Discriminazione handicap, Tribunale Pisa, Ordinanza del 16 aprile 2015
REPUBBLICA ITALIANA
Il Giudice del Lavoro presso il Tribunale di Pisa
dott.ssa Elisabetta Tarquini, visto l’art. 1 commi 48 e seguenti della L. 92/2012, nella causa promossa da
G C (Avv. Sozzi)
contro
L. SRL (Avv.ti Dell’Omarino – Marra)
Sciogliendo la riserva in atti osserva quanto segue
Con ricorso depositato il 18.4.2014, C G conveniva davanti a questo giudice del lavoro la società L. I. s.r.l. allegando di esserne stata dipendente, con inquadramento da ultimo al IV livello del CCNL commercio, dal 2007 fino al 18.11.2013, quando il rapporto si era risolto ad iniziativa della datrice di lavoro, assumendo la società l’esistenza di un giustificato motivo oggettivo per essere divenuta la lavoratrice permanentemente inidonea alla mansione di commissionatrice da lei da ultimo svolta, ed affermata dalla recedente altresì l’indisponibilità di diverse mansioni, anche inferiori, cui adibirla, attese le prescrizioni poste dal medico competente (che aveva vietato l’assegnazione di G. a mansioni comportanti la movimentazione manuale di carichi, turni notturni, disconfort da microclima e vibrazioni).
Argomentava in contrario la ricorrente l’illegittimità del licenziamento in ragione dell’erroneità del giudizio del medico competente, sia per avere lo stesso utilizzato quali mansioni di riferimento quelle di commissionatrice in luogo di quelle, che affermava essere più varie, di preparatrice di magazzino per le quali G sarebbe stata assunta, sia comunque per essere la lavoratrice, secondo la sua prospettazione, in effetto in grado di svolgere le mansioni di qualifica, seppure con prescrizioni.
La sua difesa deduceva comunque come, riconosciuta nella competente sede amministrativa la condizione di persona handicappata della ricorrente, la società fosse tenuta, a norma della direttiva 2000/78 e del DL. 76/2013 (convertito nella L. 99/2013, di recepimento della citata direttiva) ad approntare misure organizzative idonee a consentire a G di svolgere la sua prestazione senza rischi, le dette misure potendo essere assunte, secondo la prospettazione del ricorso, senza sostenere oneri sproporzionati anche in ragione delle dimensioni aziendali di L, ed essendo pertanto doverose secondo la citata normativa.
L’esistenza nell’organizzazione aziendale di mansioni compatibili con le infermità della ricorrente avrebbe dovuto essere di conseguenza accertata in relazione al predetto obbligo, oltre che alla varietà delle mansioni svolte dalla lavoratrice in corso di rapporto (esse comprendenti anche compiti impiegatizi), l’esito di un tale accertamento deponendo, secondo le difese del ricorso, per l’attuale utilizzabilità della prestazione di G nell’organizzazione di impresa della convenuta (eventualmente in mansioni inferiori) e quindi per l’illegittimità del recesso.
Quanto alle conseguenze sanzionatorie del vizio, la difesa attrice argomentava in tesi doversi qualificare il licenziamento come vessatorio e discriminatorio per motivi di handicap, così dovendo farsi applicazione dei primi due commi dell’art. 18 nel testo novellato dalla L. 92/2012 e condannarsi la società altresì all’ulteriore risarcimento del danno non patrimoniale (da lesione della personalità, dignità e professionalità) che affermava conseguente alla particolare riprovevolezza del motivo.
In ipotesi concludeva per l’annullamento del provvedimento espulsivo con le conseguenze ripristinatorie e risarcitorie di cui al comma 7 dello stesso art. 18.
Chiedeva altresì, sia in tesi che in ipotesi, la condanna di L a risarcire la lavoratrice del danno biologico che affermava esserle stato cagionato dalla dedotta adibizione a mansioni incompatibili con le sue infermità.
Costituitosi il contraddittorio, resisteva la convenuta, argomentando la correttezza della valutazione medico legale operata dal medico competente e l’effettiva inesistenza in azienda di posizioni lavorative in cui la residua capacità di lavoro di G avrebbe potuto essere impiegata, giacché nell’intera struttura della società non vi sarebbe stato alcun profilo professionale addetto a mansioni operative (di inquadramento pari o inferiore a quello di G) cui non fosse richiesta la movimentazione manuale di carichi e l’esposizione a vibrazioni, mentre i lavoratori impiegati sarebbero stati muniti di competenze (almeno un diploma di scuole media superiore e la conoscenza di una lingua straniera) che la ricorrente non avrebbe avuto.
