Discriminazione orientamento sessuale, Tribunale di Ravenna, sentenza del 3.2.2009
Svolgimento del processo
Con ricorso depositato il 25.3.2008 M.C. adiva questo giudice del lavoro contro il Ministero dell’Interno ed il Comando Provinciale Vigili del Fuco di Ravenna ed esponeva:
– di essere iscritto, fin dall’anno 1980, alla lista dei Vigili del Fuoco Discontinui (oggi volontari) istituita presso il Comando Provinciale di Ravenna, quale vigilie volontario ex ausiliario di leva, avendo espletato il servizio di leva nel Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco;
– che dal 18.11.1991 veniva richiamato come Vigile del Fuoco discontinuo, sia presso il Comando di Ravenna sia presso le sedi distaccate, e ciò continuativamente fino al 2003;
– che dopo ben 12 anni di attività effettiva, improvvisamente ed immotivatamente, nel corso del 2004, il Comando Provinciale di Ravenna non disponeva alcun suo richiamo in servizio, nonostante egli ne avesse diritto, avendo altresì espletato le prescritte 60 ore annue di addestramento obbligatorio, e, peraltro, nonostante la notoria e lamentata carenza di personale, sia permanente sia discontinuo, di cui il Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco è affetto.
– che a seguito di espressa istanza di chiarimenti effettuata in data 16.10.2004, il Comando attribuiva l’arbitrario mancato richiamo ad “atti …. tali da certificare una condotta da Lei tenuta che potrebbe compenetrare la violazione dell’art. 20 lett. f) del D.P.R. 6 febbraio 2004, n. 76”,.
– chel’arbitrario mancato richiamo effettuato nel corso del 2004 era stato pure adottato in palese contrasto con la disposizione di cui all’art. 18 ex D.P.R. 76/04 che prevede invece il richiamo in servizio – oltre per lo stato di disoccupazione (nel quale egli in effetti versava) – sulla base dei criteri di anzianità d’iscrizione ai quadri del personale volontario ed a quel tempo egli era il primo nell’elenco istituito presso il Comando di Ravenna;
– che a seguito dell’interessamento del sindacato di appartenenza, durante l’anno 2005 venne invece regolarmente richiamato in servizio per il massimo del tetto previsto ogni anno (pari a 160 giorni;docc. nn. 7 – 13), ciò rappresentando la migliore riprova della assoluta pretestuosità ed infondatezza della precedente condotta adottata dal Comando consistente nel non chiamarlo a lavoro nel 2004;
– che pertanto in data 26.04.2005 presentava istanza di risarcimento per il danno subito a seguito dell’illegittimo mancato richiamo, istanza che rimaneva tuttavia senza alcun riscontro;
– che di fatto si era innescato un meccanismo preordinato alla sua espulsione dalle liste dei vigili volontari, avendo il Comando deliberato di liberarsi ad ogni costo della sua prestazione in ragione del disagio che il suo orientamento sessuale creava all’interno del Comando, dato che egli era notoriamente un transessuale e si vestiva e si atteggiava come una donna;
– che pertanto non a caso, in occasione di uno dei richiami al lavoro, nel 2005 veniva assoggettato a ben due, contestuali, procedimenti disciplinari risultati privi di fondamento e dai quali otteneva l’archiviazione per insussistenza di comportamenti contrari al regolamento di disciplina;
– che nonostante l’archiviazione il Comando riteneva opportuno precisare che, in ogni modo, il suo comportamento non sarebbe stato perfettamente in linea con la necessaria collaborazione che ogni dipendente deve garantire alla organizzazione del servizio;
– che, in concomitanza alla contestazioni di addebiti, il Comandante lo invitava al pure decoro con raccomandata prot. n. 94/ris del 14.07.2005, che originava da una segnalazione, pervenuta al Comandante in data 08.07.2005, secondo cui il ricorrente si recava in servizio con smalto colorato sulle unghie;
– che anche questo rilievo era contra legem siccome i Vigili Volontari sono tenuti, ad indossare, al momento di entrare ed uscire dalla Caserma, in turno libero, abiti civili; mentre nel corso del lavoro egli si vestiva come tutti con la divisa da Vigile del Fuoco, che prevede, peraltro, enormi guanti, con cui le mani sono occultate agli sguardi di chiunque, con buona pace del preteso decoro;
– che le predette segnalazioni, con i consequenziali provvedimenti adottati, parevano preordinati all’unico fine di recargli molestie nonchè di appannarne l’immagine professionale e personale;
– che in data 03.07.2006 veniva inspiegabilmente convocato per una visita medica presso l’ambulatorio del Comando nel corso della quale il medico non poteva fare altrimenti che accertarne la sua idoneità psico – fisica; ed anche il predetto ordine di sottoporsi a visita era illogico e pretestuoso, ove si consideri che l’accertamento della idoneità sanitaria ed attitudinale sui Vigili Volontari viene di norma effettuato, ogni due anni, presso gli ambulatori delle Ferrovie dello Stato;
– che nel corso del 2006, nonostante l’accertata idoneità fisica, con comunicazione prot. n. 45/ris del 18.08.2006 veniva, ancora una volta sospeso temporaneamente dal richiamo dopo aver prestato servizio per 120 giorni con la motivazione sorprendente di una “evidente incompatibilità ambientale”;
– che si era trattato di un provvedimento palesemente illegittimo e di natura vessatoria e privo dei presupposti atteso che l’art. 35 co. 5 l. 521/88 (richiamato dal D.P.R. 76/04) prevede la sospensione del personale volontario dai richiami, peraltro da adottarsi con decreto ministeriale, solo qualora il vigile Volontario “sia sottoposto a procedimento penale per reati particolarmente gravi, o per gravi motivi anche prima che sia esaurito o iniziato procedimento disciplinare”.
– che in seguito, in data 31.10.2006, il Comando gli comunicava l’avvenuto inoltro di una informativa al Ministero dell’Interno per l’apertura di un procedimento disciplinare; per contro in data 12.01.2007 gli veniva notificato il decreto del Ministero dell’Interno n. 6624/bis del 18.12.2006, con cui veniva disposta definitivamente la sua cancellazione dall’elenco del personale volontario del Comando Provinciale dei Vigili del Fuoco di Ravenna, senza alcun procedimento disciplinare “ai sensi dell’art. 20, comma 1 lett. f ipotesi di cui all’art. 35, commi 1 lettera C, e 2 della legge 5 dicembre 1988 n. 521, del D.P.R. 026.02.2004 n. 76;
-che come apparente giustificazione del provvedimento si faceva riferimento ad una condanna penale subita con un decreto penale del 1997 per oltraggio a p.u. (reato addirittura abrogato dall’art. 18 l. 205/99), dopo il quale aveva continuato a svolgere per altri nove anni la propria attività;
– che contro tale provvedimento egli tutelavai propri diritti innanzi al Tribunale di Ravenna, chiedendone la disapplicazione in via d’urgenza ai sensi dell’art. 700 C.P.C. con esito alterno, concludendosi con un provvedimento di rigetto in sede di reclamo,
– che la vicenda processuale aveva permesso l’emersione di ulteriori circostanze, a lui sconosciute, che hanno evidenziato come egli fosse soggetto stato oggetto ad un controllo ossessivo da parte dell’Amministrazione convenuta addirittura fin dal 2001;
– che dagli atti si evinceva che in effetti, già a dicembre del 2001 il Comando avanzava al Ministero una proposta di cancellazione, tuttavia non accolta dal Dicastero posto che, ai sensi dell’art. 73 l. 469/61, l’esonero dal servizio del personale volontario era ammesso solo nel caso in cui personale avesse “dato prova di incapacità o insufficiente rendimento o che, nonostante diffidato continui ad assentarsi, senza giustificato motivo, delle esercitazioni e dai turni prescritti”.
