Discriminazione per nazionalità, Tribunale di Firenze ordinanza del 27 maggio 2017
TRIBUNALE ORDINARIO di FIRENZE
Sezione Lavoro
Nella causa civile iscritta al N.R.G. …../…. promossa da:
O M, con il patrocinio dell’avv. SURACE ALIDA e dell’avv. VENTURA SILVIA (VNTSLV83A44L424R) Indirizzo Telematico; , elettivamente domiciliato in Indirizzo Telematicopresso il difensore avv. SURACE ALIDA
L’ALTRO DIRITTO ONLUS CENTRO DI DOCUMENTAZIONE SU CARCERE DEVIANZA E MARGINALITA’ (C.F. 94093950486), con il patrocinio dell’avv. SURACE ALIDA e dell’avv. VENTURA SILVIA (VNTSLV83A44L424R) Indirizzo Telematico; , elettivamente domiciliato in Indirizzo Telematicopresso il difensore avv. SURACE ALIDA
attore
contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, con il patrocinio dell’avv. AVVOCATURA DELLO STATO e dell’avv. , elettivamente domiciliato in VIA DEGLI ARAZZIERI 4 50129 FIRENZEpresso il difensore avv. AVVOCATURA DELLO STATO
convenuto
Il Giudice Dott.ssa Stefania Carlucci,
a scioglimento della riserva assunta all’udienza del 02/05/2017,
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
La ricorrente, cittadina albanese in possesso di permesso di soggiorno di lungo periodo, unitamente all’associazione L’ALTRO DIRITTO ONLUS CENTRO DI DOCUMENTAZIONE SU CARCERE DEVIANZA E MARGINALITA’, con ricorso ex art. 700 c.p.c., in corso di causa instaurata ai sensi dell’art. 44 d.lvo n. 298/96, 28 d.lvo n. 150/2011 e 702 bis c.p.c., dedotta la natura discriminatoria dell’art. 3 del bando di concorso indetto con D.M. 18/11/2016 per 800 posti di assistente giudiziario nei ruoli del personale del Ministero della Giustizia, che impone il requisito della cittadinanza italiana per l’accesso alla selezione pubblica, chiedevano in via cautelare: 1) ordinare al Ministero di ammettere con riserva la ricorrente alle prove preselettive e/o selettive della procedura concorsuale pubblica; 2) ordinare al Ministero di ammettere con riserva alle prove preselettive e/o selettive della procedura concorsuale pubblica gli altri candidati privi della cittadinanza italiana, in quanto cittadini comunitari, cittadini stranieri in possesso dei requisiti previsti dall’art. 38 d.lvo n. 165/2001, titolari di carta blu, e familiari non comunitari di cittadini italiani, che avessero proposto la relativa domanda; 3) sospendere la procedura concorsuale sino alla conclusione del giudizio di merito, in modo da permettere a chi non avesse proposto domanda di essere rimesso nei termini e di partecipare al concorso.
Parti ricorrenti esponevano che la sig.ra M, in possesso di tutti i requisiti richiesti ad eccezione della cittadinanza, aveva presentato nei termini domanda di ammissione alla selezione pubblica e che l’associazione cit., iscritta al n. 365 del registro delle associazioni di cui all’art. 6 del d.lvo n. 215/2003, aveva invitato il Ministero a rimuove la clausola discriminatoria ed a prorogare la scadenza del termine, in modo da consentire ai soggetti privi di cittadinanza esclusi di presentare domanda.
Affermata la giurisdizione del Giudice Ordinario, la competenza funzionale del Giudice del Lavoro e la legittimazione processuale della associazione cit., quanto al fumus del diritto allegavano la natura discriminatoria diretta e/o indiretta, individuale e collettiva, in relazione al fattore protetto della nazionalità, della norma del bando che imponeva il requisito della cittadinanza italiana, vietata dal diritto dell’U.E e dal diritto interno, poiché in contrasto: 1) con gli artt. 10 e 14 della Convenzione OIL n. 143/75 che impegna gli stati membri a promuovere la parità di trattamento in materia di occupazione e li facoltizza a limitare l’accesso a categorie di occupazione e funzioni, se necessario nell’interesse dello Stato; 2) con il principio di non discriminazione quale principio generale del diritto dell’Unione, espresso nei Trattati e nel diritto derivato in relazione a fattori individuati, tra essi quello della nazionalità; 3) con l’art. 45 TFUE che vieta le discriminazioni tra i lavoratori degli stati membri per l’impiego, ad esclusione degli impieghi nella P.A.; 4) con la giurisprudenza restrittiva della CGUE in punto di esclusione in ragione della nazionalità dall’accesso nella P.A., al solo lavoro pubblico che implichi l’esercizio, non occasionale o limitato, di poteri pubblici finalizzati alla tutela dell’interesse nazionale, da individuarsi in concreto; 5) con la direttiva 2003/109/CE, recepita dal d.lvo n. 3/2007 che equipara i cittadini stranieri in possesso di permesso di soggiorno di lungo periodo CE ai cittadini nazionali; 6) con la direttiva 2009/50/CE che equipara i soggetti titolari di carta blu ai cittadini stranieri regolarmente soggiornanti; 7) con la direttiva 2004/38/CE, recepita dal d.lvo n. 30/2007 che prevede il diritto di esercitare lavoro subordinato e autonomo dei familiari non comunitari di cittadini comunitari e una tutela specifica in favore di familiari non comunitari di cittadini italiani; 8) con le norme interne di diritto antidiscriminatorio di cui all’art. 2 d.lvo n. 296/98, agli artt. 43 e 44 d.lvo n. 286/98 e all’art. 38 del d.lvo n. 165/2001 che prevede il diritto ad accedere ai posti di lavoro presso le P.A., che non implicano l’esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell’interesse nazionale, dei cittadini comunitari e dei loro familiari non comunitari titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente, dei cittadini di paesi terzi titolari del permesso di soggiorno UE, o titolari dello status di rifugiato, o dello stato di protezione sussidiaria, da ritenersi l’elencazione tassativa del D.P.C.M. n. 174/94, richiamato dall’art. 38 cit., contraria alla giurisprudenza restrittiva della CGUE.
