Divieto di indossare burqa e niqab in uffici pubblici, Discriminazione per motivi religiosi, Tribunale di Milano, sentenza del 20 aprile 2017
TRIBUNALE ORDINARIO di MILANO
PRIMA CIVILE
Nella causa civile iscritta al n. r.g. …./2016 promossa da:
ASGI – Associazioni degli Studi Giuridici sull’Immigrazione, APN, Avvocati per Niente ONLUS, Fondazione Guido Piccini per i Diritti dell’Uomo Onlus e NAGA – Associazione Volontaria di Assistenza Socio sanitaria e per i Diritti di Cittadini stranieri, Rom e Sinti, con il patrocinio dell’avv. Livio Neri e dell’avv. Alberto Guariso, elettivamente domiciliati in Milano, Viale Regina Margherita n. 30
Ricorrenti
contro
REGIONE LOMBARDIA, in persona del Presidente della Giunta Regionale pro-tempore, elettivamente domiciliata in Milano, Piazza Città di Lombardia 1 presso gli Uffici dell’Avvocatura Regionale e rappresentata e difesa dall’avv. Maria Lucia Tamborino
Resistente
OGGETTO: Discriminazione
Fatto e Diritto
Con ricorso ex art. 44 D.Lgs. 286/1998 l’ASGI – Associazione degli Studi Giuridici sull’Immigrazione -, l’APN – Avvocati per Niente Onlus -, la Fondazione Guido Piccini per i Diritti dell’Uomo Onlus e il NAGA – Associazione Volontaria di Assistenza Socio-sanitaria e per i diritti dei cittadini stranieri, rom e sinti (di seguito, solo ASGI, APN, Fondazione Guidi Piccini e NAGA), hanno convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di Milano la Regione Lombardia deducendo: che il 10.12.2015 la Giunta regionale Lombarda aveva approvato la delibera n. X/4553, avente ad oggetto il “rafforzamento delle misure di accesso e permanenza nelle sedi della giunta regionale e degli enti società facenti parte del sistema regionale”; che nella predetta delibera – ricordati, in premessa, i gravi episodi di terrorismo e l’esigenza conseguente di rafforzare le misure di sicurezza – si evidenziava come le tradizioni ed i costumi religiosi non potessero rappresentare giustificati motivi di eccezione, ai sensi dell’art. 5 della l. 152/1975, e si disponeva l’”adozione di misure idonee al rafforzamento del sistema di controllo, identificazione e sicurezza”, vietando “l’uso di caschi protettivi o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona” presso gli enti individuati dall’art. 1 della l.r. 30/2006 (tra i quali erano compresi, a titolo di esempio, anche le Aziende Ospedaliere, le ASST ed enti pubblici quali l’Aler); che la delibera aveva demandato alle competenti strutture regionali l’adozione degli atti dirigenziali necessari a dare attuazione a quanto previsto; che, nel gennaio del 2016, all’ingresso di numerosi uffici pubblici ed ospedali della regione Lombardia erano stati affissi cartelli riportanti la scritta “per ragioni di sicurezza è vietato l’ingresso con volto coperto”, accompagnati da tre immagini con persone con casco, passamontagna e burqa, ciascuno barrato da una crocetta.
Premessi tali elementi di fatto, le associazioni ricorrenti hanno evidenziato: che la regione Lombardia aveva posto a fondamento della direttiva in esame soltanto le esigenze di sicurezza pubblica, riservate alla competenza esclusiva dello Stato, e che, pertanto, sulla materia in esame la regione non aveva alcuna competenza; che non vi era alcuna connessione tra quanto statuito dalla regione e l’art. 85 del R.D. 773/1931, atteso che nella disposizione in esame vi era un esclusivo riferimento al divieto di comparire “mascherato” in luogo pubblico; che l’art. 5 della l. 152/1975 vietava l’uso di mezzi atti a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, prevedendo espressamente la clausola generale dell’esistenza di un giustificato motivo; che la delibera regionale, contrariamente rispetto a quanto previsto dal legislatore del 1975, aveva escluso che le tradizioni ed i costumi religiosi potessero costituire giustificati motivi; che il provvedimento adottato dalla regione Lombardia non era rispettoso del principio di proporzionalità; che, sebbene non espressamente evocato, la delibera era principalmente rivolta a vietare l’uso di copricapi dettati da motivi religiosi, come il burqa ed il niqab, simboli che rientravano nell’ambito delle manifestazioni del credo religioso; che la misura adottata non rispettava i limiti di cui all’art. 9 della Cedu; che la delibera oggetto di ricorso realizzava anche una discriminazione diretta per ragioni etniche, atteso che la religione era una parte integrante dell’etnia e che il burqa ed il niqab erano diffusi prevalentemente in aree geografiche ove vivevano popolazioni appartenenti ad etnie diverse da quelle europee.