– che priva di effetto rimaneva pure la segnalazione del 28.03.2005, prot. n. 4758, pos. n. 7021 – 13 del 29.03.2005, del capo reparto A. R. e le numerose note e richieste volte al Ministero le quali rimanevano, alla fine, tutte prive di seguito, in quanto nessuna sfociava in un vero e proprio procedimento disciplinare.
– che pertanto come emergeva dalla valutazione dell’intera vicenda era evidente che la condotta del Ministero fosse stata pretestuosa e preordinata a sostenere il Comando Provinciale di Ravenna nel suo tentativo di sbarazzarsi della sua opera, perchè i colleghi non desideravano lavorare al suo fianco, perchè era divenuto motivo di imbarazzo per il Comando, in ragione del suo orientamento sessuale, che avrebbe creato disagi; come era stato candidamente ammesso alla stampa locale e come rivelato dalla sequela di segnalazioni, rilievi, note ecc. che però mai erano sfociate in provvedimenti disciplinari ritualmente assunti.
Sulla scorta di tali premesse il ricorrente allegava in diritto di essere stato vittima di una serie di atti palesemente vessatori e discriminatori, di cui il decreto di radiazione era stato l’epilogo e ciò in ragione del suo risaputo orientamento sessuale di transessuale; chiedeva di essere risarcito dei danni patrimoniali subiti per effetto dei mancati richiami nel 2004, nel 2006 ed in seguito per effetto del decreto di cancellazione fino al limite di età massimo previsto per il richiamo in servizio (anni 57) danni che quantificava in € 92.340; chiedeva inoltre di essere risarcito dei danni morali per € 5.000 ed esistenziali quantificati in € 19.237,50 subiti per effetto del comportamento discriminatorio e persecutorio messo in atto dai convenuti; chiedeva la rimozione degli effetti del medesimo comportamento, previa disapplicazione degli atti amministrativi presupposti illegittimi.
Il Ministero dell’Interno convenuto si è costituito in giudizio depositando una memoria nella quale, dopo aver rievocato la precedente procedura cautelare, eccepiva in via preliminare il difetto di giurisdizione dell’AGO sulla domanda svolta dal ricorrente: sia perchè come dispone l’art. 1, comma 2 e 3 del D.P.R. n. 76/2004 il personale volontario dei vigili del fuoco non è vincolato da rapporto di impiego con l’amministrazione, sia perchè comunque la domanda attorea verteva sulla contestazione di un tipico provvedimento amministrativo (il decreto di cancellazione dagli elenchi del personale discontinuo) rispetto al quale la posizione soggettiva del ricorrente era di interesse legittimo, siccome il vigile volontario discontinuo non ha alcun diritto al richiamo in servizio derivante dall’iscrizione negli elenchi del personale volontario, venendo chiamato a prestare servizio, ogni qual volta se ne manifesti il bisogno, in base a scelte discrezionali operate dalla stessa Pubblica Amministrazione. D’altra parte, secondo la difesa del Ministero, per superare il difetto di giurisdizione neppure poteva farsi ricorso all’istituto della disapplicazione del provvedimento di cancellazione da parte del G.O.perchè questo non era un atto presupposto (sindacabile in via incidentale) ma l’oggetto stesso del contendere. In via subordinata l’amministrazione convenuta eccepiva pure l’incompetenza territoriale del giudice adito per essere competente sulla domanda il Tribunale di Bologna ai sensi dell’art. 25 c.p.c. sul foro erariale non sussistendo appunto un rapporto di lavoro con il vigile volontario.
Nel merito la difesa convenuta contestava che la Pubblica Amministrazione avesse assunto un atteggiamento discriminatorio nei confronti del ricorrente, in quanto il provvedimento impugnato nella presente sede era perfettamente legittimo, sia sul piano procedurale che sostanziale; e ciò perchè rispondente all’art. 20 del D.P.R. 76/2004 ed all’art. 35 l. 05.12.1988 n.521 che prevedono la sua adozione in ogni caso di condanna penale per delitto doloso senza necessità di attivare il procedimento disciplinare e senza possibilità di valutare discrezionalmente i fatti. Inoltre, secondo l’amministrazione convenuta, neppure sussisteva il carattere discriminatorio dell’atto in quanto la doverosa determinazione assunta nei confronti del ricorrente sarebbe stata assunta nei confronti di qualsivoglia dipendente che fosse stato scoperto (come il ricorrente) privo dei requisiti per la permanenza nell’elenco dei volontari a seguito di condanna per il delitto doloso, anche se tale condanna era avvenuta a lunga distanza dall’atto di cancellazione adottata. Anche in ordine alle domanda risarcitorie l’Amministrazione convenuta eccepiva il difetto di giurisdizione del giudice adito oltre che l’infondatezza nel merito, per tutte le ragioni illustrate con la memoria nella quale concludeva dunque per la carenza di giurisdizione dell’AGO, per l’incompetenza territoriale del giudice adito, per il rigetto delle domande nel merito.
La causa è stata istruita col deposito di documenti; quindi è stata discussa e decisa come da dispositivo.
Motivi della decisione
I. Sulla giurisdizione
1.- Anzitutto deve essere chiarito, ai vari fini in cui ciò dovesse essere ritenuto rilevante, che il ricorrente ha agito in giudizio non già per impugnare il decreto di cancellazione dagli elenchi dei Vigili volontari – come sembra ritenere la difesa convenuta – bensì sostenendo di essere stato vessato e discriminato dalla Pubblica Amministrazione convenuta in ragione del proprio orientamento sessuale (essendo un transessuale). A sostegno del proprio assunto il ricorrente ha elencato una lunga serie di fatti rivelatori dell’allegata vessazione e discriminazione ed ha chiesto di essere risarcito dei danni patrimoniali morali ed esistenziali che ne sarebbero derivati; e che venissero pure rimossi gli effetti del comportamento discriminatorio messo in atto dalla PA nei suoi confronti.
2.- E’ del tutto evidente perciò come la domanda svolta in questo giudizio di merito risulti più articolata e complessa di quella svolta in sede d’urgenza, allorché il ricorrente aveva chiesto di essere riammesso al lavoro deducendo (soltanto) l’illegittimità del decreto di cancellazione.