In concreto parti ricorrenti allegavano che le mansioni affidate agli assistenti giudiziari non implicassero l’esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri in via non occasionale o limitata, né attenessero alla tutela dell’interesse nazionale in via prevalente ed essenziale.
Quanto al periculum in mora allegavano che alla ricorrente e agli altri soggetti potenzialmente esclusi, perché privi del requisito della cittadinanza, era precluso partecipare alle prove preselettive fissate per le date dall’8/05/2017 al 24/05/2017 e/o alle prove selettive successive, in quanto la mancata partecipazione a dette prove impediva la partecipazione alle prove d’esame.
Il Ministero della Giustizia in via pregiudiziale eccepiva il difetto di giurisdizione dell’A.G.O. a favore del Giudice Amministrativo, atteso che le impugnazioni dei bandi di concorso per l’assunzione dei dipendenti pubblici rientrano tra le materie riservate alla giurisdizione del Giudice Amministrativo per espressa previsione dell’art. 63 comma 4 D.lvo n. 165/2001, stante l’insussistenza di discriminatorietà della previsione del requisito della cittadinanza italiana contenuta nel bando. In via preliminare eccepiva: 1) il difetto di legittimazione processuale in capo alla associazione, richiamando l’art. 5 comma 3 d.lvo 215/2003, che non include il fattore della nazionalità e l’art. 44 d.lvo n. 286/98, che attribuisce la legittimazione processuale nella azione antidiscriminatoria alle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale; 2) la carenza di interesse alla pronuncia da parte della associazione con riferimento ai soggetti che, privi del requisito di cittadinanza, non hanno presentato domanda, in assenza di una loro iniziativa giudiziaria, mancando il presupposto dell’azione costituito da detta iniziativa giudiziaria; 3) la carenza di interesse alla pronuncia per la ricorrente, in assenza di provvedimento di esclusione dalle operazioni di preselezione e dalle prove, prevedendo il bando l’ammissione con riserva dei candidati alla prove concorsuali. Eccepiva l’inammissibilità di una pronuncia modificativa del bando in quanto anticipativa della decisione di merito e in difetto di giurisdizione.
L’amministrazione resistente contestava il fumus del diritto, in quanto il requisito della cittadinanza per l’accesso agli uffici pubblici, previsto nel bando, era coerente con i principi costituzionali di cui agli artt. 97 e 98 Cost., era richiesto dall’art. 51 Cost., ed era regolato dalla normativa nazionale, in particolare: dall’art. 70 comma 13 d.lvo n. 165/2001, che recepisce la disciplina di cui all’art. 2 del D.P.R. n. 3/1957 prescrittivo la cittadinanza quale requisito di ammissione all’impiego pubblico; dall’art. 2 D.P.R. n. 487/94 che ribadisce detta previsione; dall’art. 1 D.P.C.M. n. 174/1994 che individua le funzioni pubbliche per le quali non può prescindersi dal requisito della cittadinanza e, tra esse, i posti presso il Ministero della Giustizia, oltre, ai sensi dell’art. 2, alle funzioni svolte presso altre P.A. che comportano l’elaborazione, la decisione, l’esecuzione di provvedimenti autorizzativi e coercitivi; dall’art. 38 d.lvo n. 165/2001 che ha riconosciuto l’accesso agli impieghi pubblici ai cittadini comunitari quando non implichino esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, o attengano alla tutela dell’interesse nazionale. Detta normativa nazionale era da ritenersi conforme alla interpretazione restrittiva della giurisprudenza della Corte di Giustizia dei limiti della libertà di circolazione (CGUE 17/12/1980 causa 149/79). Pertanto la richiesta del requisito della cittadinanza per l’accesso ai ruoli del Ministero della Giustizia costituiva esercizio di potere statuale discrezionale esercitato nei confronti di cittadini extracomunitari e comunitari, non rientrando tra i diritti fondamentali garantiti l’assunzione alle dipendenze di un determinato datore di lavoro, né alle dipendenze della P.A.
In concreto allegava che le mansioni affidate agli assistenti giudiziari, collaborando in compiti di natura giudiziaria, tecnica o ammnistrativa e implicando competenze trettamente connesse all’esercizio delle funzioni amministrative e la partecipazione all’esercizio di potestà di natura pubblica, perseguivano la tutela dell’interesse pubblico che giustificava il requisito della cittadinanza.
Premesso che non era stato adottato dalla amministrazione alcun provvedimento di diniego o esclusione nei confronti della ricorrente, l’amministrazione convenuta contestava la sussistenza del periculum, potendo la ricorrente partecipare alla preselezione secondo il calendario stabilito, come previsto dall’art. 3 ultimo comma del bando.
1.Con riferimento all’eccepito difetto di giurisdizione per essere l’impugnazione del bando di concorso ricompresa tra le materie devolute alla cognizione della Giurisdizione Amministrativa, in considerazione della natura pubblicistica di detto atto, a fronte del quale sussistono solo posizioni di interesse legittimo, l’eccezione di parte convenuta è infondata.