Hanno quindi concluso chiedendo: accertare e dichiarare il carattere discriminatorio del comportamento tenuto dalle Regione Lombardia; ordinare alla regione di revocare la delibera e di impartire disposizioni agli enti regionali che avevano affisso i cartelli, affinchè ne disponessero la rimozione; ordinare la pubblicazione integrale dell’emanando provvedimento; disporre un piano di rimozione della discriminazione; condannare la Regione Lombardia al pagamento delle spese e compensi del procedimento, da distrarsi in favore dei difensori antistatari.
Ritualmente citata, la Regione Lombardia si è costituita eccependo, preliminarmente, il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, in favore del giudice amministrativo. Nel merito ha dedotto: che, nella delibera, l’ente locale non aveva posto in essere restrizioni ulteriori rispetto a quelle previste dalla legislazione nazionale e che, invece, erano stati esplicitati e resi operativi i divieti – già imposti a livello nazionale – nelle singole strutture di interesse; che, per rafforzare le misure di sicurezza e per garantire l’incolumità dei cittadini, era stato previsto che, in determinati luoghi, era necessario sottoporsi all’identificazione e non presentarsi a volto coperto; che l’art.9 della Cedu, richiamato dai ricorrenti, prevedeva restrizioni della libertà religiosa in ragione della necessità di garantire la sicurezza pubblica; che non vi era alcuna discriminazione per motivi religiosi, atteso che tutte le persone che accedevano agli uffici ed alle strutture indicate nella delibera dovevano essere identificate; che nessun atto applicativo delle strutture regionali aveva previsto l’adozione dei cartelli contestati.
All’udienza del 18.10.2016 le parti hanno discusso e chiesto termine per note.
Parte ricorrente ha depositato note difensive e, all’udienza del 28.3.2017 – in seguito all’assegnazione della causa all’odierna decidente – le parti hanno discusso la causa e il giudice ha riservato la decisione.
1.Preliminarmente, si impone una pronuncia di rigetto dell’eccezione di carenza di giurisdizione del giudice ordinario adito.
Come da tempo chiarito dalla Suprema Corte, infatti, l’indagine sulla sussistenza di un “trattamento favorevole connesso al fattore vietato” rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, anche quando – come nel caso di specie – sia posta in essere mediante l’adozione di atti amministrativi (cfr. Cass. SS.UU. 7186/2011).
- Del pari infondata deve ritenersi l’eccezione relativa al difetto di legittimazione attiva delle associazioni ricorrenti.
L’ultimo comma dell’art. 5 d.lgs. 215/03, stabilisce che “Le associazioni e gli enti inseriti nell’elenco di cui al comma 1 sono, altresì, legittimati ad agire ai sensi degli articoli 4 e 4- bis nei casi di discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione” con ciò prevedendo una legittimazione straordinaria delle associazioni qualora il comportamento discriminatorio sia collettivo e non siano individuabili in via immediata e diretta le vittime della discriminazione.
Nel caso in esame, come risulta dall’elenco prodotto da parte attrice (doc. 7 e 8), le associazioni ricorrenti sono inserite nell’elenco di cui all’art. 5 del d.lgs. 215/2003 e, non essendo individuabili i soggetti destinatari del divieto contenuto nella delibera e nei cartelli per cui è causa, deve ritenersi sussistente la loro legittimazione attiva.
- Il ricorso è infondato e deve essere rigettato per i motivi che seguono.