Già su quella diversa azione non vi sarebbe alcun dubbio, ad avviso di chi scrive, che la giurisdizione spetti comunque al giudice ordinario per tutte le esaustive ragioni indicate nel provvedimento ex art. 700 ( al quale si fa dunque rinvio); non si può condividere infatti la diversa soluzione assunta dal giudice del reclamo il quale, astraendo dalla realtà dei fatti (il mancato richiamo al lavoro del ricorrente dopo 24 anni, sulla base di un provvedimento ritenuto illegittimo) e dall’intrinseca posizione soggettiva dedotta in giudizio dal ricorrente (di essere riammesso al lavoro come gli altri soggetti), ha concluso per il difetto di giurisdizione del giudice ordinario come se al ricorrente interessasse ottenere soltanto le reiscrizione negli elenchi; laddove egli aveva agito fin dalla procedura ex art.700 per poter essere ammesso al lavoro presso il Comando Provinciale dei Vigili del Fuoco di Ravenna su un piede di parità con gli altri iscritti; risultato che il giudice del lavoro adito (ed esso soltanto) poteva assicurargli in base all’ampio criterio di cui all’art. 63, 1 comma del d.lgs. 165/2001 che devolve alla sua giurisdizione “tutte le controversie di lavoro alle dipendenze di enti pubblici” ivi comprese quelle “concernenti l’assunzione al lavoro…..ancorchè vengano in questione atti amministrativi presupposti. Quando quest’ultimi siano rilevanti ai fini della decisione il giudice li disapplica, se illegittimi”.
D’altra parte, come si era avvertito già nel provvedimento ex art. 700 c.p.c.,quando specifiche potestà amministrative si esplicano ai margini del diritto del lavoro ed interferiscano con la facoltà di espletare la propria attività lavoro all’interno di un rapporto privatistico in essere con la PA è a quest’ultimo aspetto che bisogna attribuire prevalenza per evidenti ragioni, anche costituzionali; ciò è confermato pure dalla consolidata giurisprudenza della Corte regolatrice la quale ha osservato (Cass. Sezioni Unite, ordinanza 21592/2005) che la corretta applicazione del criterio di riparto della giurisdizione sopra evocato (in base al c.d. petitum sostanziale) porta ad “attrarre nella competenza del giudice ordinario tutte le domande che, pur avendo formalmente ad oggetto l’impugnazione di atti amministrativi ai fini dell’annullamento, nella sostanza sono dirette a conseguire utilità inerenti ai rapporti di lavoro, anche solo con riguardo all’acquisizione di una chance o alla modifica di prerogative inerenti allo status del lavoratore…”.
3.- Peraltro, come si è preannunciava, tutto questo non ha più nemmeno rilievo rispetto alla domanda svolta dal ricorrente in questo giudizio di merito: che si caratterizza sia per la maggiore ampiezza ed articolazione del petitum sia, soprattutto, per l’allegazione di ragioni (di diritto e di fatto) tipicamente ed esplicitamente discriminatorie e vessatorie; dinanzi all’azione effettivamente svolta dal ricorrente appare pacifico che non si possa più discutere della spettanza della giurisdizione al giudice ordinario sia perché la situazione giuridica fatta valere dal ricorrente è di diritto soggettivo (già ai sensi dell’art. 3, 1° comma della Cost.); sia perché la giurisdizione sui comportamenti discriminatori posti in essere dalla PA per ragioni afferenti a condizioni personali (ed in specifico per orientamento sessuale) è espressamente devoluta dal nostro ordinamento al giudice ordinario anche oltre i criteri delineati dal t.u. sul riparto di giurisdizione.
Secondo un’oramai consolidata impostazione giurisprudenziale, la posizione fatta valere, laddove abbia ad oggetto la tutela del principio di non discriminazione, assume la consistenza di un diritto soggettivo, avendo come obiettivo quello di tutelare i diritti fondamentali dell’individuo; come tale, ricade sotto la giurisdizione del giudice ordinario, data la natura assoluta e incondizionata del diritto alla non discriminazione, diritto incomprimibile che si sottrae al meccanismo dell’affievolimento.
In proposito è sufficiente richiamare la disciplina dettata dal d.lgs. 216/2003(in attuazione della direttiva 2000/78/CE) in materia di parità di trattamento fra le persone, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro, indipendentemente da religione, convinzioni personali, handicap, età ed orientamento sessuale.
4.- In relazione alla tutela giurisdizionale l’art. 4 del dlgs. 216/2003 prevede che essa si svolga nelle forme previste dall’articolo 44, commi da 1 a 6, 8 e 11, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, approvato con decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286; il quale affida in via esclusiva alla giurisdizione ordinaria la competenza a giudicare delle domande contro le discriminazioni senza distinguere nemmeno fra datore di lavoro pubblico e datore di lavoro privato; prevedendo anzi esplicitamente che il comportamento discriminatorio denunciabile davanti al g.o. possa essere posto in essere (anche) da una pubblica amministrazione. Da ciò consegue perciò che in materia di discriminazioni l’ordinamento riconosca anzitutto una generale giurisdizione devoluta al g.o. in ragione della natura di diritto soggettivo perfetto (di derivazione costituzionale) fatto valere dal soggetto discriminato.
La tesi è corroborata dall’art. 4 dellostesso d.lgs. 216/2003 che, rispetto ai fattori di discriminazioni ivi regolati (legati a religione, convinzioni personali, handicap, età ed orientamento sessuale), prevede esplicitamente che resti salva la giurisdizione amministrativa soltanto per “il personale di cui all’art. 3, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001 n. 165”; da ciò conseguendo, a contrario, che ogni altro caso di discriminazione spetti al giudice ordinario: non solo, come è ovvio, in relazione ai rapporti di lavoro privatizzati, ma anche oltre la stessa ripartizione della giurisdizione effettuata con l’art.63 del t.u. 165/2001; anche se, ad esempio, la questione di giurisdizione si ponesse in ragione dell’oggetto della controversia (ad es. segnatamente della impugnativa della procedura concorsuale).
In altri termini, per quanto attiene i rapporti di lavoro, deve affermarsi che la normativa antidiscriminatoria non rappresenti una semplice duplicazione del riparto di giurisdizione derivante dal t.u. 165/2001 ma abbia portato ad un ampliamento della giurisdizione del g.o. anche oltre il riparto delineato dal t.u. Del resto, come aveva già notato la Corte d’Appello di Firenze (in decreto 28.11.2008), l’affermazione implicita della giurisdizione, oltre la stessa linea di demarcazione stabilita dal T.u. 165/2001, si rinviene anche in Cass. n. 24170/2006 la quale, pur escludendo, il diritto dello straniero a partecipare ad un concorso pubblico, ha di fatto ritenuto la giurisdizione del giudice ordinario in materia di ammissione a procedura concorsuale (materia che il t.u. riserverebbe invece al giudice amministrativo).
Vertendosi in materia di diritti fondamentali della persona e perciò di diritti soggettivi pieni, correttamente il legislatore del 1998 (e del 2003) ha affidato la tutela in via esclusiva al giudice ordinario, anche oltre il riparto di giurisdizione per materia delineato dal t.u. sul pubblico impiego, fatta salva quella sui rapporti ex art 3, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001 n. 165.