La difesa della resistente concludeva quindi in tesi per il rigetto del ricorso, che avrebbe dovuto essere pronunciato allo stato degli atti, attesa l’evidenza documentale, secondo la sua prospettazione, della fondatezza delle ragioni addotte a motivo del recesso, a fortiori nei limiti della cognizione propria di questa fase di giudizio.
In ipotesi deduceva comunque non potersi fare questione nella specie dell’affermata ragione discriminatoria o ritorsiva, la lavoratrice essendo onerata di provare l’esclusività del motivo illecito lamentato.
Di qui, secondo le difese svolte in via subordinata dalla resistente, l’applicabilità nella specie della sola tutela indennitaria o in via di ulteriore subordine della tutela ripristinatoria attenuata di cui al settimo comma dell’art. 18, in ogni caso detratto l’aliunde perceptum.
Fallito il tentativo di conciliazione, la causa era istruita con l’escussione di alcuni dei testi indotti dalle parti.
Quindi i loro difensori redigevano note scritte e la giudicante si riservava la decisione.
Così riassunta la presente vicenda processuale, nel merito deve in primo luogo rilevarsi come l’attrice versi certamente, in conseguenza delle patologie da cui è affetta, in una condizione di handicap nel senso inteso dalle fonti superprimarie di diritto dell’Unione.
Ha ritenuto infatti la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Corte di Giustizia, 11.4.2013, C-335/2011, nella quale si fa espresso richiamo alle disposizioni della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, approvata in nome della Comunità europea con la decisione 2010/48/CE del Consiglio del 26 novembre 2009, ed alla sua inclusione da tale data nell’ordinamento giuridico dell’Unione) che la nozione di «handicap» debba “essere intesa nel senso che si riferisce ad una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori. Inoltre, dall’articolo 1, secondo comma, della Convenzione dell’ONU risulta che le menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali debbano essere «durature»”.
D’altro canto, secondo il Giudice dell’Unione la nozione di handicap “dev’essere intesa nel senso che essa si riferisce non soltanto ad un’impossibilità di esercitare un’attività professionale, ma altresì ad un ostacolo a svolgere una simile attività” (così testualmente Corte di Giustizia, 18.12.2014, causa C-354/13 e giurisprudenza ivi citata), e senza che rilevi l’origine dell’handicap, così che “se una malattia, curabile o incurabile, comporta una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori e se tale limitazione è di lunga durata, una siffatta malattia può ricadere nella nozione di «handicap» ai sensi della direttiva 2000/78” (così Corte di Giustizia, 11.4.2013, cause riunite C-335/11 e C337/11).
Facendo applicazione di tali principi nella specie è documentato (cfr. doc. 33 del suo fascicolo) come G sia stata riconosciuta persona handicappata ex lege 104/1992 in conseguenza della malattia di Raynaud che l’affligge, mentre già secondo l’accertamento da ultimo compiuto dal medico competente di L (e posto a fondamento del recesso) le minorazioni determinate dalla detta affezione impongono varie limitazioni all’attrice nell’esecuzione dei gesti professionali necessari allo svolgimento delle mansioni a lei assegnate.
Non essendovi poi dubbio in ordine al carattere duraturo di tali limitazioni (in quanto ritenuto anche dal medico competente, come di necessità atteso il giudizio di definitiva inidoneità di G alle mansioni attribuitele), deve pertanto concludersi per la qualificazione della malattia dell’attrice come handicap.
Ne deriva l’obbligo della convenuta, come di ogni altro datore di lavoro, pubblico e privato, a norma della citata direttiva 2000/78 e della normativa interna diretta a darvi attuazione (nella specie il comma 3 bis dell’art. 3 del D.L.vo 216/2003, introdotto dal D.L. 76/2013, in esito alla decisione della Corte di Giustizia, 4.7.2013, C-312/211, di cui infra, e vigente all’epoca del licenziamento impugnato), di “adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori”.
Ed a norma dell’art. 2 della convenzione, per accomodamenti ragionevoli devono intendersi “le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento o l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali”.
Mentre il ventesimo ed il ventunesimo considerando della direttiva 2000/78 prevedono l’introduzione di “misure appropriate, ossia misure efficaci e pratiche destinate a sistemare il luogo di lavoro in funzione dell’handicap, ad esempio sistemando i locali o adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro, la ripartizione dei compiti o fornendo mezzi di formazione o di inquadramento.