In via generale, non pare inutile ricordare che la nozione di discriminazione si ricava dalle disposizioni contenute negli art. 43 del D.Lgs. 286/1998 e 2 del D.Lgs. 215/2003. La prima disposizione introduce, in attuazione dei precetti costituzionali, una sorta di clausola generale di non discriminazione e definisce discriminatorio qualunque comportamento che – direttamente od indirettamente – abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica. L’art. 2 del D.Lgs. 215/2003 definisce, poi, la nozione di discriminazione, stabilendo che “ai fini del presente decreto, per principio di parità di trattamento si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della razza o dell’origine etnica” (facendo salva, al secondo comma, la più ampia nozione di discriminazione per nazionalità, prevista dal citato D.Lgs. 286/1998).
La definizione di discriminazione (artt. 43 del D.Lgs. 286/1998 e art. 2 del D.Lgs. 215/2003) – nella parte in cui si definisce discriminatorio quel comportamento che, direttamente o indirettamente, abbia l’effetto (solo l’effetto e quindi non anche lo scopo) di vulnerare (distruggendolo o compromettendolo) il godimento, in condizioni di parità, dei diritti umani – porta a ritenere che l’imputazione della responsabilità non possa essere ancorata soltanto al tradizionale criterio della colpa (in questo senso è orientata la giurisprudenza comunitaria e, in particolare, la sentenza della Corte di Giustizia 8.11.1990, Dekker c. StichtingVormingscentrumvoor Jong Volwas-senen Plus, causa C-177/88, in Racc., 1990, p. 3941 e la giurisprudenza nazionale in tema di comportamento antisindacale: Cass. Civ. sez. lav. 26.2.2004 n. 3917 ex aliis). Secondo la disposizione legislativa, infatti, costituisce condotta discriminatoria anche quella che, pur senza essere animata da uno “scopo” di discriminazione, produca comunque un “effetto” di ingiustificata pretermissione per motivi razziali, etnici ecc.
In particolare, per quel che rileva nel presente procedimento, l’art. 43 del D.Lgs. 286/1998 dispone che: “ai fini del presente capo, costituisce discriminazione ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica”.
Quanto alla prova della discriminazione, l’art. 28 del D.Lgs. 150/2001– che, per disposizione dell’art. 8 sexies del d.l. n. 59/2008 contenente disposizioni urgenti per l’attuazione degli obblighi comunitari, ha introdotto un’agevolazione probatoria più significativa di quella originariamente contenuta nel comma 9 dell’art. 44 del D.Lgs. 286/1998, che consentiva solo la possibilità per l’istante di offrire elementi presuntivi anche di natura statistica – prevede un’evidente “alleggerimento” (così, Cass. Sez. lav. 5.6.2013 n. 14206) del relativo onere.
Chi chiede tutela deve offrire elementi idonei a far dedurre l’esistenza della condotta vietata dalla norma, mentre la parte convenuta ha l’onere di dimostrare non soltanto il fatto posto a base dell’eventuale eccezione, ma, in positivo, tutte le circostanze idonee a giustificare il trattamento differenziato o ad escludere l’esistenza stessa di una differenziazione di trattamento (in tal senso Tribunale di Roma, Sez. III lavoro, ord. 21.6.2012).
Orbene, nel caso in esame le associazioni ricorrenti deducono la sussistenza di una discriminazione diretta nella delibera della regione Lombardia n. X/4553, approvata il 10.12.2015, e nei cartelli apposti, dal gennaio 2016, in numerosi uffici ed ospedali presenti nella regione.
Con riferimento alla delibera, si osserva quanto segue.
L’atto amministrativo in esame si fonda sulle seguenti premesse: “i gravi episodi di terrorismo verificatosi lo scorso 13 novembre a Parigi, che hanno acutizzato lo stato di tensione con il quale i Paesi Occidentali già convivono da numerosi anni, hanno inevitabilmente indotto gli stessi Paesi a rafforzare ulteriormente le misure di sicurezza, per quanto riguarda, in particolare, i presidi strategici, al fine di garantire il più possibile l’incolumità dei cittadini”; l’esigenza di rafforzare gli standard di sicurezza nelle strutture pubbliche regionali “è stata raccolta da un’interrogazione consiliare che ha posto l’accento sulla necessitò di assicurare massima efficacia ai controlli, prevedendo….l’attuazione di misure idonee a precludere la possibilità, per chi accede e permane all’interno degli edifici in questione, di occultare…i propri connotati fisici e di celare la propria identità” (interrogazione avente ad oggetto il “divieto di burqa e niqab negli edifici”).