5.- Non può essere perciò accolta l’eccezione di difetto di giurisdizione formulata dall’Avvocatura in relazione alla natura della controversia o della posizione fatta valere in giudizio perché, come già detto, nella materia in oggetto la giurisdizione del giudice ordinario si radica anzitutto sulla natura di diritto soggettivo perfetto che qualsiasi soggetto, in quanto tale, vanta all’interno del nostro ordinamento a non essere discriminato illecitamente; inoltre la stessa materia è comunque devoluta al giudice ordinario quando il rapporto di lavoro rientra nel perimetro delle stessa giurisdizione, come si evince a contrario dall’art. 44 T.U. immigrazione e dall’ art. 4 del d.lgs.216/2003, in quantolexspecialis e posteriore rispetto alla legge n. 205/2000 (che ha modificato il dgls 80/1998 che ha dettato la disciplina della giurisdizione in materia di pubblico impiego poi raccolta nel T.U. 165/2001) .
In ogni caso, quand’anche non fosse esistita la normativa antidiscriminatoria la stessa domanda doveva essere devoluta al giudice ordinario perché, come già detto, in nessun caso si può identificare l’azione del ricorrente con una impugnazione in via principale della cancellazione dagli elenchi avvenuta nel 2007; siccome il ricorrente ha chiesto invece che, dopo 24 anni di lavoro, venisse rispettato il proprio diritto al richiamo in posizione di parità rispetto agli altri aspiranti, previa disapplicazione dell’atto di cancellazione ed inoltre che venissero risarciti tutti i danni prodotti, non solo dal provvedimento di cancellazione ma anche dai mancati richiami avvenuti nel 2004 (per 160 giorni) o della sospensione per incompatibilità ambientale effettuata nel 2006; oltre che rimossi gli effetti.
II. La competenza ed il rito
6.- Per quanto concerne il rito applicabile va affermata la prevalenza di quello lavoristico – con la necessaria devoluzione della lite alla competenza funzionale del giudice del lavoro – tutte le volte in cui la questione di discriminazione nasca o inerisca o risulti connessa ad un rapporto di lavoro (anche in fieri), ciò in conformità ai principi e secondo una elementare esigenza di razionalità del sistema, come peraltro affermato dalla dottrina più attenta; nessuna conseguenza può comportare invece (sulla competenza e sul rito) il fatto che la stessa domanda discriminatoria sia stata introdotta attraverso un normale procedimento ex artt. 409 e ssc.p.c., piuttosto che attraverso lo speciale procedimento sommario previsto dal testo unico sull’immigrazione.
Nel caso di specie poi nemmeno residua alcun dubbio sul fatto che la discriminazione dedotta in giudizio inerisca ad un rapporto di lavoro con la PA ed ad un rapporto che non rientra nella eccezione di cui sopra (pubblico impiego non privatizzato); siccome il ricorrente era vigile volontario (previsto dal Regolamento di cui al D.P.R. 02.11.2000 n. 362), categoria esplicitamente esclusa dalla ri-pubblicizzazione del rapporto dei vigili del fuoco ( ex art.1 della legge 30.09.2004 n. 252 che ha aggiunto il comma 1 bis all’art. 3 del d.lgs 30.03.2001 n. 165) che ha devoluto al G.A. le relative controversie (in base al combinato degli artt. 63 e 3, comma 1 bis del d.lgs 165/01); tale normativa ha operato infatti, nel contempo, una espressa esclusione proprio per il personale volontario confermando così che per quest’ultimo la giurisdizione sul rapporto di lavoro deve essere devoluta al giudice ordinario, ed al giudice del lavoro in particolare trattandosi di normale rapporto di lavoro alle dipendenze dalla PA.
7- In proposito deve essere disattesa l’ulteriore eccezione della difesa dell’amministrazione convenuta seconda la quale la causa in esame andrebbe assegnata invece al tribunale ordinario e non di lavoro perché il vigile volontario non sarebbe legato da “un rapporto di impiego con l’amministrazione ”, secondo la formula utilizzata dall’art. 1, comma 3 D.P.R. 06.02.2004 n. 76; laddove, come si è già rilevato in sede d’urgenza, la stessa formula sta solo a significare, evidentemente, che il Vigile del Fuoco volontario non sia vincolato da un rapporto d’impiego stabile e continuativo come quello del personale appartenente al Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco (ai vari fini per cui ciò dovesse rilevare); ma non vale certo a indicare che lo stesso rapporto non sia un rapporto di lavoro; e di lavoro dipendente in particolare, non potendo essere qualificato in altro modo il rapporto sinallagmatico che comporti lo scambio di attività lavorativa (in forma subordinata) contro retribuzione e che assicura l’accesso al compendio dei diritti civili e sociali che l’ordinamento sulla base della Costituzione riconosce a chi lavora.
Nessuno potrebbe dubitare che il Vigile del Fuoco volontario nel momento in cui sia chiamato a svolgere i propri compiti diventi parte di un rapporto di lavoro; e che perciò tutte le volte in cui si faccia questione dei diritti e degli obblighi che discendono da quel rapportola controversia che si pone integri una controversia di lavoro e vada devoluta al giudice del lavoro nei limiti di cui all’art.63 del T.U. Se ad esempio alla parte ricorrente non fosse stata pagata la retribuzione; o se avesse subito un infortunio sul lavoro; o se avesse fatta questione di un avanzamento di qualifica; non v’è dubbio che egli avrebbe potuto rivolgersi al giudice del lavoro.
D’altra parte il fatto che ricorrente non sia titolare di un rapporto di impiego con la PA vale a rendere semmai ancora più “privatistico” il suo rapporto di lavoro con la PA ed ancor più solido l’ancoraggio nell’ordinamento della giurisdizione del giudice del lavoro.
8. – Si ricorda che ai sensi dell’art. 409 c.p.c. il giudice del lavoro conosce di tutti i rapporti di lavoro a carattere subordinato o parasubordinato, quale che sia la modalità d’instaurazione del rapporto e quale che sia la durata (più o meno flessibile) dello stesso. L’inerenza della controversia al rapporto di lavoro ed il riferimento alla materia lavoristica deve essere inteso inoltre nel senso più lato possibile, sia dal punto di vista dei criteri di collegamento tra il rapporto e la controversia che da esso trae occasione, sia dal punto di vista della riconducibilità delle situazioni sostanziali sottoposte al giudice al diritto soggettivo o a posizioni in qualche modo ad esso assimilabili. Quando ha usato il termine “tutte” riferito alle controversie aventi ad oggetto il rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, il legislatore non può non avere avuto in mente l’interpretazione particolarmente ampia data all’art.409 n.1 c.p.c. dalla giurisprudenza, secondo la quale, perché si applichi lo speciale rito del lavoro, è sufficiente che la controversia si ricolleghi ad un rapporto di lavoro trovandone occasione, anche quando si tratti di un nesso labile.
Anche l’eventuale esistenza di un rapporto di lavoro diverso da quello subordinato, e di natura parasubordinata (ossia contrassegnato dai caratteri della personalità, coordinazione e continuatività) non potrebbe escludere poi la giurisdizione del giudice ordinario, dato che la giurisprudenza è sempre stata univoca nel ritenere che detti rapporti intercorrenti con una PA abbiano natura privatistica e rientrino nell’ambito dell’applicazione dell’art. 409, n. 3.
9.- Da tutto ciò consegue altresì che trattandosi di un controversia afferente ad un rapporto di lavoro non è un alcun modo applicabile la regola del foro erariale (che invece riguarda le cause non di lavoro) con inevitabile reiezione della stessa eccezione subordinata di incompetenza territoriale svolta dalla difesa del Ministero.
