Discriminazione basata sull’età, Corte di Appello di Milano, Sentenza del 15.4.2014

Repubblica Italiana

In nome del Popolo Italiano

La Corte di Appello di Milano, sezione lavoro, composta da Dott.ssa Laura Curcio – presidente Dott.ssa Carla Bianchini – consigliere rel Dott.ssa Angela Cincotti – consigliere ha pronunciato la seguente

SENTENZA

B.A.

Avv.ti Alberto Guariso e Maria Cristina Romano

contro

A&F. ITALIA srl

Avv.ti Massimiliano Biolchini, Antonio Luigi Vicoli, Cristina Padovan

Conclusioni per B

Voglia la Corte d’Appello

in totale riforma della sentenza impugnata, disattesa ogni contraria istanza ed eccezione,

  1. a) accertare e dichiarare la natura discriminatoria del comportamento tenuto dalla convenuta e consistente (secondo le varie ipotesi prospettate in ricorso in via gradata) nell’aver assunto il ricorrente con contratto di lavoro intermittente in forza della sua sola età anagrafica e/o del averlo assunto in forza della sua età per lo svolgimento di mansioni non intermittenti né discontinue, e o nel averlo licenziato a causa del compimento del 25º anno di età e/o nell’aver risolto rapporto di lavoro intermittente prima delle 18/7/13 a causa del compimento del 25º anno di età;
  2. b) ordinare a A. F. Italia srl di cessare il comportamento discriminatorio e di rimuovere degli effetti e pertanto a tale titolo

in via principale

  1. c) accertare e dichiarare che tra le parti è intercorso un rapporto di lavoro subordinato ordinario a tempo indeterminato e a tempo pieno a decorrere dalla 14/12/10 o dalla diversa data ritenuta di giustizia con il diritto della ricorrente all’inquadramento al 6° livello del C.C.N.L. commercio;
  2. d) accertare e dichiarare la nullità e/o inefficacia e comunque annullare il licenziamento

intimato al ricorrente e comunque la sua estromissione dal posto di lavoro;

  1. e) condannare la convenuta, ex art. 18 S.L. o in subordine quale sanzione di diritto comune e in ogni caso a titolo di rimozione degli effetti della discriminazione, a reintegrare (o in subordine a riammettere, per effetto della permanenza del vincolo contrattuale) e la ricorrente nel posto di lavoro a pagare un importo pari alle retribuzioni globale di fatto maturate dalla data dell’illegittimo licenziamento fino alla reintegra, sulla base dell’importo mensile di € 1532,00 o di diversi importo di giustizia;

in via subordinata, in ipotesi di legittimità del contratto di lavoro intermittente

  1. f) accertare e dichiarare l’illegittimità della estromissione del ricorrente dal posto di lavoro ed il diritto alla prosecuzione del rapporto;
  2. g) condannare la convenuta a riammettere il ricorrente nel posto precedentemente occupato e a pagare alla ricorrente, in forza della permanenza del vincolo contrattuale o in subordine titolo di risarcimento danno, le retribuzioni maturate a decorrere dalla sua estromissione (o in subordine dalla messa in mora) fino alla riammissione sulla base dell’importo mensile di € 727,00 o nella diversa misura di giustizia, ovvero in ulteriore ed estremo subordine condannare la convenuta pagare al titolo di risarcimento del danno la sola somma di € 8724,00.

Con rivalutazione monetaria ed interessi legali sui capi di condanna.

Con vittoria di spese diritti ed onorari da distrarsi a favore dei sottoscritti procuratori.

 

Conclusioni per A. & F. Italia S.r.l.,

Voglia l’Ill.ma Corte d’Appello adita, contrariis rejectis e premessa ogni più opportuna statuizione:

in via preliminare processuale:

– dichiarare l’improcedibilità e/o l’inammissibilità del ricorso con riguardo alle domande di cui ai punti c), d), e), f) e g) e con ciò confermare l’appellata ordinanza resa dal Tribunale di Milano, Sezione Lavoro, Dott. Rossano Taraborrelli del 15.5.2013;

in via principale e nel merito:

