla società di immediatamente cessare il comportamento denunciato offrendo altresì alla ricorrente entro il termine di tre mesi dalla pronuncia analoga opportunità di lavoro consentendole di prestare servizio senza togliere il hijab, condannasse venuta al risarcimento del danno non patrimoniale da liquidarsi in euro 1000, ordinasse altresì la pubblicazione del provvedimento.
La società convenuta si costituiva chiedendo il rigetto del ricorso.Dopo avere chiarito che l’oggetto dell’attività svolta dalla società è quello di fornire “il servizio hostess” in occasione di sfilate ,fiere , manifestazioni sportive ,mettendo a disposizione personale avente determinate caratteristiche di sesso,estetiche e di professionalità ,Evolutions Events srl ha precisato di avere svolto la selezione preliminare delle candidate da sottoporre al cliente sulla base di caratteristiche fisiche ed estetiche prederminate dal cliente stesso (altezza di almeno m. 1,65,numero di scarpa 37,taglia 40\42,capelli lunghi e vaporosi,disponibilità ad indossare la divisa fornita dall’azienda con minigonna ,conoscenza della lingua inglese parlata);di avere escluso la ricorrente proprio perché il velo avrebbe coperto i capelli e comunque non sarebbe stato compatibile con la divisa.
I fatti esposti dalle parti ed il contenuto dei messaggi di posta elettronica non sono contestati.
E’ dunque acclarato che la ricorrente non è stata ammessa alla selezione proprio perché ha riferito di non essere disponibile a scoprire i capelli,togliendo il velo e che la stessa ha giustificato il rifiuto adducendo l’appartenenza religiosa.
In diritto appare necessario richiamare la norma che l’art.2 Dlgs 216\2013,che così definisce la discriminazione : “ Nozione di discriminazione.
- Ai fini del presente decreto e salvo quanto disposto dall’articolo 3, commi da 3 a 6, per principio di parita’ di trattamento si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali,degli handicap, dell’eta’ o dell’orientamento sessuale. Tale principio comporta che non sia praticata alcuna discriminazione diretta o indiretta, cosi’ come di seguito definite: a) discriminazione diretta quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per eta’ o per orientamento sessuale, una persona e’ trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga;
- b) discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare eta’ o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone.
- E’ fatto salvo il disposto dell’articolo 43, commi 1 e 2 del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, approvato con decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286.
- Sono, altresi’, considerate come discriminazioni, ai sensi del comma 1, anche le molestie ovvero quei comportamenti indesiderati,posti in essere per uno dei motivi di cui all’articolo 1, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignita’ di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo.
- L’ordine di discriminare persone a causa della religione, delle convinzioni personali, dell’handicap, dell’eta’ o dell’orientamento sessuale e’ considerata una discriminazione ai sensi del comma 1.”
E’ anche opportuno richiamare l’art.4 Direttiva 2000\78:
- Fatto salvo l’articolo 2, paragrafi 1 e 2, gli Stati membri possono stabilire che una differenza di trattamento basata su una caratteristica correlata a uno qualunque dei motivi di cui all’articolo 1 non costituisca discriminazione laddove, per la natura di un’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, tale caratteristica costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, purché la finalità sia legittima e il requisito proporzionato.
Deve escludersi che la società abbia voluto escludere la ricorrente in quanto musulmana,ponendo in essere una discriminazione diretta ai sensi dell’art.2 Dlgs 216\2003:l’assenza di discriminazione diretta,di per sé insufficiente per escludere la fondatezza del ricorso, consente tuttavia di escludere che vi sia stata da parte della società la volontà di discriminare la ricorrente in quanto appartenente all’Islam (neppure la ricorrente ipotizza che proprio la fede religiosa sia stata il motivo dell’esclusione).
Resta ora da giudicare se l’uso del hijab abbia connotazione religiosa e ,in caso positivo,se nel caso in esame la esclusione della ricorrente dalla selezione proprio in ragione del copricapo,possa dirsi indirettamente discriminatoria per averla messa in una situazione ingiustificata di svantaggio .
Quanto alla connotazione religiosa del velo ,parte ricorrente ha assolto(si veda l’ampia ricostruzione di cui al punto 3B delle note autorizzate depositate in data 10 febbraio 2014) all’onere di allegazione e prova,richiamando il testo sacro del Corano ed illustrando il senso religioso del jiab ,che le donne credenti sono invitate ad indossare per farsi riconoscere come appartenenti alla comunità islamica e per coprirsi ,per evitare atti sconvenienti.Può dunque affermarsi che il jiab abbia una connotazione religiosa ed appartenga alla pratica consigliata dal Corano.