III. Il comportamento discriminatorio messo in atto nei confronti del ricorrente.
10.- Per quanto concerne il merito, occorre anzitutto ricordare che secondo il nuovo art.15 dello Statuto dei lavoratori (novellato dal dlgs 216/2003) è nullo qualsiasi atto discriminatorio messo in atto nei confronti di un lavoratore – in materia di occupazione, licenziamento, assegnazione di qualifiche o mansioni, trasferimento, disciplinare o comunque diretto a recargli altrimenti pregiudizio – a causa del suo orientamento sessuale.
L’art. 2 dello stesso d.lgs. 216/2003 (per quanto qui interessa)descrive poi chiaramente la nozione di discriminazione diretta quando prevede che essa si ha “quando…….per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga”.
Nel caso in esame risulta, in più atti ed in più modi, che lo stesso comportamento discriminatorio sia stato praticato nei confronti del ricorrente in modo persino palese, se non dichiarato; per come si evince dalla semplice disamina dei documenti che provano le iniziative prese nei suoi confronti.
11.-Anzitutto nel corso del 2004, il Comando Provinciale di Ravenna non ha chiamato al lavoro il ricorrente, pur essendo egli il più anziano in ordine di iscrizione e pertanto il più titolato, secondo la legge, a prestare il servizio di vigile volontario.
A seguito dell’istanza di chiarimenti presentata dal ricorrente, il mancato richiamo del ricorrente è stato attribuito dal Comando ad “atti …. tali da certificare una condotta da Lei tenuta che potrebbe compenetrare la violazione dell’art. 20 lett. f) del D.P.R. 6 febbraio 2004, n. 76”; senza però indicare alcuna reale condotta o fatto concreto che fosse ostativo della prestazione lavorativa da parte del ricorrente.
Tanto è vero che l’anno successivo (dopo che ebbe ad avanzare istanza di risarcimento del danno) il ricorrente venne di nuovo chiamato in servizio, senza che venisse più opposto l’asserito impedimento ai sensi dell’art. 20 lett. f) del D.P.R. 6 febbraio 2004, n. 76.
12.- Nello stesso2005 il ricorrente venne poi sottoposto a due procedimenti disciplinari che si sono rivelati del tutto infondati, tanto che se ne è disposta “l’archiviazione….. per insussistenza di comportamenti contrari al regolamento di disciplina”; tuttavia, ciononostante, il ricorrente è stato lo stesso incongruamente stigmatizzato perchè “ il suo comportamento non sarebbe stato perfettamente in linea con la necessaria collaborazione che ogni dipendente deve garantire alla organizzazione del servizio”, ed il fatto appare appunto incongruo sia per la genericità della motivazione, sia per l’esito ampiamente assolutorio dello stesso procedimento disciplinare.
13.- Ancora più esplicito è stato poi il riferimento al modo di essere del ricorrente, sotto il profilo sessuale, nel richiamo (raccomandata del 14.07.2005) con cui il Comandante (in seguito ad una segnalazione, pervenuta in data 08.07.2005) lo invitava al decoro perché si sarebbe presentato in servizio “con smalto colorato sulle unghie”; a tale proposito il ricorrente veniva pure diffidato dal “reiterare comportamenti uguali o similari”, sotto pena della comminazione di sanzioni disciplinari. Si tratta di un richiamo discriminatorio non solo perché (come nota la difesa attorea) lo smalto sulle unghie non poteva recare alcuna concreta offesa al decoro poiché il ricorrente quando era in servizio vestiva la divisa e doveva indossare i guanti; ma, prima ancora, perché il ricorrente era libero di colorarsi le unghie come meglio credeva, non potendo costituire tale circostanza un aspetto rilevante ai fini della valutazione delle attitudini professionali o dell’espletamento del servizio di vigile del fuoco,come si desume anche dall’ art.8 statuto dei lavoratori.
14.-Ancora; privo di giustificazione e spiegazione è rimasto nella causa il fatto che il ricorrente sia stato convocato e sottoposto, egli soltanto, in data 03.07.2006, ad una speciale visita medica presso l’ambulatorio del Comando; mentre l’accertamento della idoneità sanitaria ed attitudinale su tutti i vigili del fuoco volontari viene effettuato per norma ogni due anni presso gli ambulatori delle Ferrovie dello Stato.
15.- Pure indicativo dell’allegata discriminazione risulta il provvedimento del 18.08.2006 con cui il ricorrente nel corso del 2006 è stato sospeso temporaneamente dal richiamo, dopo aver prestato servizio per 120 giorni nel corso dello stesso anno, per asserita “evidente incompatibilità ambientale generatesi tra la s.v. e la stragrande maggioranza dei dipendenti”; questo provvedimento si caratterizza sia per la carenza di specifiche allegazioni oggettive e circostanze di natura organizzativa (che sole avrebbero potuto giustificarlo); sia per la genericità della motivazione addotta che rinvia ad “ un comportamento non del tutto consono ed in linea con le vigenti disposizioni riguardanti i pubblici dipendenti”; e che, in mancanza di altri plausibili spiegazioni, non può che essere intesa come alludente alla condizione personale di transessuale.
Per di più il medesimo provvedimento risulta viziato in relazione alla competenza, atteso che la sospensione può essere adottata solo con decreto ministeriale; e si rivela pure in contrasto con l’art. 35 co. 5 l. 521/88 (richiamato dal D.P.R. 76/04) secondo cui la sospensione del personale volontario dai richiami può aversi solo qualora il vigile Volontario “sia sottoposto a procedimento penale per reati particolarmente gravi, o per gravi motivi anche prima che sia esaurito o iniziato procedimento disciplinare”.
16.- Del tutto evidente dell’allegata discriminazione è poi la (ultima) informativa disciplinare, che il Comando Provinciale di Ravenna ha inoltrato al Ministero dell’Interno a carico dello stesso M., richiamando una nota di doglianze a firma di quattro capi turno che in modo assai sommario sollecitavano l’attenzione sul comportamento del personale volontario, in generale, senza raccontare fatti specifici e senza indicare responsabilità di precisi lavoratori.
Sulla scorta del medesimo generico esposto, effettuato dai capiturno, veniva tratta la tesi che “dal tenore della suddetta nota e dagli episodi in essa riportati si sospettava che la causa di tale malcontento fosse da rinvenirsi nel comportamento, tutt’altro che irreprensibile” del ricorrente; ciò dimostra che si trattava, in mancanza di adeguate premesse contenute nell’esposto, di una conclusione assunta nei riguardi del ricorrente in base ad un evidente pregiudizio.
Lo stesso meccanismo del pregiudizio risulta aver animato lo svolgimento dei fatti successivi. A seguito ed in ragione della suddetta informativa di natura disciplinare, con cui il Comando Provinciale di Ravenna chiedeva testualmente al Ministero di “avviare il relativo procedimento disciplinare in quanto di competenza di organo sovraordinato”, il Ministero, senza adottare nessuna procedura disciplinare, decideva invece direttamente la cancellazione dall’elenco del personale volontario del Comando Provinciale dei Vigili del Fuoco di Ravenna sostenendo nello stesso atto di averlo fatto in ragione…..della “richiesta di cancellazione presentata dal suddetto Comando” di Ravenna il 31.10.2006.