– rigettare integralmente le domande formulate dall’Appellate perché del tutto infondate in fatto ed in diritto per tutti gli argomenti sopra esposti e con ciò confermare l’appellata ordinanza resa dal Tribunale di Milano, Sezione Lavoro, Dott. Rossano Taraborrelli del 15.5.2013;

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con ordinanza del 15/5/13 il giudice del lavoro del Tribunale di Milano dichiarava la improponibilità delle domande avanzate da B. in ordine alla nullità e/o inefficacia del licenziamento con conseguente condanna della società alle conseguenze di cui all’art. 18 St. Lav. o comunque alla riammissione in servizio con il risarcimento del danno e respingeva le domande dirette ad accertare e dichiarare la natura discriminatoria del comportamento tenuto dalla società e la sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato ordinario a tempo indeterminato.

B era assunto dalla società convenuta il 14/12/10 con “contratto a chiamata a tempo determinato” di iniziali quattro mesi e poi prorogato fino al 10/12/11 ex art. 33 D. Lgs. 276/03 con inquadramento al 6° liv. C.C.N.L. Commercio in relazione al fatto che alla data di assunzione aveva meno di 25 anni ed era disoccupato; dal 1/1/12 il contratto cd. “intermittente” era convertito a tempo indeterminato senza specificazione di alcuna delle ipotesi legittimanti di cui al D. Lgs cit.; terminato in data 26/7/12 il piano di lavoro, non veniva più inserito nella programmazione successiva e rimaneva in attesa di convocazione; a seguito di scambi di e-mail gli veniva comunicato che, avendo egli compiuto 25 anni ed essendo venuto meno in tal modo il requisito soggettivo dell’età, il rapporto di lavoro era da considerarsi cessato alla suddetta data.

Il giudice di primo grado rilevava la improponibilità delle domande sopra indicate in quanto l’art.4 D.Lgs 216/03 a suo avviso era stato implicitamente abrogato per la materia del licenziamento discriminatorio con la conseguenza che qualora venga dedotto un atto o un comportamento discriminatorio costituito da un licenziamento l’unico strumento utilizzabile è costituito dal rito speciale di cui all’art. 1 co. 48-68 L. 92/12.

In ordine ai capi relativi alla declaratoria del carattere discriminatorio del comportamento aziendale, ne rilevava l’insussistenza atteso che per la categoria di prestatori di età inferiore ai 25 anni o superiore ai 45 anni non era prevista esclusivamente quella tipologia contrattuale e che comunque l’art. 4 bis D. Lgs 216/03 attuativo della direttiva 2000/78 CE fa salve le disposizioni che prevedono trattamenti differenziati in ragione dell’età con fissazione di condizioni minime e massime di età ed in ragione di finalità legittime oggettivamente e ragionevolmente giustificate, ragioni ravvisabili nel caso di specie dall’attuale difficile situazione del mercato del lavoro.

Lamenta l’appellante l’erroneità dell’ordinanza nella parte in cui ha dichiarato la improponibilità delle domande posto che la L. 92/12 non ha inteso abrogare la disciplina prevista in materia di discriminazione quando questa attiene a un licenziamento ed osserva che comunque l’art. 18 St. Lav. era invocato non “in quanto tale” ma quale sanzione idonea a rimuovere integralmente ed effettivamente la discriminazione potendo comunque il giudice adottare anche altre e diverse statuizioni senza che tuttavia ciò andasse ad incidere sulla procedura di cui il ricorrente si era avvalso. Ricorda peraltro che secondo l’art. 4 D. Lgs 150/11 “quando una controversia viene promossa in forme diverse da quelle previste dal presente decreto il giudice dispone il mutamento del rito con ordinanza” per cui il giudice avrebbe dovuto procedere alla trasformazione del rito senza dover pervenire ad una dichiarazione di improponibilità.

L’appellante lamenta quindi l’erroneità dell’ordinanza nella parte in cui esclude il carattere discriminatorio della condotta aziendale stante la violazione dell’art. 6 della direttiva CE 2000/78 e dell’art. 3 D. Lgs 216/03. Invero riservare l’applicazione di un contratto di lavoro pregiudizievole ad una categoria di lavoratori individuati sulla base del solo requisito dell’età, non essendo previste altre specifiche condizioni, costituisce un mezzo sproporzionato al perseguimento dell’obiettivo di favorire l’occupazione giovanile venendo a violare il principio di parità di trattamento.