Con la domanda cautelare le parti ricorrenti chiedono la rimozione, in via d’urgenza, della lamentata discriminazione, individuale e collettiva, per motivo di nazionalità, avendo il Ministero convenuto prescritto il requisito della cittadinanza per l’accesso alla selezione pubblica del concorso indetto con D.M. 18/11/2016 per 800 posti di assistente giudiziario nei ruoli del personale del Ministero della Giustizia.
In tema di tutela avverso atti o comportamenti discriminatori vietati sussiste la giurisdizione del giudice ordinario, essendo irrilevante che il comportamento discriminatorio dedotto consista nella emanazione di un atto amministrativo.
Secondo i principi, condivisibili, affermati da costante giurisprudenza di legittimità, il quadro normativo costituzionale (art. 3 Cost.), sovranazionale (Direttiva 2000/43/CE, 2000/78/CE, 2001/73/CE, 2006/54/CE) ed interno (art. 3 e 4 del d.lgs. 9 luglio 2003, n. 215 nonché l’art. 44 del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, a dette previsione devono aggiungersi inoltre l’art. 3 dlvo n. 216/2003, l’art. 3 L n. 67/2006, l’art. 55 quinquies d.lvo n. 198/2006, l’art. 28 d.lvo n. 150/2011) di riferimento, configura il diritto a non essere discriminati come un diritto soggettivo assoluto, la cui tutela è espressamente devoluta alla cognizione del giudice ordinario; in tali casi, il giudice deve valutare il provvedimento censurato, e, in caso di accertata discriminatorietà, disattenderlo, adottando i provvedimenti idonei a rimuoverne gli effetti (Cass. S.UU. ord. n. 3670/2011; conforme Cass. SS. UU. ord. n. 7186/2011, secondo la quale in tema di azione antidiscriminatoria si è in presenza di posizioni di “diritto soggettivo assoluto a presidio di un’area di libertà e potenzialità del soggetto, possibile vittima delle discriminazioni, rispetto a qualsiasi tipo di violazione posta in essere sia da privati che dalla P.A., senza che assuma rilievo, a tal fine, che la condotta lesiva sia stata attuata nell’ambito di procedimenti per il riconoscimento, da parte della P.A., di utilità rispetto a cui il privato fruisca di posizioni di interesse legittimo, restando assicurata una tutela secondo il modulo del diritto soggettivo e con attribuzione al giudice del potere, in relazione alla variabilità del tipo di condotta lesiva e della preesistenza in capo al soggetto di posizioni di diritto soggettivo o di interesse legittimo a determinate prestazioni, di “ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole e adottare ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione”.)
Le ulteriori eccezioni preliminari formulate dalla resistente nella discussione orale, segnatamente il difetto di legittimazione processuale della associazione attrice e il difetto di interesse alla pronuncia di entrambi le parti ricorrenti, trattandosi di eccezioni in senso lato, attinenti rispettivamente al contraddittorio e alle condizioni dell’azione quale requisito per la trattazione nel merito della domanda, la loro fondatezza va valutata anche d’ufficio dal giudice (ex multis Cass. sez. 3 sent. n. 21176/2015; Cass. sez. 3 n. 19268/2016).
2.Sostiene l’Amministrazione convenuta, che nessuna norma conferisca la legittimazione processuale alla Associazione ricorrente, non potendosi riconoscere in ragione dell’art. 5 comma 3 d.lvo n. 215/2003, che regolando l’azione discriminatoria collettiva in attuazione della direttiva 2000/43/CE relativa ai fattori della razza e dell’origine etnica, non include il fattore della nazionalità, né in forza dell’art. 44 d.lvo n. 286/98, che attribuisce la legittimazione processuale nella azione antidiscriminatoria solo alle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale. Il giudicante non condivide l’assunto.
La tutela antidiscriminatoria, sostanziale e processuale, è venuta ad esistere mediante un corpus normativo articolato, che richiede una interpretazione che riconosca la connessione tra norme sostanziali e le norme processuali, in particolare tra gli artt. 2 e 4 del d.lvo 215/2003 e gli artt. 43 e 44 d.lvo n. 286/98.
Si rileva che l’art. 3 comma 2 d.lvo n. 215/2003, attuativo della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persona indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, esclude dall’ambito di applicazione le differenze di trattamento basate sulla nazionalità. Ciò tuttavia non vale ad espellere dall’azione antidiscriminatoria collettiva il fattore della nazionalità, limitandosi la previsione a precisare che detto fattore non è oggetto specifico del decreto legislativo attuativo della direttiva 2000/43/CE.
La nozione di discriminazione delineata dall’art. 2 d.lvo n. 215/2003 attiene ai fattori protetti della razza e della origine etnica, che si aggiungono ai fattori di discriminazione già vietati, ampliando e non restringendo la tutela. Detta previsione fa espressamente salve le disposizioni di cui all’art. 43 comma 1 e 2 d.lvo n. 286/98, che ricomprende tra i fattori di discriminazione vietati, anche la nazionalità (oltre a razza, colore, ascendenza nazionale, o origine etnica, convinzioni e pratiche religiose).
Rinviando all’art. 43 comma 1 e 2 d.lvo n. 286/98, l’art. 2 comma 2 cit. fa evidentemente riferimento alla nozione sostanziale di discriminazione ivi contenuta, relativa ad ogni discriminazione oggettivamente ivi prevista, diretta e indiretta, derivante da ogni tipo di atto e comportamento, di privato o della pubblica amministrazione, lesiva dell’interesse individuale o collettivo. Stante la proiezione necessariamente collettiva del fattore protetto dal divieto di discriminazione, l’art. 44 comma 10 cit., appresta, nel contesto lavorativo, la legittimazione ad agire in capo alle rappresentante locali della organizzazione sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale.