Nella delibera in esame si legge, inoltre, che “le tradizioni o i costumi religiosi….non possono rappresentare giustificati motivi di eccezione ai sensi dell’art. 5 della legge 152/1975 rispetto alle esigenze di sicurezza all’Interno delle strutture regionali”.
Sulla base delle dette esigenze, la Giunta “in attuazione dell’art 85 del R.D. 773/1931 e dell’art. 5 della l. 152/1975 e del regolamento regionale 8 agosto 2002 n. 6” ha disposto “l’adozione di misure idonee al rafforzamento del sistema di controllo, di identificazione e di sicurezza” che vieta “l’uso di caschi protettivi o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona” presso gli enti individuati dall’art. 1 della l. r. 30/2006.
Occorre pertanto valutare se, dalla disposizione che vieta l’uso di mezzi atti a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona – e dunque se in un divieto che riguarda tutti coloro che entrano in un determinato luogo pubblico occultando i propri connotati fisici o rendendo più difficoltoso il proprio riconoscimento -, emerga un trattamento meno favorevole di un gruppo sociale qualificato per l’appartenenza ad un determinato credo religioso.
E’ necessario premettere che l’art. 9 della Cedu e l’art. 10 della Carta dei diritti fondamentali attribuiscono alla nozione di “religione” un’estensione molto ampia, che comprende sia il forum internum – ossia la libertà interiore di religione, alla quale è accordata una tutela espressa in modo assoluto, in quanto pietra angolare del pluralismo religioso e culturale (cfr. CEDU, Kokkinakis v. Greece, sent. 25 maggio 1993; CEDU, Buscarini and Others v. San Marino, ric. n. 24645/94; CEDU, G.C., Leyla Sahin c. Turchia , sent. 10 novembre 2005 ric. n. 44774/98) – , sia il forum externum, ossia la manifestazione pubblica della fede religiosa, al quale la Convenzione garantisce una tutela relativa (cfr. CEDU, Drogu v. Francia ric. n. 27058/05 del 2008; Kervanci v. Francia, ric n. 31645/04 del 2008. Sulla nozione di religione, cfr. anche Corte Giust. UE, Grande Sezione, sentenza 14 marzo 2017, causa C-157/15).
Deve pertanto ritenersi che – a prescindere dall’interpretazione del dettato del Corano in merito all’obbligatorietà o meno del velo – la scelta di indossare il velo, nelle diverse forme dello stesso, rientri nell’ambito della manifestazione del credo religioso e costituisca, altresì un comportamento che attiene alla vita privata della persona e quindi meritevole di tutela ex articolo 8 della Cedu (cfr. Corte Europea dei diritti dell’Uomo S.A.S vs France, 1.7.2014).
Tanto premesso, occorre esaminare funditus il contenuto della delibera in esame.
In primo luogo, con riferimento alle censure relative alla violazione dell’art. 117, comma 2 della Cost., basti osservare come la Giunta della regione Lombardia – in attuazione delle disposizioni legislative statali contenute nella l. 152 del 1975 – ha previsto esclusivamente l’adozione di misure idonee a rafforzare il sistema di controllo, identificazione e sicurezza in determinati luoghi pubblici. L’art. 5 della l. 153/1975, infatti, espressamente richiamato nella delibera impugnata, vieta l’”uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico senza giustificato motivo”.
Si rileva, invece, come sia del tutto inconferente il riferimento al divieto di comparire mascherato in luogo pubblico, di cui all’art. 85 del R.D. n. 773/1931, in quanto è evidente che il burqa non costituisce una maschera, ma un tradizionale capo di abbigliamento femminile di alcune popolazioni, utilizzato come manifestazione del proprio credo religioso (cfr. Consiglio di Stato 3076/2008).
Con la delibera per cui è causa, la giunta regionale ha disposto il divieto di accesso per tutti coloro che indossino caschi protettivi o altri mezzi atti a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona. Si deve pertanto ritenere che detta disposizione tratti, in modo identico, tutti coloro che accedono a determinati uffici pubblici, imponendo loro, in modo generale ed indiscriminato, allo scopo di tutelare esigenze di pubblica sicurezza, di accedere ai detti luoghi con il capo scoperto.