Rileva infine che nel caso di specie l’attività svolta dal ricorrente non aveva avuto alcuna caratteristica di discontinuità o intermittenza, requisiti che a suo avviso sono richiesti anche dal co. 2 dell’art. 34 D. Lgs 276/03.

L’appellata ha resistito chiedendo la conferma dell’ordinanza impugnata.

All’udienza del 15.4.14 la causa è stata decisa come da dispositivo.

Va accolto il primo motivo di appello non condividendo la Corte le valutazioni svolte dal primo giudice in ordine alla improponibilità delle domande relative alla nullità/inefficacia del licenziamento.

Il ricorrente ha promosso un’azione di discriminazione ai sensi dell’art. 28 D. Lgs 150/11 secondo il quale “le controversie in materia di discriminazione di cui … all’ articolo 4 deldecreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216 … sono regolate dal rito sommario di cognizione, ove non diversamente disposto dal presente articolo”.

La domanda principale era diretta all’accertamento del comportamento discriminatorio della società la cui conseguenza, in caso di accoglimento, era la rimozione degli effetti di tale discriminazione; effetti che non potevano che comportare la dichiarazione di nullità del licenziamento con applicazione delle conseguenze previste dall’art. 18 St. Lav. ovvero di quelle previste dal diritto comune della rimessione in servizio.

In questo contesto pertanto la domanda diretta ad ottenere la nullità/inefficacia del licenziamento non può essere qualificata come “domanda avente per oggetto l’impugnazione del licenziamento nelle ipotesi regolate dall’art. 18 St. Lav.” così come richiesto dalla L. 92/12 per l’applicazione del rito sommario ivi previsto, non essendo essa proposta in via autonoma ma come mera conseguenza di un previo accertamento, ossia come misura diretta a rimuovere la situazione illecita.

La situazione invero è del tutto similare a quella che si presenta in caso di azione per comportamento antisindacale determinato dal licenziamento di un determinato lavoratore ove la rimozione di tale antisindacabilità non può che essere ottenuta attraverso la riammissione in servizio del lavoratore licenziato.

La riforma Fornero pertanto non ha comportato un diverso assetto processuale sostituendo ed assorbendo, con riguardo al tema della discriminazione nei casi di licenziamento, il rito sommario regolato dal D. Lgs 150/11 il quale continua a mantenere una piena efficacia e validità per i casi di discriminazione in essi elencati.

A ciò va aggiunto che l’art. 18 St. Lav., così come modificato dalla L. 92/12, fa riferimento non a tutte le ipotesi di licenziamento discriminatorio ma solo a quelle in esso indicate (recesso intimato in violazione dell’art. 3 L. 108/90; in concomitanza col matrimonio, in violazione della normativa posta a tutela della maternità; per motivo illecito determinante ai sensi dell’art. 1345 cc) e non include alcun richiamo al D. Lgs 216/03 attuativo della direttiva 2000/78 CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.

Tutte le domande avanzate erano pertanto proponibili.

Sul comportamento discriminatorio.

L’art. 34 D.Lgs 276/03 in vigore all’epoca in cui era assunto B. così recitava: “Il contratto di lavoro intermittente può essere concluso per lo svolgimento di prestazioni di carattere discontinuo o intermittente secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero per il periodo predeterminati nell’arco della settimana, del mese o dell’anno ai sensi dell’articolo 37.

Il contratto di lavoro intermittente può in ogni caso essere concluso con riferimento a prestazioni rese da soggetti con meno di 25 anni di età ovvero da lavoratori con più di 45 anni di età anche pensionati.…”

Va chiarito che la norma in oggetto, che nella sua formulazione originaria al co. 2 prevedeva che il contratto di lavoro intermittente potesse essere concluso anche per le prestazioni rese da soggetti in stato di disoccupazione con meno di 25 anni di età ovvero da lavoratori con più di 45 anni di età espulsi dal ciclo produttivo o iscritti alle liste di mobilità e di collocamento, veniva abrogata dall’art. 1 co. 45 L. 247/07; era quindi ripristinata dal DL 112/08 conv. in L. 133/08 con la formulazione sopra riportata ed era poi parzialmente modificata dalla L. 92/12.