Pertanto l’art. 4 d.lvo n. 215/2003 laddove stabilisce che l’azione civile avverso le discriminazione di cui all’art. 2 venga regolata dall’art. 28 d.lvo n. 150/2011 (tendenzialmente è il rito omogeneo nella materia), non può che riferirsi alla definizione sostanziale di discriminazione individuale e collettiva fatta salva dall’art. 2 cit.
In proposito ampia trattazione è stata svolta da recente pronuncia di legittimità, le cui motivazioni si condividono, anche con riferimento ai dubbi di costituzionalità, che deriverebbero, ai sensi dell’art. 3 e 24 Cost., dal mancato riconoscimento della legittimazione processuale in capo ad un ente esponenziale in caso di discriminazione collettiva in ragione della nazionalità, “sia per le differenze di trattamento processuale che verrebbero introdotte tra fattori di protezione che godono di protezione da parte dell’ordinamento” , “sia in relazione al fatto che il medesimo fattore di protezione della nazionalità, rileverebbe diversamente, rispetto alla legittimazione ad agire, se la discriminazione fosse commessa o meno in ambiente lavorativo.” (Cass. sez. L sent. n. 11165/2017).
In applicazione del seguente principio di diritto enunciato in detta pronuncia, “Nelle discriminazioni collettive in ragione del fattore della nazionalità (d.lgs n. 215 del 2003 ex artt. 2 e 4, e art. 43 T.U. 286/1998) sussiste la legittimazione ad agire in capo alle associazioni ed agli enti previsti nel D.lgs. n. 215 del 2003, art. 5.”, deve riconoscersi la legittimazione ad agire in caso alla Associazione ricorrente, quale associazione iscritta all’elenco di cui al D.M. previsto dall’art. 5 d.lvo n. 215/2003.
3.L’amministrazione convenuta ha inoltre contestato la carenza di interesse alla pronuncia della associazione ricorrente con riferimento ai soggetti, che privi del requisito di cittadinanza, non hanno presentato domanda, in assenza di una loro iniziativa giudiziaria.
Detto profilo attiene più propriamente alle caratteristiche della tutela antidiscriminatoria esperita dagli enti collettivi, per la quale l’ordinamento regola, oltre ad un intervento ad adiuvandum del ricorrente, ai sensi dell’art. 5 comma 1 d.lvo n. 215/2003, in forza di delega del soggetto passivo della discriminazione, ove l’interesse leso è quello individuale, anche l’azione a tutela dell’interesse collettivo, ai sensi degli art. 5 comma 3 d.lvo n. 215/2003, da parte delle associazioni che svolgono attività nel campo della lotta alle discriminazioni, inseriti in apposito elenco presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Il comma 3 cit. espressamente prevede la legittimazione ad agire delle associazioni ed enti menzionati “nei casi di discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione”, così fondando la legittimazione propria dell’ente esponenziale dell’interesse collettivo in ragione dello scopo che si prefigge, operando nel campo della lotta alle discriminazioni e della parità di trattamento. Ciò che caratterizza l’azione antidiscriminatoria collettiva è la lesione degli interessi del gruppo cui appartengono i soggetti vittima della condotta discriminatoria, la cui individualibilità soggettiva è irrilevante, essendo la condotta discriminatoria potenzialmente lesiva del diritto del singolo mediante la sua appartenenza al gruppo. Ciò rende irrilevante, nel caso in esame, la mancata iniziativa giudiziaria dei soggetti che privi della cittadinanza non hanno presentato domanda e non hanno promosso l’azione giudiziaria, in quanto e purché l’associazione sia portatrice dell’interesse collettivo leso.
In merito si richiama la giurisprudenza della CGUE (sent. 10/07/2008 causa C 54/07 Centrum voor gelijkheid en voor racismebestrijnding /Feryn, promossa da un organismo belga deputato a promuovere la parità di trattamento ), che sia pure con riferimento alla direttiva 2000/43/CE e ai fattori di discriminazione per etnia e razza ha affermato, nel caso di un datore di lavoro che dichiari pubblicamente che non assumerà dipendenti aventi un certa origine etnica o razziale, che: (punto 23) “non può dedursi che l’assenza di un denunciate identificabile permetta di concludere per l’assenza di un qualsivoglia discriminazione diretta ai sensi della direttiva 2000/43.” ; (punto 24) “l’obiettivo di promuovere una partecipazione più attiva sul mercato del lavoro sarebbe difficilmente raggiungibile se la sfera di applicazione della direttiva 2000/43 fosse circoscritta alle sole ipotesi in cui il candidato scartato per un posto di lavoro e che si reputi vittima di una discriminazione diretta abbia avviato una procedura giudiziaria nei confronti del datore di lavoro”; (25) la condotta sopra descritta configura una discriminazione diretta e “non presuppone un denunciante identificabile che asserisca di essere vittima di tale discriminazione”.
Pertanto sussiste anche l’interesse ad agire dell’Associazione ricorrente L’ALTRO DIRITTO ONLUSS, che, per fatto documentale e pacifico, risulta iscritta al registro al di cui all’art. 6 d.lvo n. 115/2003 delle associazioni e degli enti che svolgono attività nel campo della lotta alle discriminazioni (doc. 2).