Ora secondo quanto detto sopra -e com’è ben chiaro dal contenuto della lettera del 31.10.2006 e dalla “informativa” (una sorta di avviso di garanzia imposto dalla legge in relazione all’avvio del procedimento disciplinare) comunicata a termini di legge dal Comando provinciale allo stesso M. (“a seguito di segnalazione pervenuta a questo Comando, si è provveduto ad inoltrare al Ministero dell’Interno Dipartimento Vigili del Fuoco ….. una informativa disciplinare inerente fatti o azioni che riguardano la S.V.”) – il comando dei vigili del fuoco di Ravenna aveva effettuato una informativa di natura disciplinare, che è divenuta per il Ministero “una richiesta di cancellazione presentata dal suddetto Comando”.
Si tratta di una sfasatura logico giuridico che è già di per tale da inficiare (quanto meno sotto il profilo sintomatico) la legittimità del provvedimento, il quale non risulta collegato all’atto che l’ha preceduto ed a cui dice di fare seguito.
Si tratta inoltre di una incongruenza che ha portato all’elisione dei diritti di difesa che quel primo atto sarebbero discesi per il (già “avvisato”) ricorrente in termini di garanzie sul piano procedurale: in altri termini la sequenza procedimentale è stata tale come se, ad un avviso di garanzia, facesse seguito il massimo della condanna, senza che venisse dato all’interessato il tempo di fare e dire alcunché.
La stessa sfasatura tra atto di iniziativa e provvedimento assunto, indica inoltre che la cancellazione del ricorrente sia avvenuta in realtà per motivi diversi da quelli addotti nell’atto ovvero per aspetti comportamentali che sono stati tenuti celati sotto le spoglie di una diversa motivazione (una vecchia lieve condanna penale a pena pecuniaria); e che invece avrebbero imposto (quantomeno) l’avvio di un regolare procedimento con le dovute garanzie per l’interessato, come peraltro sotteso all’iniziativa che era stata più ritualmente promossa dal Comando dei Vigili del Fuoco di Ravenna.
17.- Ma non è solo, e tanto, questa prima incongruenza a dover essere segnalata; ben maggiore è infatti quella che attiene alla sostanza che è stata posta a fondamento del decreto di cancellazione del M., adottato ai sensi dell’art. 35, comma 2lett a) della legge 521/1988 (non già ai sensi dell’art.1. comma c, come si dice nel provvedimento) secondo cui “2. Incorrono, altresì, nella radiazione, esclusa qualunque procedura disciplinare: a) coloro che hanno subito condanne penali per delitti dolosi….”
Ebbene l’unica condanna penale che aveva subito il ricorrente è una condanna ad una pena pecuniaria di Euro 968,36 per oltraggio a pubblico ufficiale (per aver detto al telefono “ mi sono rotto i c.”); condanna inflitta con un decreto penale e senza contraddittorio.
Come già scritto nel provvedimento ex art.700 cpc si tratta, ad avviso di questo giudice, di un precedente penale manifestamente non ostativo al mantenimento dell’iscrizione del ricorrente all’interno dell’elenco dei vigili del fuoco volontari, trattandosi di una condanna per un fatto che non integra più nemmeno reato procedibile d’ufficio (com’è noto da parecchi anni); e comunque per un fatto che non è obiettivamente grave, e che risale a 13 anni or sono, e che non ha impedito al ricorrente di lavorare per tutto questo tempo; un precedente perciò che di per sé non può esprimere nell’attualità una carica di disvalore tale da far perdere ad una persona la possibilità di un lavoro al quale egli si dedica da 24 anni. Diversamente, non pochi lavoratori potrebbero temere di perdere domani il posto di lavoro alle dipendenze della P.A. con gravi rischi per la certezza del diritto e della tenuta dei rapporti giuridici.
18.- A tale proposito va pure ribadito, che non può essere accolta la tesi dell’automatismo prospettata dall’Avvocatura (ed accolta in sede di reclamo dal Tribunale di Ravenna), secondo cui basterebbe una qualsiasi condanna, per qualsiasi reato doloso riportata in qualsivoglia periodo di tempo, a determinare la cancellazione dall’elenco, senza che sia necessario effettuare alcun procedimento disciplinare e senza che sia neppure possibile effettuare alcun genere di valutazione da parte della PA, la quale non potrebbe dare rilievo ad es. alla maggiore o minore gravità del reato, alla natura della pena, all’epoca della sua commissione ecc.
Sul punto si era richiamato già nel provvedimento ex art. 700 il robusto orientamento tenuto dalla Corte Costituzionale, già dalla fine degli anni ottanta, allorchè è intervenuta più volte in materia analoga per contrastare i reiterati tentativi di introdurre elementi di automaticità tra condanna penale e ricadute pregiudizievoli sul piano della tenuta del rapporto di lavoro (ad. es. sentenza 971/1988, sentenza 197/1993).
Ciò non ha mancato di aver riscontri anche all’interno della giurisprudenza di merito; ad es. il Consiglio di Stato (Sez. 4sent. 2709 del 15/05/2000) facendo seguito allo stesso orientamento del Giudice delle Leggi ha già riconosciuto che “A seguito della sentenza della Corte Costituzionale n.197 del 1993, che ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 15, comma 4 – octies Legge n.55 del 19 marzo 1990, in caso di condanna del dipendente, non importa se a seguito di dibattimento oppure di patteggiamento della pena, la pubblica amministrazione datrice di lavoro deve sempre promuovere un procedimento disciplinare teso ad accertare i fatti addebitati al dipendente, la loro incidenza sul rapporto di pubblico impiego e le eventuali giustificazioni addotte dall’interessato. In entrambi i casi, di condanna a seguito di dibattimento o di patteggiamento, devono comunque essere autonomamente accertati, nella successiva sede disciplinare, sia il riflesso negativo dei fatti commessi dal dipendente sulla prosecuzione del rapporto d’impiego, sia la proporzionalità degli stessi alla sanzione eventualmente da irrogare.
Neppure poteva essere obiettato che qui si tratta di vicende diverse; perché lo stesso automatismo investirebbe non già il rapporto di lavoro di un dipendente bensì la posizione soggettiva di chi è semplicemente iscritto ad una lista da cui può solo aspirare di accedere ad un lavoro con la P.A. Anche a tale proposito è possibile richiamare il puntuale orientamento contrario già assunto dal Consiglio di Stato ( sentenza n.1031 del 20/06/1994) in base al quale “È illegittimo il provvedimento di decadenza dalla nomina di un aspirante all’impiego, motivato con il mero accertamento di una condanna per uno dei reati previsti dall’art.85 del T.u. 10 gennaio 1957 n.3, intervenuta anteriormente all’assunzione all’impiego, occorrendo che la P.A. valuti, con proprio autonomo apprezzamento, la gravità dei fatti commessi e consideri se i fatti, rilevanti ai fini penali, lo siano parimenti ai fini dell’accesso al pubblico impiego”.