Allorquando B. era assunto (14/12/10) pertanto l’unico requisito richiesto per il contratto intermittente era rappresentato dall’età anagrafica (meno di 25 o più di 45). La società invero nel contratto di assunzione richiamava in maniera esplicita l’art. 34 co. 2 con riferimento al fatto che in quel momento il ricorrente aveva meno di 25 anni.

La disposizione di legge in questione, così come reintrodotta dal legislatore, non contempla altri requisiti: non è richiesto che il giovane sia disoccupato da un certo tempo, che sia in cerca di prima occupazione, che sia in mobilità, che sia privo di formazione professionale etc.

La direttiva 2000/78 CE al punto 25 delle premesse rileva che il divieto di discriminazione basata sull’età costituisce un elemento essenziale per il perseguimento degli obiettivi definiti negli orientamenti in materia di occupazione e la promozione della diversità nell’occupazione ma che tuttavia in talune circostanze, delle disparità di trattamento in funzione dell’età possono essere giustificate richiedendo disposizioni specifiche che possono variare a seconda della situazione degli Stati membri. Precisa quindi che è essenziale distinguere tra le disparità di trattamento che sono giustificate, in particolare, da obiettivi legittimi di politica dell’occupazione, mercato del lavoro e formazione professionale, e le discriminazioni che devono essere vietate.

All’art. 6 prevede pertanto che “Fatto salvo l’articolo 2, paragrafo 2, gli Stati membri possono prevedere che le disparità di trattamento in ragione dell’età non costituiscano discriminazione laddove esse siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate, nell’ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari. Tali disparità di trattamento possono comprendere in particolare:

  1. a) la definizione di condizioni speciali di accesso all’occupazione e alla formazione professionale, di occupazione e di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e di retribuzione, per i giovani, i lavoratori anziani e i lavoratori con persone a carico, onde favorire l’inserimento professionale o assicurare la protezione degli stessi;
  2. b) la fissazione di condizioni minime di età, di esperienza professionale o di anzianità di lavoro per l’accesso all’occupazione o a taluni vantaggi connessi all’occupazione;
  3. c) la fissazione di un’età massima per l’assunzione basata sulle condizioni di formazione richieste per il lavoro in questione o la necessità di un ragionevole periodo di lavoro prima del pensionamento…”

La Corte di Giustizia con la sentenza Mangold (22.5.05 causa C-144/04), nella quale era trattata la questione di un contratto a termine acausale applicabile ai soli lavoratori che avevano compiuto una certa età, ha osservato che ciascuno stato membro poteva certamente predisporre un contratto divergente da quello ordinario a tempo indeterminato per la presenza di profili svantaggiosi per il lavoratore al fine di perseguire l’obiettivo di favorire l’occupazione di soggetti con difficoltà di accesso al lavoro purché però lo strumento utilizzato non fosse sproporzionato rispetto alla finalità da realizzare essendo basato sull’esclusivo requisito dell’età.

La Corte in particolare ha osservato che “una siffatta normativa, nella misura in cui considera l’età del lavoratore di cui trattasi come unico criterio di applicazione di un contratto di lavoro a tempo determinato, senza che sia stato dimostrato che la fissazione di un limite di età, in quanto tale, indipendentemente da ogni altra considerazione legata alla struttura del mercato del lavoro di cui trattasi e dalla situazione personale dell’interessato, sia obiettivamente necessaria per la realizzazione dell’obiettivo dell’inserimento professionale dei lavoratori anziani in disoccupazione, deve considerarsi eccedente in quanto è appropriato e necessario per raggiungere la finalità perseguita. Il rispetto del principio di proporzionalità richiede infatti che qualsiasi deroga ad un diritto individuale prescriva di conciliare, per quanto possibile, il principio di parità di trattamento con l’esigenza del fine perseguito (v., in questo senso, sentenza 19 marzo 2002, causa C 476/99, Lommers, Racc. pag. I 2891, punto 39). Una siffatta normativa nazionale non può pertanto giustificarsi ai sensi dell’art. 6, n. 1, della direttiva 2000/78.”