4.L’Amministrazione convenuta ha contestato anche la carenza di interesse ad agire della Sig.ra M, poiché essendo ammessa con riserva, ai sensi dell’art. 3 del bando, sarebbe priva di un interesse concreto ed attuale alla tutela giurisdizionale. Non si condivide l’assunto. E’ dato pacifico che non sia intervenuto alcun provvedimento di esclusione della ricorrente dalla ammissione alle prove preselettive, disposte dalla Amministrazione ai sensi dell’art. 9 del bando, il cui calendario per l’elevato numero dei concorrenti, si svolge dal 08/05/2017 al 24/05/2017 (doc. 3 convenuta). Tuttavia è pacifico che la ricorrente non possegga il requisito della cittadinanza prescritto, con la conseguenza che, al momento della verifica della mancanza di detto requisito che l’Amministrazione può disporre in ogni momento ai sensi dell’ultimo periodo dell’ultimo comma dell’art. 3 cit,, verrebbe esclusa dal concorso e revocato ogni atto e provvedimento. Così, si può concludere che la ricorrente è certamente titolare di un concreto interesse alla pronuncia e all’accoglimento della propria domanda, potendo intervenire in ogni momento della procedura concorsuale la verifica del requisito in discussione e la conseguente sua esclusione in ragione della sua nazionalità.
5.Nel merito sussiste il fumus del diritto con le precisazioni che seguono.
Si osserva che il requisito della cittadinanza per l’accesso al lavoro nella pubblica amministrazione previsto da norme nazionali di diverso rango (art. 51 Cost., art. 2 del D.P.R. n. 3/1957, art. 2 D.P.R. n. 487/94 richiamato dall’ art. 70 comma 13 d.lvo n. 165/2001, art. 1 D.P.C.M. n. 174/1994,) ha subito restrizioni derivanti dal processo di integrazione europea, dal principio di libera circolazione all’interno dell’Unione e di non discriminazione, sulla base della nazionalità, tra i lavoratori degli stati membri, per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione, le condizioni di lavoro (art. 45 TFUE ex 39 TCE).
L’ordinamento europeo prevede quale eccezione alla abolizione di ogni discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli stati membri, gli impieghi nella pubblica amministrazione (art. 45 paragrafo 4 TFUE). La portata applicativa di detta esclusione, ampia nella enunciazione letterale, è stata definita dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia in termini restrittivi.
Secondo la Corte la nozione di “pubblica amministrazione”, ai sensi dell’art. 45 paragrafo 4 è comunitaria e non può essere rimessa alla discrezionalità degli stati membri (CGUE sent. 12/02/1974 Sotgiu/Deuteche Bundespost C 152/73 punto 5; CGUE sent. 17/12/1979 Commissione CE/Regno del Belgio C 149/79 punto 12 e 18; CGUE sent,. 20/09/2003 Colegio de Oficiales del la Marina Mercante Espanola C 405/2001 punto 38); trattandosi di deroga al principio fondamentale della libera circolazione e della parità di trattamento dei lavoratori comunitari, deve ricevere una interpretazione che ne limiti la portata a quanto è strettamente necessario per salvaguardare gli interessi che essa consente agli stati membri di tutelare (CGUE sent,. 20/09/2003 Colegio de Oficiales della Marina Mercante Espanola C 405 punto 41); la deroga dell’art. 45 paragrafo 4 non trova applicazione a impieghi, che pur dipendendo dallo stato o da altri enti pubblici non implicano la partecipazione a compiti spettanti alla pubblica amministrazione propriamente detta (CGUE sent. 17/12/1979 Commissione CE/Regno del Belgio C 149/79 punto 11; CGUE sent,. 20/09/2003 Colegio de Oficiales del la Marina Mercante Espanola C 405/2001 punto 40); ha circoscritto detta deroga ai “posti che implicano la partecipazione, diretta o indiretta, all’esercizio dei pubblici poteri ed alle mansioni che hanno ad oggetto la tutela di interessi generali dello Stato o delle altre collettività pubbliche” in quanto “presuppongono, da parte dei loro titolari, l’esistenza di un rapporto particolare di solidarietà nei confronti dello Stato nonché la reciprocità di diritti e di doveri che costituiscono il fondamento del vincolo di cittadinanza” (CGUE sent. 17/12/1979 Commissione CE/Regno del Belgio C 149/79 punto 10; CGUE sent. 20/09/2003 Colegio de Oficiales del la Marina Mercante Espanola C 405/2001 punto 39).
Facendo applicazione di detti criteri La Corte di Giustizia non ha ritenuto impieghi nella P.A., pertanto non ricompresi nella deroga al principio di parità di trattamento dei lavoratori comunitari: il tirocinio della professione di insegnante (Corte Giust. 3 luglio 1986, Lawrie- Blum, c- 66/85), i posti di ricercatore presso il CNR (Corte Giust. 16 giugno 1987, Commissione c. Italia, c- 225/85), i posti di lettore di lingua straniera nell’Università di Venezia (Corte Giust. 30 maggio 1989, Allué, c- 33/88), il lavoro di infermiere (Corte Giust.3 giugno 1986, Commissione c. Francia, c- 307/84), vari impieghi esecutivi presso amministrazioni comunali (es.: falegname, aiuto giardiniere, elettricista; v. Corte Giust., 26 maggio 1982, Commissione c. Belgio, c- 149/79).
Secondo l’interpretazione sempre più rigorosa della Corte di Giustizia i pubblici poteri finalizzati alla tutela dell’interesse nazionale rilevanti ai fini della deroga di cui all’art. 45 paragrafo 4 si manifesterebbero nella posizione e mansione lavorativa che: 1) implichi l’esercizio di poteri di coercizione o d’imperio nei confronti dei terzi, 2) in funzione di interessi generali e non meramente tecnici o economici, 3) e purché siano esercitati in modo abituale e non rappresentino una parte molto ridotta dell’attività (CGUE sent. 20/09/2003 Colegio de Oficiales della Marina Mercante Espanola C 405/2001 punti 42, 44; CGUE sent. Anker C 47/2002 punto 63 CGUE; sent. 10/09/2014 Haralambidis punti 57, 58, 59 che ha ritenuto che la esclusione generale dall’accesso dei cittadini di altri stati membri dalla funzione di Presidente dell’Autorità Portuale, nello specifico di Brindisi, costituisce discriminazione fondata sulla nazionalità vietata dall’art. 45 TFUE).