Per determinare se le misure in questione danno luogo a oneri finanziari sproporzionati, è necessario tener conto in particolare dei costi finanziari o di altro tipo che esse comportano, delle dimensioni e delle risorse finanziarie dell’organizzazione o dell’impresa e della possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni”.
Quindi secondo le fonti superprimarie di interesse (alla cui attuazione è diretto specificamente, si ribadisce, nella parte che qui il rileva, il D.L. 76/2013), attesa la condizione di handicap dell’attrice, gravava sulla convenuta un obbligo di adeguare attrezzature, ritmi di lavoro e distribuzione delle mansioni nell’ambito della propria organizzazione di impresa in modo da consentire alla lavoratrice la prosecuzione dell’attività lavorativa in condizioni di uguaglianza con gli altri dipendenti (e quindi senza rischi per la sua salute e con adeguata efficienza), sempre che un tale adeguamento richiedesse oneri proporzionati in relazione, tra l’altro, alle dimensioni e alle risorse finanziarie dell’azienda (cfr. sul punto espressamente Corte di Giustizia, 4.7.2013, C-312/11, che ha ritenuto che l’Italia non avesse trasposto correttamente la direttiva 2000/78, giacché a tal fine “non è sufficiente disporre misure pubbliche di incentivo e di sostegno, ma è compito degli Stati membri imporre a tutti i datori di lavoro l’obbligo di adottare provvedimenti efficaci e pratici, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, a favore di tutti i disabili, che riguardino i diversi aspetti dell’occupazione e delle condizioni di lavoro e che consentano a tali persone di accedere ad un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione”, giudizio cui è seguito il citato D.L. 76/2013, con ogni conseguenza quanto all’obbligo del giudice nazionale di interpretazione conforme della detta normativa nazionale rispetto al contenuto e allo scopo della direttiva).
Ora l’obbligo de quo concorre certamente, per quanto qui a rileva, a delimitare il legittimo esercizio del potere datoriale di recesso, poiché, di necessità individuate nella specie le mansioni accessibili per la lavoratrice anche in relazione a quest’obbligo, ne risulta di conseguenza ridimensionata l’area della impossibilità sopravvenuta della sua prestazione e, o anche, per converso ampliato il novero delle posizioni professionali a lei utilmente assegnabili, in quanto individuabili solo in esito ai disposti ragionevoli accomodamenti, nel senso sopra precisato.
In altri termini, tenuta la resistente, nei limiti di uno sforzo proporzionato, ad adeguare la sua organizzazione d’impresa in modo da consentire alla ricorrente di continuare a svolgere la sua prestazione in condizione di uguaglianza con gli altri lavoratori, di necessità l’esistenza di un giustificato motivo oggettivo di recesso costituito dalla sopravvenuta superfluità per quell’organizzazione della prestazione di G (in quanto non più utilmente impiegabile senza rischi per la sua salute) potrebbe ritenersi solo ove fosse verificata anche l’infruttuosità o l’impraticabilità di modifiche delle attrezzature aziendali, dei turni o della distribuzione della mansioni, aventi un costo non sproporzionato.
Né può dubitarsi che fosse la società ad essere gravata (anche) della prova dell’inesistenza o inutilità di tali ragionevoli accomodamenti, in quanto necessariamente costitutivi nella specie del giustificato motivo oggettivo allegato, alla luce dell’obbligo legale di non discriminazione per motivi di handicap, restando invece del tutto estranea alla presente ricostruzione, ed assolutamente ininfluente ai fini del decidere, ogni indagine in ordine all’esistenza di un motivo illecito del recesso, attesa la natura obiettiva e funzionale dei divieti di discriminazione imposti dal diritto dell’Unione.
Facendo applicazione di tali principi, sembra a questo giudice che una simile prova non sia stata raggiunta e che in contrario vi sia evidenza in atti della disponibilità nell’organizzazione aziendale, ed anzi presso la stessa sede di assegnazione della ricorrente, di posizioni professionali che la stessa potrebbe utilmente ricoprire senza rischi per la sua salute, previa adozione da parte di L di una misura organizzativa non avente alcun apparente costo aziendale, in quanto consistente nella sola redistribuzione di taluni compiti tra i dipendenti addetti al magazzino di Pontedera.
Ed invero risulta dalla deposizione del teste N (dipendente della convenuta con mansioni di direttore di una delle direzioni regionali aziendali) come la struttura operativa della società si articoli in punti vendita, magazzini ed uffici.