Ritiene tuttavia il giudice che la condotta della società non possa definirsi neppure indirettamente discriminatoria in quanto l’esclusione della ricorrente dalla selezione non può dirsi ingiustificata ma trova ragione nella legittima richiesta del selezionatore di presentare al cliente candidate aventi caratteristiche di immagine non compatibili con la richiesta di indossare durante la prestazione lavorativa un copricapo,qualunque esso fosse.
E’ pacifico che la selezione fosse finalizzata ad avviare al lavoro giovani donne per mansioni di distribuzione di volantini nell’ambito di un evento fieristico nel settore calzaturiero a diretto contatto con il pubblico;i requisiti richiesti per la candidatura (altezza minima,taglia di indumenti,numero di piede,disponibilità ad indossare una divisa con minigonna) evidenziano la centralità ed essenzialità dell’immagine della candidata rispetto alla sua professionalità.Il contesto nel quale si sarebbe svolta la prestazione(una fiera nel settore della moda) è senz’altro compatibile con la richiesta di una figura di donna piacevole ed attraente.La indicazione puntuale di altezza minima,di taglia,di numero di piede ,di disponibilità ad indossare la divisa con minigonna indicano che la società non stava ricercando solo una figura gradevole ma un certo “tipo” di persona,con determinate caratteristiche fisiche ,disponibile anche a presentarsi e vestirsi (con divisa e minigonna) secondo dettami imposti dal datore di lavoro.La richiesta di mostrare i capelli e il divieto di coprirli con un velo ,seppure intonato con la divisa,rientra nelle esigenze preventivamente esplicitate dal datore di lavoro e nell’oggetto della prestazione di lavoro che non si esaurisce nel distribuire volantini ma nel farlo prestando la propria immagine con le caratteristiche volute dal datore di lavoro(a capo scoperto,con una divisa, ma si potrebbe aggiungere con o senza trucco ,portando un certo colore di capelli….). Il problema dunque non è la essenzialità -o non- di stare a capo scoperto a distribuire volantini ma la essenzialità che l’immagine della lavoratrice durante l’esecuzione della prestazione sia conforme alla richiesta del datore di lavoro.
In altre parole il datore di lavoro non chiede in cambio della retribuzione solo lo svolgimento di un servizio ma la disponibilità della lavoratrice ad assecondare le richieste sul come presentare la propria immagine,in una attività di promozione e vendita di beni .
E’ del tutto verosimile che se si fosse presentata una donna,che per motivi non religiosi ma culturali ,etnici o più semplicemente di gusto o di salute( si pensi per esempio ad una calvizie o alla perdita dei capelli conseguente a cure chemioterapiche) ,si fosse rifiutata o non avesse potuto lavorare a capo scoperto sarebbe stata scartata al pari della ricorrente perché la sua immagine non corrisponde al canone estetico prescelto.
L’assenza di intento discriminatorio per motivi religiosi,emerge,a contrario,proprio dal fatto che l’interlocutrice della ricorrente,manifestandole l’intenzione di farla lavorare perché “carina” le ha chiesto se fosse disponibile a togliersi il velo mostrando i capelli:l’elemento ostativo per la società non è dato dalla la religione della ricorrente,né dal velo ma solo ed esclusivamente dal fatto che la chioma fosse coperta. L’elemento ostativo non è dato dal velo in sé ma dalla immagine di donna che ,agli altri elementi di fascino e seduzione,non voglia aggiungere anche la capigliatura.
Non è questa ,evidentemente ,la sede per giudicare del valore culturale e sociale del modello di figura femminile che viene richiesto e proposto in simili contesti lavorativi,ma deve escludersi che nel caso si sia in presenza di una discriminazione indiretta per motivi religiosi.
Del pari infondata la questione relativa alla discriminazione di genere,poiché non se ne comprende la portata; il capo e la chioma possono essere elementi di seduzione e fascino anche del sesso maschile e potrebbero essere legittimamente richiesti,in un contesto analogo a quello del quale si discute ,anche agli uomini.
Per i motivi esposti il ricorso deve essere rigettato.
La novità delle questioni trattate consente la integrale compensazione fra le parti delle spese di lite.
PQM
Rigetta il ricorso.
Compensa fra le parti le spese di lite.
Lodi, 3 luglio 2014