Detta nozione restrittiva è espressione di un criterio funzionale, che cumula i due requisiti dell’impiego di pubblici poteri, come sopra intesi, e la tutela degli interessi generali dello Stato o delle pubbliche collettività.
In aggiunta si osserva che in pronunce intervenute in tema di discriminazione fondata sulla nazionalità, vietata dall’art. 49 TFUE (ex 43 TCR diritto di stabilimento), ove la Corte ha fornito l’interpretazione della nozione di pubblici poteri fondanti la deroga consentita dall’art. 51 paragrafo 1 (ex art. 45 TCE), ha ritenuto illegittimo il requisito della cittadinanza per l’accesso a determinate posizioni lavorative pubbliche o private collegate all’esercizio di pubblici poteri consistenti in: talune attività ausiliarie o preparatorie rispetto all’esercizio dei pubblici poteri (v. in tal senso, sentenze del 13 luglio 1993, Thijssen, C‑42/92, EU:C:1993:304, punto 22; del 29 ottobre 1998, Commissione/Spagna, C‑114/97, EU:C:1998:519, punto 38; del 30 marzo 2006, Servizi Ausiliari Dottori Commercialisti, C‑451/03, EU:C:2006:208, punto 47; del 29 novembre 2007, Commissione/Germania, C‑404/05, EU:C:2007:723, punto 38, e del 22 ottobre 2009, Commissione/Portogallo, C‑438/08, EU:C:2009:651, punto 36), o determinate attività il cui esercizio, pur comportando contatti, anche regolari e organici, con autorità amministrative o giudiziarie, o addirittura una partecipazione, anche obbligatoria, al loro funzionamento, lasci inalterati i poteri di valutazione e di decisione di tali autorità (v., in tal senso, sentenza del 21 giugno 1974, Reyners, 2/74, EU:C:1974:68, punti 51 e 53), o ancora determinate attività che non comportano l’esercizio di poteri decisionali (v., in tal senso, sentenze del 13 luglio 1993, Thijssen, C‑42/92, EU:C:1993:304, punti 21 e 22; del 29 novembre 2007, Commissione/Austria, C‑393/05, EU:C:2007:722, punti 36 e 42; del 29 novembre 2007, Commissione/Germania, C‑404/05, EU:C:2007:723, punti 38 e 44, nonché del 22 ottobre 2009, Commissione/Portogallo, C‑438/08, EU:C:2009:651, punti 36 e 41), di poteri di coercizione (v. in tal senso, in particolare, sentenza del 29 ottobre 1998, Commissione/Spagna, C‑114/97, EU:C:1998:519, punto 37), o di potestà coercitiva (v., in tal senso, sentenze del 30 settembre 2003, Anker e a., C‑47/02, EU:C:2003:516, punto 61, nonché del 22 ottobre 2009, Commissione/Portogallo, C‑438/08, EU:C:2009:651, punto 44) (così riassuntivamente indicate nella sentenza CGUE Commissione europea c Repubblica Ungherese 01/02/2017 c 392/2015 al paragrafo 108).
Le norme e le statuizioni della Corte di Giustizia prevalgono sulle norme nazionali contrastanti, vincolando ad una interpretazione conforme, o in caso di impossibilità, alla disapplicazione della norma interna.
Il quadro normativo nazionale in tema di accesso dei cittadini comunitari e di paesi terzi ai posti di lavoro pubblici è dettato dall’ art. 38, comma 1, d.lgs 165/2001 (così modificato dall’art. 7, comma 1, lett. b, L. 6 agosto 2013, n. 97 Legge europea 2013) che stabilisce, al comma 1 che “I cittadini degli Stati membri dell’Unione europea e i loro familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente possono accedere ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell’interesse nazionale“.
Il successivo comma 3 bis (anch’esso modificato dall’art. 7, comma 1, lett. b, L. 6 agosto 2013, n. 97 Legge europea 2013 ) prevede che le disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 3 si applicano, “ai cittadini di Paesi terzi che siano titolari del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, o che siano titolari dello status di rifugiato ovvero dello status di protezione sussidiaria”.
La L. n. 97/2013 ha esteso l’accesso al pubblico impiego ed i limiti previsti per i cittadini UE (introdotto con la riforma del pubblico impiego del 93) a determinate categorie di cittadini di paesi terzi (familiari di cittadini UE non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente, cittadini di Paesi terzi lungosoggiornanti, titolari dello status di rifugiato, titolari dello status di protezione sussidiaria). L’estensione della disciplina è piena, con la conseguenza che i cittadini terzi appartenenti a dette categorie sono ammessi all’accesso al lavoro pubblico alle stesse condizioni riconosciute ai cittadini comunitari. L’identità di regime applicabile impone che i criteri elaborati dalla Corte di Giustizia con riferimento ai cittadini UE debbano essere applicati in modo uniforme anche ai cittadini terzi appartenenti alle categorie citate.