Ha affermato altresì la Corte che il principio di non discriminazione in ragione dell’età deve essere considerato un principio generale del diritto comunitario e che è compito del giudice nazionale, chiamato a dirimere una controversia tra privati che mette in discussione il principio di non discriminazione in ragione dell’età, assicurare, nell’ambito della sua competenza, la tutela giuridica che il diritto comunitario attribuisce ai singoli, garantendone la piena efficacia e disapplicando le disposizioni eventualmente confliggenti della legge nazionale (v., in questo senso, sentenze 9 marzo 1978, causa 106/77, Simmenthal, Racc., pag. 629, punto 21, e 5 marzo 1998, causa C 347/96, Solred, Racc. pag. I 937, punto 30) se i mezzi apprestati per conseguire siffatta finalità legittima siano «appropriati e necessari».

Analoghi principi sono stati ribaditi nella sentenza Kucukdeveci del 19.1.10 (causa C-555/07), secondo la quale la necessità di garantire piena efficacia al principio di non discriminazione in base all’età, quale espresso concretamente nella direttiva 2000/78, comporta che il giudice nazionale, in presenza di una norma nazionale, rientrante nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione, che ritenga incompatibile con tale principio e per la quale risulti impossibile un’interpretazione conforme a quest’ultimo, deve disapplicare detta disposizione, senza che gli sia imposto né gli sia vietato di sottoporre alla Corte una domanda di pronuncia pregiudiziale.

Nelle due sentenze citate pertanto la Corte di Giustizia legge i divieti specifici di discriminazione sanciti dal nuovo diritto antidiscriminatorio come espressione di un principio generale di eguaglianza che è da considerare un principio generale del diritto comunitario e che trova la sua fonte già in vari strumenti internazionali e nelle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri. Ciò emerge dalla sentenza Mangold, ma è ancora più pregnante nella sentenza Kucukdeveci ove, affermando che il divieto di discriminazione in ragione dell’età deve essere considerato un principio generale del diritto dell’Unione, a cui la direttiva n.78/2000 dà espressione concreta, la Corte richiama l’art.6 n.1 TUE e l’indicazione in esso contenuto della Carta di Nizza, ricordando che ha lo stesso valore giuridico dei Trattati (pur con le precisazioni indicate dell’art.6) e che all’art.21 vieta le discriminazioni in ragione dell’età.

La Corte di Giustizia sembra dire quindi che il divieto di discriminazione, in quanto specificazione di un principio di eguaglianza che esiste indipendentemente dalle direttive, vive di una vita propria, che prescinde dai comportamenti attuativi o omissivi degli Stati membri, e prescinde anche dall’assetto presente e futuro delle competenze. Dalla natura precisa e incondizionata di tale principio, discende la conseguenza che anche le specificazioni del principio stesso possono spiegare i propri effetti su tutti i consociati ed essere dunque invocate dai privati verso lo Stato e dai privati verso altri privati.

La Corte di Giustizia ha infine evidenziato come l’art. 6 della direttiva 2000/78 imponga, per rendere accettabile un trattamento differenziato sulla base dell’età, due precisi requisiti dettati dalla finalità legittima e dalla proporzionalità e necessità dei mezzi utilizzati per il perseguimento degli obiettivi, principi peraltro richiamati anche dall’art. 4 ter D. Lgs 216/03 attuativo della direttiva in questione.

Detti requisiti tuttavia non appaiono rinvenibili nella disciplina predisposta dal legislatore nazionale il quale si è limitato a introdurre un trattamento differenziato che trova fondamento esclusivamente sull’età senza alcuna altra specificazione non avendo richiamato alcuna ulteriore condizione soggettiva del lavoratore (disoccupazione protratta da un certo tempo o assenza di formazione professionale per esempio) e non avendo esplicitamente finalizzato tale scelta ad alcun obiettivo individuabile.

Né possono valere in tale contesto mere valutazioni o interpretazioni personali circa la probabile o possibile intenzione del legislatore di voler agevolare l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro.

Il mero requisito dell’età pertanto non può giustificare l’applicazione di un contratto pacificamente più pregiudizievole, per le condizioni che lo regolano, di un ordinario contratto a tempo indeterminato e la discriminazione che si determina rispetto a coloro che hanno superato di 25 anni non trova alcuna ragionevole ed obiettiva motivazione.