Occorre poi verificare se il predetto obbligo, apparentemente neutro, comporti, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione. E, una volta verificato tale elemento, occorre poi verificare se tale svantaggio sia oggettivamente giustificato da una finalità legittima e se i mezzi impiegati siano appropriati e necessari.
Ad avviso di questo giudice, il divieto di accesso presso uffici ed enti pubblici – quali, ad esempio, ASL ed ospedali – a viso coperto comporta, in fatto, uno svantaggio per le donne che, per ragioni di tradizione e per professare il proprio credo religioso, indossano il velo, prevalentemente nelle forme del burqa (velo che copre interamente il volto della donna, con una griglia all’altezza degli occhi) e del niqab (velo che copre tutto il volto, lasciando scoperti solo gli occhi).
Ciò posto, si osserva come il predetto svantaggio appaia oggettivamente giustificato da una finalità legittima, costituita dalla necessità di garantire l’identificazione ed il controllo al fine di pubblica sicurezza. Nella delibera impugnata, infatti, è stato previsto un divieto, specifico, di accesso e di permanenza, all’interno di enti e società del Sistema Regionale (espressamente individuati), che appare giustificato e ragionevole alla luce dell’esigenza di identificare coloro che accedono ai detti enti – identificazione che, in caso di donne che indossano il velo che copre interamente il volto, sarebbe del tutto preclusa. Si tratta, infatti, di luoghi pubblici – quali, a titolo di esempio, le Aziende lombarde per l’edilizia residenziale, l’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente, le Aziende ospedaliere, le Aziende sociosanitarie territoriali – nei quali, in ragione dell’elevato numero di persone che quotidianamente vi accedono per richiedere ed usufruire dei servizi prestati dai predetti enti pubblici (fatto notorio, valutato ex art. 115 c.p.c.), appare del tutto ragionevole e giustificato consentire la possibilità di identificare i predetti fruitori di servizi.
Le misure indicate dalla regione – peraltro in modo del tutto generico, con un rinvio per l’adozione degli atti dirigenziali necessari alle competenti strutture regionali – appaiono, altresì, appropriate e necessarie. Il divieto di indossare qualsiasi mezzo che renda difficoltoso il riconoscimento della persona – qualsiasi mezzo e, dunque, lo si ribadisce, non solo il velo, integrale o meno – interessa, esclusivamente, le persone che accedono e permangono all’interno di determinati luoghi pubblici e per il tempo strettamente necessario alla permanenza in detti luoghi.
Il capo di abbigliamento per cui è causa non è interpretato come segno di una qualche appartenenza confessionale, ma nella sua oggettività – come risulta dal fatto che, nella delibera, il divieto non riguarda il velo, ma “l’uso di caschi protettivi o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona” – in grado di impedire, come ogni altro indumento, l’identificazione delle persone e dunque di pregiudicare la sicurezza pubblica.
Deve pertanto ritenersi che quanto previsto dalla regione resistente sia strettamente necessario per il conseguimento delle finalità perseguite.
Con riferimento alle censure svolte da parte ricorrente – e, in particolare alla necessità di valutare la sussistenza dei limiti di cui all’art. 9 secondo comma della Cedu ed alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo – si osserva quanto segue.
L’art. 9, comma 2, della Cedu prevede che “la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e costituiscono misure necessarie, in una società democratica, per la pubblica sicurezza, la protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o per la protezione dei diritti e della libertà altrui”.
La «pubblica sicurezza», pertanto, è uno dei limiti che la Convenzione prevede per l’esercizio dei diritti enunciati negli articoli 8e 9.
Come evidenziato poco sopra, l’esigenza di garantire la pubblica sicurezza – come ragione che giustifica, per il tempo necessario e nei luoghi specificamente individuati, il divieto di presentarsi con indosso mezzi che rendono difficoltoso il riconoscimento, e dunque anche con il velo che copre interamente il volto, lasciando scoperti solo gli occhi – è prevista dal legislatore nazionale (nell’art. 5 della l. 152/1975) ed attuata, con disposizioni di dettaglio, dalla delibera in oggetto, nel rispetto della riserva di legge.
La delibera in esame, inoltre, non pone un divieto generalizzato di indossare capi di abbigliamento che coprono il volto, ma si limita a prevedere che in luoghi pubblici – specificamente individuati – e per il limitato tempo di permanenza in detti luoghi, vengano indossati capi che impediscano l’identificazione delle persone che ai detti luoghi hanno accesso.