Al di fuori di queste categorie non è possibile estendere l’accesso al pubblico impiego agli stranieri, non esistendo un principio generale di ammissione dello straniero non comunitario al lavoro pubblico (su questa tema si veda la recente Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., n. 18523/2014). In conclusione sul punto, l’accesso al pubblico impiego secondo i criteri elaborati dalla giurisprudenza comunitaria deve applicarsi ai cittadini comunitari, ai cittadini di paesi terzi familiari dei cittadini degli Stati membri dell’Unione europea che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente, ai cittadini di paesi terzi titolari del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo o che siano titolari dello status di rifugiato ovvero dello status di protezione sussidiaria.
Ai sensi del comma 2 dell’art. 38 cit. è rimesso al D.P.C.M. ai sensi dell’art. 17 L. 400/88 l’individuazione dei posti e delle funzioni per i quali non può prescindersi dal possesso della cittadinanza italiana, nonché i requisiti indispensabili all’accesso dei cittadini di cui al comma 1.
Il D.P.C.M. n. 174/94 ha individuato i posti per i quali non può prescindersi dal requisito della cittadinanza sulla base di un criterio organizzativo-settoriale, comprendendo : lett. a) e b) la categoria dei dirigenti delle Amministrazioni dello Stato e strutture periferiche, enti pubblici non economici, Regioni e enti locali, Banca d’Italia; lett. c) le carriere (le magistrature, avvocati e procuratori i dello stato); lett. d) intere Amministrazioni statuali (ruoli civili e militari della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministeri degli Affari Esteri, dell’Interno, della Giustizia, della Difesa, delle Finanze). Prevede inoltre le funzioni per le quali è richiesto il possesso della cittadinanza (quelle che “comportano l’elaborazione, la decisione, l’esecuzione di provvedimenti autorizzativi e coercitivi” e funzioni di controllo e legittimità”), riserva sottoposta alla decisione, motivata caso per caso, da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri.
Il criterio organizzativo posto dal comma 1 del DPCM cit., applicato nel bando in esame, secondo il quale tutti i posti appartenenti al ruolo civile del Ministero della Giustizia richiedono il requisito della cittadinanza, così escludendo i cittadini UE (e gli altri cittadini di paesi terzi sopra indicati), senza ulteriori distinzioni in ordine alle specifiche mansioni e posizioni lavorative, non pare compatibile con la giurisprudenza Comunitaria illustrata e con l’elaborata nozione restrittiva e funzionale, che presuppone in modo abituale e non occasionale, l’esercizio di pubblici poteri, inteso come esercizio di poteri di imperio o di coercizione collegati a funzioni di interesse pubblico generale.
Si rende quindi necessario, conformandosi alla interpretazione comunitaria, valutare in concreto (e non in astratto) se un determinato posto presso la P.A. costituisca o meno esercizio di pubblici poteri nei termini sopra illustrati.
Il CCNL del personale non dirigenziale del Ministero della Giustizia del 29.7.2010, colloca la figura professionale dell’Assistente Giudiziario nella seconda area funzionale (assieme a Conducente di automezzi, Operatore giudiziario, Assistente alla vigilanza dei locali e al servizio automezzi, Cancelliere, Contabile, Assistente informatico, Assistente linguistico, Ufficiale Giudiziario).
L’ all’allegato A ne definisce le specifiche professionali, richiedendo: “conoscenze teoriche e pratiche di medio livello; discreta complessità dei processi e delle problematiche da gestire; capacità di coordinamento di unità operative interne con assunzione di responsabilità dei risultati; relazioni con capacità organizzative di media complessità”.
Quanto al contenuto della figura professionale dell’Assistente Giudiziario stabilisce che è propria dei “lavoratori che svolgono, sulla base di istruzioni, anche a mezzo dei necessari supporti informatici, attività di collaborazione in compiti di natura giudiziaria, contabile, tecnica o amministrativa attribuiti agli specifici profili previsti nella medesima area e attività preparatoria o di formazione degli atti attribuiti alla competenza delle professionalità superiori, curando l’aggiornamento e la conservazione corretta di atti e fascicoli. In relazione all’esperienza maturata in almeno un anno di servizio gli stessi possono essere adibiti anche all’assistenza del magistrato nell’attività istruttoria o nel dibattimento, con compiti di redazione e sottoscrizione dei relativi verbali”.
Si evince quindi che detta figura professionale opera sempre sulla base di istruzioni, in collaborazione in altrui compiti di natura giudiziaria, contabile, tecnica o ammnistrativa. Prepara o forma atti attribuiti alle professionalità superiori. Curando l’aggiornamento e la conservazione di atti e fascicoli, compie operazioni. Quando svolge assistenza al magistrato, provvedendo alla redazione e sottoscrizione dei verbali nell’attività istruttoria o dibattimentale, che costituiscono atti pubblici, l’attività viene esercitata interamente sotto la vigilanza e la direzione del magistrato.
Tra le mansioni che l’assistente giudiziario è chiamato a svolgere sono ricompresi la ricezione di istanze per l’iscrizione all’albo dei periti e dei consulenti tecnici, la certificazione, tramite la propria sottoscrizione, del deposito di memorie nel processo civile e degli atti nel processo in cui presta assistenza (es. costituzione di parte civile nel processo penale e costituzione del convenuto nel processo civile), il rilascio di copia autentica del verbale dal medesimo redatto.
Tuttavia detta attività certificativa occupa una parte ridotta e del tutto occasionale rispetto a quella in collaborazione, preparatoria e assistenza, in quanto, “il rilascio di copie conformi e la ricezione in deposito degli atti provenienti sia dal giudice che dall’utenza deve essere limitato solo ai casi urgenti ed indifferibili nella contingente assenza di altri profili professionali di norma preposti a tali attività” (si legge in questi termini la nota inviata dal Ministero della Giustizia in data 11.2.2014 al Tribunale di Roma – Prot. n. 116/1/10014/GM/I). Si tratta quindi di una mansione priva del requisito di abitualità richiesto dalla giurisprudenza comunitaria.