Quanto ai magazzini, secondo il racconto del teste, “l’attività è divisa in tre blocchi: entrata, uscita e commissionamento. In entrata gli addetti ricevono la merce dai fornitori, in uscita la caricano sui pancali destinati all’uscita verso i punti vendita, nella fase di commissionamento [cui era addetta l’attrice] vengono preparati i carichi”.
Ha riferito poi il teste S, direttore anche all’epoca della sua deposizione della direzione regionale di Pontedera della convenuta (essa comprendente tra l’altro il magazzino cui era addetta la ricorrente) come nella fase di entrata delle merci, lo scarico venga eseguito dai vettori, mentre i dipendenti di L operano al controllo della merce scaricata, movimentandola anche, e ad un bancone di entrata merce.
In particolare l’addetto al bancone entrata merce riceve dai fornitori le bolle di consegna e ne inserisce i dati nel sistema informativo aziendale; al terminale del bancone arriva quindi l’esito del controllo eseguito dai dipendenti L. sulla merce scaricata (numero dei colli, prodotti, integrità e temperatura), ed all’esito l’addetto al bancone sottoscrive la bolla e la riconsegna al fornitore.
Quanto all’impegno richiesto agli addetti al bancone ancora il teste S ha detto di come essi vadano al controllo merci ove necessario, aggiungendo tuttavia come ogni giorno arrivino alla direzione regionale di Pontedera circa quaranta camion ed in fase di entrata merci siano impiegati per ogni turno sei o sette lavoratori, numero che comprende, ancora secondo il testimone, “chi sta al bancone e tre mulettisti”.
Nella fase di uscita merci poi i dipendenti L operano al carico delle merci ed al bancone in uscita, qui provvedendo alla pianificazione dei viaggi dei mezzi aziendali (in tutto 23) verso le diverse filiali per le consegne della merce.
I veicoli aziendali, sempre secondo il racconto di S, fanno “più giri al giorno” “dalla mattina alle sei fino a tardi la sera” e gli addetti all’uscita merci lavorano su più turni, in numero generalmente di tre per turno, gli operatori del bancone essendo richiesti anche della movimentazione.
Ed è stato sempre il teste S a riferire di come “gli addetti al magazzino lavorino o all’entrata o all’uscita, salvo esigenze particolari”, mentre la ricorrente ha allegato senza alcuna specifica contestazione avere gli addetti all’entrata ed all’uscita merce la sua stessa qualifica.
Così ricostruita l’attuale organizzazione del lavoro presso il magazzino di Pontedera della convenuta, si è detto in narrativa come la ricorrente, secondo il medico competente, non debba essere adibita a mansioni comportanti la movimentazione manuale di carichi, turni notturni, disconfort da microclima e vibrazioni.
Pare alla decidente che i compiti di addetto al bancone soprattutto in entrata presso il magazzino di Pontedera, essi pacificamente rientranti tra quelli di qualifica della ricorrente, non presentino alcuno di detti rischi: non comportano infatti la movimentazione manuale dei carichi né l’uso di mezzi produttivi di vibrazioni come il muletto, se non al bisogno, e neppure l’accesso alle celle frigorifere, sono richieste in orario diurno.
Quelle mansioni avrebbero pertanto potuto essere svolte utilmente e senza rischi dalla ricorrente, previa esclusione dal novero delle stesse delle, peraltro occasionali secondo la deposizione del teste S sopra riportata, operazioni di movimentazione merci, che avrebbero potuto essere attribuite esclusivamente ai colleghi addetti al controllo merci in ipotesi assegnati allo stesso turno della ricorrente e già addetti in via prevalente alle dette operazioni.
Una simile soluzione organizzativa non avrebbe avuto alcun costo per l’azienda risolvendosi nella mera ridistribuzione di compiti di qualifica tra lavoratori di pari inquadramento (così l’assegnazione della ricorrente alla fase di entrata merci e la sua eventuale sostituzione in quella di commissionamento, così l’attribuzione a G dei soli compiti di addetta al bancone attribuendo solo ai lavoratori in turno addetti al controllo merci la movimentazione delle stesse).
Essa quindi costituiva un ragionevole accomodamento idoneo a conservare la posizione lavorativa della ricorrente e a consentirne il proficuo utilizzo nell’organizzazione aziendale, e doveva pertanto dirsi doverosa per la convenuta.