19. Dinanzi a queste considerazioni, già svolte in sede di urgenza, il giudice del reclamo ha obiettato che “il tenore letterale della norma fosse talmente chiaro ed inequivocabile da non consentire alcuna interpretazione, neppure costituzionalmente orientata diversa da quella prospetta dal Ministero nel senso dell’obbligatorietà e dell’automaticità del provvedimento di cancellazione in presenza di una condanna penale per qualsiasi delitto doloso, anche se non più perseguibile d’ufficio”.
Si tratta di considerazioni che risultano in contrasto con i principi di ragionevolezza e di coerenza desumibili dall’art.3 della Costituzione, oltre che intrinsecamente ingiuste, come sempre accade quando non si ha si cura di rapportare l’entità di determinate conseguenze sanzionatorie alla reale entità dei fatti, precludendosi qualsivoglia valutazione e gradualità; talchè la più grave delle conseguenze irrogabili sul piano del rapporto di lavoro potrebbe discendere, secondo la tesi qui disattesa, indifferentemente da una ingiuria e da una strage, da un fatto commesso 20 anni prima e da un fatto commesso immediatamente prima, da un fatto che rilevi rispetto al rapporto di lavoro e da un fatto che non abbia alcun connessione con le mansioni nel rapporto.
Per confutare le medesime considerazioni è sufficiente riportarsi, questa volta testualmente, a quanto osservato dalla Corte Costituzionale sull’incompatibilità del meccanismo dell’automaticità in discorso con alcuni principi fondamentali dell’ordinamento: “ Già nella sentenza n. 270 del 1986, questa Corte – pur pervenendo allora ad una pronuncia di inammissibilità della questione per la ritenuta spettanza al legislatore delle scelte relative ai possibili rimedi – ebbe modo di affermare che anche nel campo della potestà disciplinare, come nell’area punitiva penale, sussiste l’esigenza della esclusione di sanzioni rigide, cioè della “adozione di criteri normativi idonei alla commisurazione delle misure sanzionatorie conseguenti alla irrevocabile condanna penale”, e ciò “quale esigenza – ex art. 3 della Costituzione – di adeguatezza tra illecito e irroganda sanzione”.
Con la successiva menzionata sentenza n. 971 del 1988 la Corte addivenne alla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 85, lett. a), del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 – nella parte in cui non prevedeva, in luogo del provvedimento di destituzione di diritto, l’apertura e lo svolgimento del procedimento disciplinare -, nonché di altre disposizioni di analogo contenuto ex art. 27 della legge n. 87 del 1953, osservando che “l’indispensabile gradualità sanzionatoria, ivi compresa la misura massima destitutoria, importa … che le valutazioni relative siano ricondotte, ognora, alla naturale sede di valutazione: il procedimento disciplinare, in difetto di che ogni relativa norma risulta incoerente, per il suo automatismo, e conseguentemente irrazionale ex art. 3 della Costituzione”. A tale decisione hanno fatto seguito ulteriori pronunce dello stesso segno in ordine ad analoghe fattispecie di destituzione de iure relative ad altre categorie di impiegati o di professionisti (sentt. nn. 40 e 158 del 1990, 16 del 1991), nelle quali si è costantemente ribadito che il profilo essenziale di contrasto con l’art. 3 della Costituzione consisteva nell’automatismo della massima sanzione disciplinare, prevista, senza alcuna distinzione, per una molteplicità di possibili comportamenti, con conseguente offesa del “principio di proporzione” che è alla base della razionalità che domina il principio di eguaglianza, e che postula sempre l’adeguatezza della sanzione al caso concreto.3.
Il surriferito costante orientamento di questa Corte non può non condurre ad identica conclusione anche in ordine alla normativa ora in esame”.
20.-Ma nel caso di specie vi è ancora di più, in quanto la contrarietà al diritto del provvedimento assunto dal Ministero, risulta – come pure era stato scritto in sede di urgenza – a prescindere dalla stessa necessità di attivare un autonoma valutazione disciplinare (su cui si fonda le proprie conclusioni la giurisprudenza costituzionale); perché la tesi secondo cui la PA sarebbe vincolata ad assumere il provvedimento di cancellazione sempre e comunque in presenza di qualsiasi genere di condanna penale ed a qualsiasi distanza di tempo dalla sua pronuncia, contraddice, ad avviso di chi scrive, principi fondamentali che attengono allo stesso agire generale della PA; essendo noto che esso non ha mai per iscopo l’astratto ripristino della legalità, bensì semmai la ponderata valutazione degli interessi rapportati alla situazione concreta ed all’attualità; ponderazione che è vieppiù necessaria quando la stessa azione della PA confina e si interseca con il diritto al lavoro esplicandosi ai margini del diritto privato del lavoro, terreno contrassegnato da speciali limiti e da principi cogenti di tutela a favore della persona che lavora; diversamente i cittadini rimarrebbero in balia delle determinazioni della PA per tempo illimitato con grave danno per la certezza del diritto e della tenuta stessa dei rapporti giuridici.
21.- Alla fine deve ammettersi che anche l’ultimo provvedimento assunto nei riguardi del ricorrente, non solo non ha parvenza di legalità (né formale né sostanziale), ma equivale alla classica foglia di fico che non può servire a nascondere la realtà dei motivi per i quali si è proceduto alla radiazione del ricorrente; motivi reali che si evincono dalla complessiva valutazione di tutto il comportamento tenuto nei confronti del ricorrente, per come fin qui ricostruito e di tutto ciò che risulta inoltre dagli atti. Basterebbe ricordare che, come osservato in sede di urgenza, il provvedimento notificato al ricorrente nel gennaio del 2007 faceva seguito ad innumerevoli segnalazioni, note e richieste rivolte al Ministero dell’Interno dal Comando Vigili del Fuoco di Ravenna per asserite ragioni riferite, di volta in volta, all’”affidabilità del soggetto”, ai “problemi creati per la propria e altrui sicurezza”, all’ostracismo dei “compagni di lavoro”, alla “mancanza di fiducia del personale”, a “comportamento non consono”, a “mancanza di senso dell’onore” e “di senso morale”, “ad incompatibilità ambientale”, ad “uso non appropriato della divisa”; a “curriculum non esaltante”, “evidente stato di ebbrezza”, “maniere indisponenti”, “comportamento non in linea con le vigenti disposizioni riguardanti i pubblici dipendenti” ovvero “tutt’altro che irreprensibile”; ad “atteggiamenti che per nulla si possono ritenere rispettosi dell’immagine del Corpo”; ecc..
Senza però che alle suddette valutazioni e disapprovazioni, giudizi ed allusioni abbia mai fatto seguito una contestazione (una) di fatti che facessero riferimento a comportamenti censurabili ascrivibili al ricorrente e rilevanti all’interno del rapporto di lavoro; anzi, gli unici procedimenti disciplinari promossi nei riguardi del ricorrente nel 2005 per una vicenda relativa alla “modalità di fruizione di un buono pasto” ed all’“uso improprio di mezzo di servizio” si soni conclusi con “l’archiviazione del procedimento disciplinare” disposta dal comandante del Corpo “per insussistenza di comportamenti contrari al regolamento di disciplina”.