Alla luce di tali considerazioni, emerge che il profilo professionale di assistente giudiziario rappresenti un’attività ausiliaria, preparatoria all’esercizio di pubblici poteri. Sebbene il suo esercizio comporti la partecipazione obbligatoria al funzionamento dell’amministrazione della giustizia (con particolare riguardo ai compiti di redazione e sottoscrizione dei relativi verbali) non costituisce comunque partecipazione diretta e specifica all’esercizio dei pubblici poteri in quanto i contatti con l’autorità giudiziaria lasciano inalterati i poteri di valutazione e di decisione di stretta pertinenza di quest’ultima. Si tratta quindi di un profilo professionale, quello di assistente giudiziario, che rimane escluso dal processo decisionale che si esprime nel provvedimento giurisdizionale ed è privo di qualsiasi potere di natura discrezionale, in ogni restante sua mansione.
Si evidenzia infine che, anche se può essere preclusa la progressione di carriera allo straniero qualora le funzioni di livello più elevato implichino il compimento di pubblici poteri a tutela dell’interesse nazionale (cfr. Corte Giust. , 16 giugno 1987, Commissione c. Italia, C – 225/85), l’art. 39, par. 4, TFUE non permette di riservare ai cittadini UE un trattamento discriminatorio rispetto ai nazionali una volta che l’accesso ad un impiego nella P.A sia stato consentito (cfr. Corte Giust. , 12 febbraio 1974, Sotgiu , C – 152/73) né tanto meno questo può ritenersi legittimato in virtù di una potenziale futura progressione di carriera.
Pertanto, una volta accertato che Il profilo professionale in esame non implica l’esercizio di pubblici poteri a tutela dell’interesse nazionale secondo la nozione comunitaria, non si può non rilevare la natura discriminatoria dell’art. 3 del bando per assistente giudiziario nella parte in cui richiede quale requisito partecipativo necessario il possesso della cittadinanza italiana. L’eventuale esclusione della ricorrente, quale soggetto in possesso di tutti i requisiti prescritti, ad esclusione di quello della nazionalità italiana, sarebbe determinata solo in ragione della sua nazionalità senza che ciò possa essere giustificato da valide ragioni dovute alla natura dell’attività lavorativa o al contesto in cui questa viene espletata.
Si ritiene quindi fondato il ricorso sotto il profilo dell’apparenza del diritto a salvaguardia del quale si intende richiedere la tutela, a cui consegue la necessaria disapplicazione dell’art.1 lett. d) del D.P.C.M. 7 febbraio 1994 n. 174 a cui rinvia l’art. 38 D. Lgs n. 165/2001 e della clausola del bando di cui all’art. 3 n. 3), per incompatibilità con il diritto comunitario così come ricavato dall’interpretazione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (si veda Cass. sez. L sent. n. 17966/2011). La discriminazione ha inoltre duplice natura, individuale e collettiva. Individuale, a danno della sig.ra O M e collettiva, nei confronti di tutti coloro che candidati, pur non individuati e non intervenuti, sarebbero lesi dalla discriminazione se venissero esclusi dalle prove preselettive e selettive in ragione del mancato possesso della cittadinanza, nonché di coloro che, non individuabili in modo diretto, hanno omesso di presentare domanda a causa della clausola in esame.
6.Sussiste anche il periculum in mora cioè il pericolo imminente ed irreparabile che il tempo necessario allo svolgimento del giudizio di merito pregiudichi in maniera irreparabile il diritto. Quanto alla ricorrente sig.ra O M e ai candidati privi del requisito di cittadinanza, pur avendo la possibilità di partecipare alle prove in quanto ammessi con riserva ai sensi dell’art. 3 del bando, in forza della stessa disposizione, che riserva alla amministrazione detta potestà, può intervenire in ogni momento della procedura concorsuale la verifica del requisito in discussione e la conseguente loro esclusione in ragione della loro nazionalità.
Con riferimento ai cittadini comunitari e stranieri appartenenti alle categorie di cui all’art. 38 d.lvo n. 165/2001, che in possesso dei restanti requisiti, non hanno presentato domanda, a causa del difetto del requisito di cittadinanza, il pregiudizio imminente e irreparabile è insito nella prosecuzione delle operazioni della procedura concorsuale, in assenza di una rimessione nei termini che consenta loro la presentazione della domanda e la partecipazione alle prove pre-selettive e selettive.
Le spese di lite sono rinviate al merito.
P.Q.M.
In parziale accoglimento del ricorso,
ordina al Ministero della Giustizia di ammettere con riserva la sig.ra O M, i candidati cittadini comunitari e i candidati sprovvisti della cittadinanza italiana rientranti in una delle categorie previste dall’art. 38 comma 1 e comma 3 bis d.lvo n. 165/2001 che hanno presentato domanda, alla procedura concorsuale, alle prove preselettive e, se superate, alle prove selettive;
ordina al Ministero della Giustizia di sospendere la procedura concorsuale sino alla conclusione del giudizio di merito, in modo da permettere ai cittadini comunitari e agli stranieri rientranti in una delle categoria previste dall’art. 38 comma 1 e comma 3 bis d.lvo n. 165/2001 di essere rimessi in termini per la presentazione della domanda e partecipare con riserva al concorso, alle prove preselettive e, se superate, alle prove selettive.
Si comunichi.
Firenze, 27 maggio 2017.
Il Giudice
Dott.ssa Stefania Carlucci