Non averla adottata costituisce allora violazione del generale principio di parità di trattamento dei lavoratori portatori di handicap posto dalla direttiva 2000/78 e nell’ordinamento interno dal D.L.vo 216/2003, senza che, come già detto, rilevi in alcun modo l’esistenza o la prova di un soggettivo intento della società di discriminare la ricorrente, il divieto di discriminazione operando obiettivamente.
D’altra parte, necessariamente concorrendo, come pure sopra esposto, il principio paritario di cui alla citata direttiva a regolamentare il potere datoriale di recesso, deve escludersi che si dia nella specie l’affermato giustificato motivo oggettivo, residuando nell’organizzazione aziendale mansioni utilmente attribuibile all’attrice previa adozione del ragionevole accomodamento di cui si è appena detto.
Determinata l’insussistenza del giustificato motivo dalla violazione del principio di non discriminazione, il licenziamento deve essere dichiarato nullo ed alla pronuncia devono seguire le conseguenze sanzionatorie di cui ai primi due commi dell’art. 18 della L. 300/1970 nel testo modificato dalla L. 92/2012.
La società convenuta deve essere pertanto condannata a reintegrare l’attrice nel posto di lavoro ed a corrisponderle tante mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto (indicata la retribuzione parametro senza contestazione in € 1124,26 mensili) quante ne decorreranno dal licenziamento all’effettiva reintegrazione, dedotto quanto eventualmente percepito da G medio tempore in conseguenza di rapporti di lavoro instaurati con terzi, e maggiorato il dovuto di accessori ex art. 429 c.p.c. secondo il criterio di calcolo di cui in dispositivo.
Alla decisione segue ex lege la condanna della convenuta alla regolarizzazione della posizione previdenziale della ricorrente.
Deve poi apprezzarsi dell’ammissibilità nel rito specifico e nel caso della fondatezza della domanda attrice diretta al risarcimento dell’ulteriore danno non patrimoniale affermato come conseguente alla dedotta natura discriminatoria del recesso.
In proposito pare in primo luogo a questo giudice che non possa dubitarsi della proponibilità della detta domanda nel rito ex lege 92/2012, la pretesa de qua essendo fondata sugli stessi fatti costitutivi di quelle ex art. 18 L. 300/1970, anch’essa trovando titolo nell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e nell’illegittimità del recesso datoriale.
Quanto poi alla sua fondatezza deve rilevarsi come l’art. 17 della direttiva 2000/78 obblighi gli Stati membri ad introdurre nei rispettivi ordinamenti nazionali sanzioni per le violazioni delle norme interne di attuazione della direttiva e prescriva che “le sanzioni, che possono prevedere un risarcimento dei danni, devono essere effettive, proporzionate e dissuasive”.
Ed in effetto il D.Lvo 216/2003 ed il D.Lvo 150/2011 dispongono, in caso di violazione al divieto di discriminazione, per il risarcimento del danno anche non patrimoniale.
La fonte sovranazionale peraltro, come sopra detto, attribuisce allo strumento rimediale del risarcimento del danno connotati necessari di effettività, essi tuttavia rapportati, non solo alla gravità del pregiudizio, ma anche alla funzione dissuasiva e sanzionatoria della qualificata riparazione (sulla natura del “danno comunitario”, cfr. da ultimo Cass. 126072015).
E non può dubitarsi che una tale qualificazione incida sul regime della prova del diritto nell’an e sulla sua quantificazione, l’obbligo di liquidare il risarcimento dandosi, ove come nella specie richiesto, anche in funzione della finalità dissuasiva di ulteriori violazioni implicata dal rimedio.
Ciò detto, facendo applicazione dei detti principi nella specie, deve rilevarsi come la discriminazione costituita dal licenziamento si sia data in un’organizzazione d’impresa di rilevanti dimensioni ed a fronte di una obiettivamente agevole possibilità di individuare un ragionevole accomodamento idoneo a consentire la conservazione della posizione lavorativa della ricorrente, così che deve ritenersi attendibilmente la possibilità di reiterazione della condotta lesiva, reiterazione che deve essere evitata a mezzo dello strumento rimediale espressamente approntato dalla fonte sovranazionale anche a fini dissuasivi.
Ne segue l’esistenza nell’an del diritto della lavoratrice al risarcimento del danno non patrimoniale rivendicato in ricorso.