22.- La difesa della amministrazione convenuta mentre non ha obiettato nulla rispetto a tutto il quadro della complessa vicenda dedotta in giudizio dal ricorrente, quale risulta per via documentale; rispetto alla sola delibera di cancellazione del ricorrente dagli elenchi, ha replicato che la PA si sarebbe comportata nello stesso modo nei confronti di qualsiasi dipendente; mentre in realtà risulta in questo giudizio che solo il ricorrente venne sottoposto ad un controllo esterno in relazione al proprio comportamento e solo nei riguardi del ricorrente risulta effettuata una richiesta di informazioni al Comando provinciale dei Carabinieri di Ravenna in relazione alla propria condotta di vita. D’altra parteche i reali motivi dell’ostracismo adottato nei confronti del ricorrente siano dipesi dal suo comportamento, sotto il profilo sessuale, risulta esplicitamente dalle dichiarazioni rilasciate alla stampa, prodotte in atti ed in nessun modo contraddette in questo giudizio (v. ad es. doc 39, in cui il responsabile del comando sostiene che “i suoi comportamenti come arrivare in caserma vestito da donna creavano problemi, che dovevo risolvere ”).
23.- Va infine avvertito che non si vuole (ovviamente) porre qui in discussione la necessità per chi aspira a ricoprire posti in settori della PA, peculiari per le finalità istituzionali alle quali sono preposti, di comportarsi in modo adeguato e di dover possedere qualità morali e comportamentali, che possono essere richieste all’aspirante pubblico dipendente, nel rispetto della vita privata e senza alcun riferimento all’orientamento sessuale delle persone, pur prescindendo da qualsivoglia concezione formale del c.d. prestigio della PA.
Quello che qui si contesta è che la mancanza dei pur necessari requisiti morali e di condotta possa essere desunta dall’orientamento sessuale di una persona oppure possa farsi valere per assiomatica deduzione da una condanna penale per un fatto lieve avulso dall’attività di lavoro, che non spiega riflessi sul rapporto e che rilevi ora per allora, dopo 13 anni dalla sua pronuncia e nell’ambito di un rapporto che perdura da 24 anni.
Va ribadito piuttosto che nel diritto la forma è sostanza, soprattutto quando si tratta di esercitare poteri autoritativi in relazione al diritto al lavoro, alla dignità di ogni essere umano ed alla uguaglianza di tutti rispetto ai beni fondamentali della vita.
IV. – Il risarcimento dei danni e la rimozione degli effetti
24.- Per quanto concerne i poteri d’intervento del giudice ordinariosul comportamento o sull’atto della PA che costituisca discriminazione, l’ordinamento mira ad assicurare una piena ed esaustiva tutela dei diritti fondamentali lesi, prevedendo l’ordine di cessazione del comportamento e la rimozione dell’atto discriminatorio e dei suoi effetti. Perciò l’art. 4, 5 comma del dlgs. 276/2003 stabilisce che il giudice, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale, ordini la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio, ove ancora sussistente, nonché la rimozione degli effetti. Ciò consente di riconoscere al giudice il potere di annullare e rimuovere anche l’atto amministrativo che sia fonte di discriminazione;d’altra parte come ha affermato più volte la Corte Cost. (ord. 140/2001; sentenza 27572001) non esiste un principio costituzionale che vieti al legislatore di attribuire al g.o. anche il potere di annullamento dell’atto. Nel caso in esame peraltro manca un petitum perfettamente corrispondente a tale schema di tutela, essendosi il ricorrente limitato a chiedere la rimozione degli effetti, senza chiedere la rimozione degli atti ed avendo anzi espressamente contenuto l’intervento sull’atto alla sua disapplicazione.
In aderenza alla domanda svolta deve perciò dichiararsi, che il provvedimento di cancellazione del 2007, come il mancato richiamo del 2004 e la sospensione del 2006, si rivelano illegittimi e vanno quindi disapplicati nella soluzione della controversia; va comunque ordinata la rimozione degli effetti dei medesimi atti illegittimi e ne consegue che deve considerarsi come se il ricorrente non sia stato mai cancellato o sospeso dagli elenchi dei vigili volontari, ai diversi effetti in cui questo dovesse valere per il passato ed in primis per il futuro ai fini del suo richiamo in servizio, secondo i criteri stabiliti dalla normativa in vigore, come avvenuto negli anni precedenti, ed in condizioni di parità rispetto agli altri iscritti.
25.- Per quanto concerne il risarcimento del danno, essendo pacifico e non contestato che il ricorrente fosse, per anzianità ed esperienza, il primo della lista; e che richiami di vigili volontari siano stati effettuati ogni anno presso il Comando dei Vigili del fuoco di Ravenna; il ricorrente ha diritto al pagamento di tutte le retribuzioni che non ha potuto ottenere per mancanza di richiami nel 2004, per illegittima sospensione nel 2006, per illegittima cancellazione negli anni 2007 e 2008. Secondo i conteggi specifici effettuati in ricorso, il ricorrente avrebbe potuto lavorare per un massimo di 160 giorni lavorativiall’anno (d’altra parte stando agli ultimi anni il ricorrente aveva sempre raggiunto il tetto massimo) pari ad 8 richiami all’anno per una retribuzione complessiva di € 1282,50 a richiamo (20 giorni), correttamente determinata tenendo conto della retribuzione base, del rateo di tredicesima, dell’indennità di rischio e di turno.
Ne consegueche il ricorrente ha diritto alla somma complessiva di € 33345,00 avendo maturato il seguente credito: € 10260 nel 2004 (8 omessi richiami), € 2565 per il 2006 (2 omessi richiami), € 10260 nel 2007 (8 omessi richiami), € 10260 nel 2008 (8 omessi richiami) per complessivi € 33345,00.
Non può invece accogliersi la richiesta avanzata dallo stesso ricorrente di ottenere il risarcimento del danno patrimoniale futuro (per altri sette anni) fino all’età massima di anni 57 prevista per poter operare come vigile volontario, atteso che a seguito del provvedimento assunto all’esito di questo giudizio il ricorrente ha invece diritto a lavorare in condizioni di parità con gli altri lavoratori, talchè il danno futuro rivendicato non esiste neppure. Del pari non può essere riconosciuto il risarcimento del danno morale ed esistenziale per la genericità della richiesta e la mancanza dei presupposti.
Le spese del procedimento seguono la soccombenza come da dispositivo.
P.Q. M.
Visto l’art. 429 c.p.c. e definitivamente pronunciando sulla domanda ogni diversa domanda, eccezione od istanza disattesa, così decide:
Considerata l’illegittimità del decreto di cancellazione del M. dall’elenco del personale volontario del Comando Provinciale del Fuoco di Ravenna, ne ordina la rimozione degli effetti anche ai sensi dell’art. 4 del d.lgs 216/2003 e condanna il Ministero convenuto al risarcimento dei danni subiti dal ricorrente pari alle retribuzioni non percepite fino alla data odierna computati in complessivi Euro 33.345,00 oltre rivalutazione ed interessi legali nonchè alla rifusione delle spese processuali liquidate in complessivi Euro 3.000 di cui 2.000 per onorari oltre I.V.A. e C.P.A.
Ravenna, 03.02.2009
Il Cancelliere Il Giudice del Lavoro
dott. Roberto RIVERSO
Depositato in Cancelleria il …………………………
Il Cancelliere