Analogamente nessuna ragionevole giustificazione è ravvisabile nel fatto che, per il solo compimento del 25°anno, il contratto debba essere risolto.

Si consideri altresì il fatto che per coloro che hanno meno di 25 non è neppure previsto che si tratti di contratti conclusi per lo svolgimento di prestazioni discontinue o intermittenti secondo le esigenze individuate dalla contrattazione collettive così come regolato dal co. 1 dell’art 34; diversità di trattamento che anche sotto tale aspetto non trova alcuna valida e ragionevole comprensione.

Alla luce di quanto esposto emerge con evidenza il contrasto tra quanto disposto dal co. 2 dell’art. 34 D.Lgs 276/03 ed i principi affermati dalla direttiva 2000/76 la cui efficacia diretta non può essere messa in discussione essendo essa espressione di un principio generale dell’Unione Europea.

Ritenuto pertanto, alla luce di quanto fin qui esposto, il contenuto discriminatorio della norma in esame, va censurato il comportamento della società appellata che ha proceduto all’assunzione di B con un contratto intermittente esclusivamente sulla base della sua età anagrafica.

Il D. Lgs 216/03 all’art. 2 afferma che per parità di trattamento si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell’età o dell’orientamento sessuale e che ricorre discriminazione indiretta quando “una disposizione, un criterio, una prassi, un atto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età ….in una situazione di particolare svantaggio rispetto alle altre persone” .

Quanto infine alla considerazione che non si potrebbe parlare di comportamento discriminatorio in quanto la società si sarebbe limitata ad applicare una disposizione di legge vigente e che tale comportamento sarebbe pertanto privo di quei caratteri di intenzionalità e volontà lesiva, la stessa appare ininfluente.

Il legislatore configurando anche le ipotesi di discriminazione indiretta ha infatti voluto far riferimento a quei comportamenti che per quanto privi da parte del soggetto agente di un intento discriminatorio vengono comunque ad assumere tale connotato. L’elemento soggettivo non ha pertanto alcuna valenza, così come analogamente è stato affermato in relazione al contenuto antisindacale di un comportamento, atteso che ciò che rileva è l’esito finale costituito dall’obiettiva condizione di trattamento disuguale sulla base esclusivamente dell’essere o meno cittadini.

Conseguentemente A. F. Italia srl va condannata a rimuovere gli effetti della sua condotta discriminatoria e, ritenuto che tra le parti è insorto di fatto un ordinario rapporto di lavoro a tempo indeterminato con inquadramento al 6° liv. CCNL Commercio e con orario part time (sulla base della descrizione delle modalità lavorative esposte in atti da entrambe le parti) e che tale rapporto non è mai stato validamente risolto, a riammettere B. nel posto di lavoro ed a risarcirgli il danno nella misura di 14.540,00 oltre interessi e rivalutazione dalla data della sentenza al saldo. Il danno viene così determinato tenendo conto della retribuzione media mensile percepita nel corso del rapporto ammontante a € 727,00 (non contestata) da agosto 2012 alla data della sentenza.

Data la novità della questione sollevata e la sua particolare complessità le spese del grado vengono compensate tra le parti.

P.Q.M.

Definitivamente pronunciando

In riforma dell’ordinanza del 15.5.13 del Giudice del Lavoro del Tribunale di Milano dichiara la natura discriminatoria del comportamento tenuto da A. F. Italia srl per aver assunto il ricorrente con un contratto intermittente in forza della sua sola età anagrafica;

ordina alla convenuta di cessare tale comportamento discriminatorio e, accertato che tra le parti è in corso dal 14.12.10 un rapporto di lavoro subordinato ordinario con inquadramento al 4° liv. CCNL Commercio ed orario part time, condanna la convenuta a riammettere B nel posto di lavoro ed a pagare a titolo di risarcimento del danno un importo pari ad euro 14.540,00 oltre interessi e rivalutazione dalla data della sentenza al saldo.

Compensa tra le parti le spese del grado.

Milano 15.4.14

GIUDICE EST. PRESIDENTE

CARLA BIANCHINI LAURA CURCIO