Quanto alla sua determinazione la decidente è peraltro ben consapevole dell’ineliminabile ambiguità di ogni criterio di quantificazione, attesa l’ontologica “incommensurabilità” economica del danno non patrimoniale, rispetto al quale il risarcimento per equivalente monetario non può essere che una fictio juris, non di meno indispensabile a consentire una tutela minima necessaria dei diritti inviolabili della persona.
E’ quindi nella consapevolezza di una tale complessità di valutazione che questo giudice ritiene di quantificare il risarcimento dovuto a Giusti in € 10.000,00, misura da ritenersi adeguatamente compensativa delle violazioni subite dalla lavoratrice ed idonea ad assumere una qualche efficacia dissausiva in rapporto alle dimensioni aziendali di L.
In merito infine all’ulteriore domanda risarcitoria svolta in ricorso (essa diretta ad ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale che la ricorrente assume di aver patito in conseguenza dell’adibizione a mansioni non confacenti al suo stato di salute e delle vessazioni cui la società l’avrebbe sottoposta a causa delle sue menomazioni), deve escludersi che essa sia proseguibile nel rito specifico, trovando titolo in altro (o comunque anche in altro) che nel recesso impugnato.
Quanto allora all’esito da darsi alla domanda de qua pare alla decidente che debba disporsene la trattazione separata nel rito ordinario ex art. 414 c.p.c. senza l’applicazione di alcuna sanzione processuale impeditiva dell’ulteriore corso.
Come già ritenuto da questo Tribunale, infatti, “a tale conclusione si deve pervenire in base all’art. 4 co. 1 d. lvo. 150/11 (semplificazione dei riti) …
Il menzionato d. lvo. si ispira all’intento di <<incrementare l’efficienza e la razionalità delle norme processuali, anche nell’ottica di un recupero di garanzie reso necessario dalla riforma dell’articolo 111 della Costituzione>> (cfr. relazione illustrativa), e privilegia evidentemente una logica di salvaguardia degli atti processuali, che dev’essere senz’altro condivisa.
La l. 92/12, per motivi cronologici, non è ovviamente menzionata dal d. lvo. 150/11, ma si deve comunque attribuire all’art. 4 cit. una valenza generale, ad eccezione che per i casi in cui la legge disponga diversamente (cfr. art. 702ter co. 2 c.p.c., che prevede una pronuncia di inammissibilità in caso di errore sul rito)” (così Trib. Pisa. est. Piragine, 15.1.2014).
Deve dunque disporsi la separazione della domanda diretta al risarcimento del danno biologico e di cui sub 3 delle conclusioni di tesi e sub 2 di quelle in ipotesi, la cui trattazione dovrà proseguire nelle forme ordinarie ex art. 414 e seguenti c.p.c.
Le spese processuali, come infra liquidate, seguono la prevalente soccombenza.
P.Q.M.
Visto l’art. 1 comma 48 e segg. della L. 92/2012, ogni altra domanda ed eccezione disattesa, dichiara la nullità del licenziamento di cui è causa in quanto discriminatorio e condanna la convenuta a reintegrare l’attrice nel posto di lavoro ed a ed a corrisponderle tante mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto (indicata la retribuzione parametro in € 1124,26 mensili) quante ne decorreranno dal licenziamento all’effettiva reintegrazione, dedotto quanto eventualmente percepito da G medio tempore in conseguenza di rapporti di lavoro instaurati con terzi, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali dalle singole scadenze a decorrere dalla data del licenziamento e fino al saldo.
Condanna la convenuta alla regolarizzazione della posizione previdenziale della ricorrente.
Condanna la convenuta al risarcimento del danno derivante dalla natura discriminatoria del recesso, nella misura di € 10.000,00, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali dalle singole scadenze a decorrere dalla data del licenziamento e fino al saldo.
Dispone la separazione delle domande dirette al risarcimento del danno biologico e di cui sub 3 delle conclusioni di tesi e sub 2 di quelle in ipotesi del ricorso, la cui trattazione dovrà proseguire nelle forme ordinarie ex art. 414 e seguenti c.p.c. risarcitorie.
Fissa a tal fine l’udienza ex art. 420 c.p.c. per il 14.10.2014 ore 10,45, con termine per l’eventuale integrazione degli atti sino a 30 giorni prima
Respinge ogni altra domanda ed eccezione.
Condanna la convenuta alla rifusione delle spese processuali, che liquida in € 10.000,00 per compenso di avvocato ex DM 55/2014 oltre rimborso forfettario, IVA e CAP come per legge.
Si comunichi
Pisa, 16.4.2015
Il giudice del lavoro
Dott. Elisabetta Tarquini