Lo specifico divieto previsto nella delibera della giunta della regione Lombardia appare, pertanto, del tutto coerente con quanto affermato dalla Corte Edu (cfr. caso El Morsli v. Francia, ric. n. 15585/06 del 2008; caso Phull v. Francia del 2005, in cui la rimozione del turbante o del velo è stata ritenuta legittima per permettere i controlli di sicurezza nei consolati e negli aeroporti; nel caso Mann Singh v. Francia ric. 24479/07 del 2008, la rimozione del turbante rispondeva ad esigenze di sicurezza, per permettere l’identificazione fotografica sulla patente di guida). Più di recente, nella sentenza S.A.S. vs. France del 1° luglio 2014, i giudici di Strasburgo, nel decidere sulla legge francese dell’11 ottobre 2010 n. 1192 – ai sensi della quale «nessuno può indossare negli spazi pubblici capi di abbigliamento che nascondono il volto» – hanno affermato che un divieto generalizzato di indossare capi di abbigliamento che coprono il volto costituisce una misura sproporzionata rispetto al principio da tutelare. Nella medesima pronuncia hanno poi chiarito che la necessità di garantire la «pubblica sicurezza » può infatti consentire la compressione dei diritti garantiti dagli articoli 8 e 9 solo quando ci sia effettivamente un rischio per la incolumità dei cittadini, e dunque soltanto in quei luoghi dove è effettivamente necessario, ai fini della «pubblica sicurezza», verificare l’identità di coloro che li occupano.
Tanto premesso, deve osservarsi come, nel caso in esame, l’individuazione degli specifici luoghi pubblici (fondata sulla implicita distinzione delle tipologie di luogo pubblico) e la previsione di un divieto di accedere con mezzi che impediscano l’identificazione solo per il tempo legato alla permanenza nei detti spazi costituiscano elementi che consentono di ritenere che il divieto – e dunque il sacrificio dei diritti di cui agli artt. 8 e 9 della Cedu – , sia ragionevole e proporzionato rispetto al valore invocato dal legislatore – la pubblica sicurezza -, che risulta concretamente minacciata dall’impossibilità di identificare (senza attendere procedure di identificazione che richiedono la collaborazione di tutte le persone che entrano a volto scoperto) le numerose persone che fanno ingresso nei luoghi pubblici individuati.
Con riferimento ai cartelli – riportanti la scritta “per ragioni di sicurezza è vietato l’ingresso con volto coperto”, accompagnati da tre immagini con persone con casco, passamontagna e burqa, ciascuno barrato da una crocetta – si osserva quanto segue.
In primo luogo si osserva che, come risulta dalle fotografie depositate dalla difesa di parte ricorrente (cfr. doc. 14, 15 e 16), i cartelli in esame – sui quali compare la denominazione “Regione Lombardia” nonché il logo della stessa – sono senza dubbio riferibili alla delibera oggetto di causa e ne costituiscono attuazione.
Ciò posto, deve ritenersi che le medesime considerazioni svolte in riferimento alla delibera impugnata consentano di affermare che i cartelli affissi nelle strutture ospedaliere della regione Lombardia non determinano alcuna discriminazione diretta o indiretta.
Si tratta, infatti, della previsione di un divieto di ingresso in strutture sanitarie con il volto coperto e della raffigurazione di tre ipotesi di volto coperto (il velo, il passamontagna ed il casco protettivo). Le esigenze di pubblica sicurezza, poco sopra ricordate, sono anche nel caso in esame, ritenute necessarie e proporzionate a garantire il predetto valore.
In conclusione, si impone una pronuncia di rigetto del ricorso.
Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
Visti gli artt. 43 e 44 D.L.vo 286/98, nonché 2 e 4 D.L.vo 215/03:
- rigetta il ricorso;
- condanna l’ASGI – Associazione degli Studi Giuridici sull’Immigrazione -, l’APN Avvocati per Niente Onlus, la Fondazione Guido Piccini per i Diritti dell’Uomo Onlus e il NAGA – Associazione Volontaria di Assistenza Socio-sanitaria e per i diritti dei cittadini stranieri, rom e sinti, in solido, al pagamento delle spese di lite in favore della Regione Lombardia che liquida in complessivi euro 2.430,00, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge.