Licenziamento lavoratrice a seguito di richiesta di congedi parentali, Discriminazione di genere,Tribunale di Livorno, Ordinanza del 27 luglio 2015
TRIBUNALE ORDINARIO di LIVORNO
SEZIONE LAVORO
Il Giudice designato, dott. Raffaella Calò,
a scioglimento della riserva formulata all’udienza del 22 luglio 2015;
O S S E R V A
- Con ricorso ex art. 1 comma 47 ss. l. 92/2012, depositato il 10 ottobre 2014, la sig.ra T ha impugnato il licenziamento per giustificato motivo oggettivo alla stessa intimato in data 30 marzo 2014 (con decorrenza dal 6 maggio 2014) dal datore di lavoro C. L. allegando, a sostegno della domanda, la mancata enunciazione dei motivi del recesso datoriale, l’insussistenza del giustificato motivo oggettivo nonché la discriminatorietà del licenziamento, per essere lo stesso stato intimato in conseguenza della fruizione del congedo parentale da parte della ricorrente, in violazione del disposto di cui all’art. 54 comma 6 d. lgs. n. 151/2001 secondo cui “è altresì nullo il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per la malattia del bambino da parte della lavoratrice o del lavoratore”.
- La ricorrente ha dunque domandato l’accertamento della nullità del licenziamento alla stessa intimato perché discriminatorio e/o ritorsivo e, per l’effetto, la condanna della parte datoriale alla reintegra di essa ricorrente nel posto di lavoro e al pagamento delle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento alla effettiva reintegra, ai sensi dell’art. 18 l. 300/70, così come modificato dalla l. 92/2012. In via subordinata, la ricorrente ha domandato l’applicazione della tutela di cui alla l. 604/66.
- Parte resistente, costituitasi in giudizio, domandava il rigetto della domanda attorea in quanto infondata.
Sulla eccezione di difetto di motivazione del licenziamento
- Preliminarmente deve affermarsi la infondatezza della doglianza di parte attrice circa la mancata indicazione da parte del datore di lavoro dei motivi di licenziamento, essendo documentalmente provato che la lettera di licenziamento conteneva chiara indicazione delle ragioni del recesso datoriale (v. lettera di licenziamento in atti, doc. n. 4 allegata al ricorso). Ne deriva la insussistenza della violazione dell’art. 2 l. 604/66.
Sulla natura discriminatoria del licenziamento
- La domanda volta alla dichiarazione di nullità del licenziamento e alla applicazione della tutela c.d. reintegratoria di cui all’art. 18 comma 1 e ss. l. 300/70 è invece fondata e deve pertanto essere accolta per i seguenti motivi.
- L’art. 54 comma 6 d. lgs. n. 151/2001, sopra richiamato, sanziona espressamente con la nullità il licenziamento della lavoratrice o del lavoratore causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per la malattia del bambino.
- Pacifica l’applicabilità per detta violazione del disposto dell’art. 18 comma 1 l. 300/70, così come novellato dalla l. 92/2012, questione dirimente ai fini della decisione della presente causa è data dalla individuazione della regola di riparto degli oneri probatori e dunque della applicabilità del peculiare regime probatorio previste dalle pertinenti disposizioni di diritto dell’Unione europea.
- Ne deriva che la decisione della causa dipende dalla previa decisione circa la riconducibilità del divieto di licenziamento in parola, costituente espressione di un divieto di discriminazione a danno dei lavoratori che hanno chiesto o intendono fruire dei congedi parentali, alle pertinenti disposizioni di diritto UE e in particolare della direttiva 2000/78/CE (direttiva quadro in materia di parità di trattamento quanto all’occupazione ed alle condizioni di lavoro).
Sull’ambito applicativo della direttiva 2000/78/CE
- Ritiene il Tribunale che a tale quesito, su cui è stato sollevato il contraddittorio tra le parti, debba dirsi risposta negativa, per i seguenti motivi.
- La fruizione dei congedi parentali non rientra tra i motivi di discriminazione di cui all’art. 1 della direttiva 2000/78/CE, disciplinando la detta direttiva le sole discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro (v. art. 1 della direttiva: “La presente direttiva mira a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento”).
- Come emerge dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea formatasi in materia, la tutela apprestata agli individui dalla direttiva in parola è circoscritta ai soli motivi specificati nella direttiva e sopra richiamati, non rientrando nel campo applicativo della direttiva le discriminazioni fondate su motivi diversi da quelli detti sopra.
- Tale principio è stato di recente ribadito dalla CGUE nella sentenza resa il 17 luglio 2008 nella causa Coleman (causa C-303/06), dove, da un lato, si afferma espressamente la possibilità di una interpretazione estensiva dei divieti di discriminazione previsti dalla direttiva (nella causa decisa dalla Corte con la sentenza anzidetta si trattava di disabilità del figlio della lavoratrice ricorrente), dall’altro si ribadisce il principio, secondo cui i divieti di discriminazione sul lavoro, rilevanti ai fini della direttiva, sono soltanto quelli fondati sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età e le tendenze sessuali, costituendo tali fattori di protezione nominati gli unici tutelati dal legislatore dell’Unione con la direttiva anzidetta.
- Ritiene questo giudice che neppure attraverso una interpretazione estensiva dei motivi di discriminazione sopra richiamati sia possibile ricondurre agli stessi il divieto di discriminazione basato sulla fruizione dei congedi parentali, non inerendo lo stesso né alla religione né a convinzioni personali, handicap, età o tendenze sessuali.
- In particolare, ad avviso della scrivente la discriminazione prospettata dalla parte ricorrente non può ricondursi alla discriminazione di genere, pacificamente riconducibile alla direttiva anzidetta che vieta le discriminazioni originanti dalle tendenze sessuali del lavoratore.
- Con particolare riferimento alle tendenze sessuali, è noto a questo Giudice che la Corte di Giustizia dell’Unione europea nella sentenza del 27 febbraio 2003 (causa C-320/01) ha ricondotto alla direttiva 76/207, volta a dare attuazione al principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionale e le condizioni di lavoro, le discriminazioni fondate sulla fruizione di un congedo parentale (v. § 38 della sentenza del 27.02.2003 causa C-320/01: “Si deve ricordare che l’art. 5, n. 1, della direttiva 76/207 vieta le discriminazioni fondate sul sesso per quanto riguarda le condizioni di lavoro. Tra queste ultime rientrano le condizioni applicabili alla reintegrazione nel posto di lavoro di un lavoratore che ha fruito di un congedo parentale”).
- Tuttavia tale giurisprudenza della Corte di Giustizia non risulta pertinente ai fini della decisione della presente causa, dove si fa questione della applicazione della direttiva 2000/78/CE sulla discriminazione (e delle regole di riparto della prova dalla stessa previste) e non della direttiva 76/207 circa la parità di trattamento tra uomini e donne, richiamata dalla CGUE nella sentenza del 2003 di cui sopra; del resto, si osserva, la direttiva 76/207 sulla parità di trattamento, non solo faceva espressamente salve “le disposizioni della direttiva 96/34/CE del Consiglio, del 3 giugno 1996, concernente l’accordo quadro sul congedo parentale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES”, che costituiscono così norme speciali che regolano la materia (v. art. 2 comma 7 della direttiva 76/207), ma l’intera direttiva risulta abrogata dall’articolo 34 e dall’allegato I, parte A della direttiva 2006/54/CE.
- Né la riconduzione della discriminazione connessa alla domanda o alla fruizione dei congedi parentali alla discriminazione di genere risulta convincente e coerente con l’assetto normativo esistente con particolare riferimento al licenziamento.
- In divieto di licenziamento di cui all’art. 54 del d. lgs. n. 151/2001, rilevante nella fattispecie oggetto di causa, è infatti volto a tutelare non le sole donne ma entrambi i genitori, al fine di garantire la piena effettività del diritto alla genitorialità, nell’interesse del lavoratore (sia questo uomo e donna) e dei figli di costui.
- Tanto emerge chiaramente dal dettato normativo (“è altresì nullo il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per la malattia del bambino da parte della lavoratrice o del lavoratore”) nonché dalla circostanza che la norma in parola costituisce, come accennato sopra, declinazione di un principio affermato dalla normativa di diritto dell’Unione sui congedi parentali e segnatamente della clausola 2 comma quarto dell’accordo quadro sul congedo parentale concluso il 14 dicembre 1995 contenuto nell’allegato alla direttiva 96/34/CE del Consiglio del 3 giugno 1996, come modificata dalla direttiva 97/75/CE, che prevede che “onde assicurare che i lavoratori possano esercitare il diritto al congedo parentale, gli Stati membri e/o le parti sociali prendono le misure necessarie per proteggere i lavoratori dal licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale secondo la legge i contratti collettivi o le prassi nazionali”.
- Tanto la norma di diritto dell’Unione, sopra richiamata, e dichiaratamente volta ad “agevolare la conciliazione delle responsabilità professionali e familiari dei genitori che lavorano” (così testualmente la clausola 1 dell’accordo quadro sui congedi parentali) che la norma nazionale sono chiare nel prevedere il pieno diritto alla fruizione del congedo parentale di entrambi i genitori, a prescindere dal sesso del genitore richiedente; pertanto, ad avviso della scrivente, deve escludersi che la ratio del principio sia la sola tutela della maternità e che il licenziamento collegato alla richiesta di fruizione dei congedi parentali possa ritenersi discriminazione di genere.
- Del resto, si osserva, quanto sopra trova indiretta conferma nella fattispecie in esame in cui la ricorrente, madre di due figli, allega di avere subito un trattamento deteriore e dunque discriminatorio rispetto non ad un collega di lavoro di sesso maschile, ma ad un’altra donna, che non aveva figli e che non aveva conseguentemente fatto richiesta di alcun congedo parentale.
- Pertanto, escluso che la discriminazione per cui è causa possa ricondursi al novero delle discriminazioni vietate dalla direttiva 2000/78/CE, deve escludersi che nella fattispecie in esame, relativa ad una discriminazione fondata sulla fruizione dei congedi parentali, possa trovare applicazione il peculiare regime probatorio di cui all’art. 10 della direttiva 2000/78/CE che, come noto, prevede un regime probatorio facilitato per il lavoratore (v. art. 10 cit.: “gli Stati membri prendono le misure necessarie, conformemente ai loro sistemi giudiziari nazionali, per assicurare che, allorché persone che si ritengono lese dalla mancata applicazione nei loro riguardi del principio della parità di trattamento espongono, dinanzi a un tribunale o a un’altra autorità competente, fatti dai quali si può presumere che vi sia stata una discriminazione diretta o indiretta, incomba alla parte convenuta provare che non vi è stata violazione del principio della parità di trattamento”).
- Ne deriva, concludendo sul punto, che nella fattispecie oggetto di causa la lavoratrice ricorrente non può avvalersi del peculiare regime di ripartizione dell’onere probatorio previsto dalla direttiva 2000/78/CE, trovando applicazione le ordinarie regole di riparto dell’onere della prova secondo il disposto dell’art. 2697 c.c.
- Essendo chiaro, a parere della scrivente, il quadro normativo di diritto UE rilevante ai fini della decisione della presente causa si è ritenuto superfluo il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, sulla cui opportunità era stato sollevato dal Tribunale il contraddittorio delle parti.
Sull’applicazione dell’art. 2697 c.c. nella ipotesi di discriminazione per fruizione o richiesta dei congedi parentali.
- Ora, con riferimento al licenziamento discriminatorio, costituisce un principio consolidato nella giurisprudenza della Corte di cassazione che le diverse ipotesi di licenziamento discriminatorio previste dalla legge “costituiscono specificazione della più ampia fattispecie del licenziamento viziato da motivo illecito, riconducibile alla generale previsione codicistica dell’atto unilaterale nullo ai sensi dell’art. 1345 c.c. (in relazione all’art. 1324 c.c.), e, dall’altro, sulla considerazione che in tale generale ed ampia previsione è certamente da comprendere il licenziamento intimato per ritorsione e rappresaglia – pur esso in qualche modo implicante una illecita discriminazione, intesa in senso lato, del lavoratore licenziato rispetto agli altri dipendenti, il quale, pertanto, integra fattispecie del tutto similare, e perciò assimilabile, a quelle oggetto della espressa previsione del medesimo art. 3 (cfr. Cass. 4543/99 e 3837/95 cit.). Conseguentemente l’area di tutela del licenziamento discriminatorio, nella sua accezione più ampia – rectius estensiva -, attiene a quei motivi che integrano perseguimento di finalità contrarie all’ordine pubblico, al buon costume o ad altri scopi espressamente proibiti dalla legge e non quando rivelino altri fini che in sé non siano confliggenti con tali divieti” (così Cass. 16155 del 9.07.2009).
- Costituisce poi massima consolidata quella secondo cui “per affermare il carattere ritorsivo e quindi la nullità del provvedimento espulsivo, in quanto fondato su un motivo illecito, occorre specificamente dimostrare, con onere a carico del lavoratore, che l’intento discriminatorio o di rappresaglia per l’attività svolta abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà del datore di lavoro anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso” (così Cass. 14 luglio 2005, n. 14816).
- Ancora, la Corte di Cassazione nella recente sentenza n. 3986/2015 ha statuito che “in sostanza non è sufficiente che il licenziamento sia (anche palesemente) ingiustificato per aversi un licenziamento ritorsivo, essendo piuttosto necessario che il motivo pretesamente illecito (cioè contrario ai casi espressamente previsti dalla legge, pur suscettibili di interpretazione estensiva, all’ordine pubblico e al buon costume) sia stato l’unico determina te e sempre che il lavoratore ne abbia fornito prova, anche presuntiva” (analog. in precedenza, Cass. n. 17087/11; Cass. n. 6282/11; Cass. n. 16155/09)”.
- Chiarita così, nei termini di cui sopra, la posizione assunta dalla giurisprudenza di legittimità in fattispecie relative al licenziamento discriminatorio e ritorsivo, ritiene il Tribunale che tali massime giurisprudenziali relative al licenziamento discriminatorio inteso come ipotesi speciale del licenziamento nullo perché viziato da motivo illecito determinante (giusto il combinato disposto degli artt. 1324 e 1345 c.c.) non siano applicabili alla fattispecie in esame, che si caratterizza ex lege, al pari del divieto degli atti discriminatori nei rapporti di lavoro di cui all’art. 15 l. 300/70, da un motivo illecito anche al dì là degli specifici ed ulteriori presupposti richiesti dall’art. 1345 c.c., non occorrendo che il motivo discriminatorio sia esclusivo, né che sia comune alle parti essendo rilevante l’intento discriminatorio del solo datore di lavoro (v. sul punto, con riferimento al divieto di cui all’art. 15 l. 300/70, v. Cass. n. 14206/2013).
- Invero, né la norma di cui all’art. 54 comma 6 d. lgs. n. 151/2001 (secondo cui “è altresì nullo il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per la malattia del bambino da parte della lavoratrice o del lavoratore”) né la norma di diritto dell’Unione (v. la clausola 2 comma quarto dell’accordo quadro sul congedo parentale concluso il 14 dicembre 1995 contenuto nell’allegato alla direttiva 96/34/CE del Consiglio del 3 giugno 1996, come modificata dalla direttiva 97/75/CE, che prevede che “onde assicurare che i lavoratori possano esercitare il diritto al congedo parentale, gli Stati membri e/o le parti sociali prendono le misure necessarie per proteggere i lavoratori dal licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale secondo la legge i contratti collettivi o le prassi nazionali”) subordinano la nullità del licenziamento all’accertamento della efficacia causale esclusiva del motivo discriminatorio, ancorando invece la sanzione di nullità del recesso datoriale alla sola esistenza di un nesso causale tra la domanda o la fruizione del congedo parentale e il licenziamento del lavoratore.
- Pertanto, ad avviso della scrivente, pur rientrando la fattispecie per cui è causa nel novero dei licenziamenti lato sensu discriminatori, deve escludersi la operatività della disciplina generale degli atti nulli perché viziati da motivo illecito determinante, essendo sufficiente ad affermare la nullità del licenziamento la circostanza che lo stesso trovi il proprio antecedente causale anche non esclusivo nella domanda o fruizione del congedo parentale da parte del lavoratore.
- Pertanto, mentre nella generalità delle ipotesi, secondo la giurisprudenza, invero tralaticia, della Corte di Cassazione sopra richiamata, il lavoratore che agisce per l’accertamento della discriminatorietà del licenziamento è onerato della prova “del motivo illecito come motivo esclusivo e determinante nell’assenza di qualsiasi altro motivo lecito” (così, tra le tante, Cass. n. 1843 del 20.02.1995) laddove il lavoratore alleghi la nullità del licenziamento per essere lo stesso determinato dalla fruizione o domanda dei congedi parentali, il lavoratore è onerato soltanto della allegazione e della prova, anche attraverso il ricorso alle presunzioni ai sensi dell’art. 2729 c.c., della esistenza di un nesso causale tra la discriminazione e il licenziamento, senza essere onerato della gravosa prova della assenza di qualsiasi altro motivo lecito di licenziamento.
- Del resto, si osserva, una tale conclusione esegetica non solo pare maggiormente in linea con la nozione obiettiva di discriminazione quale si va facendo strada a livello europeo, così come del resto affermato dalla più recente giurisprudenza di legittimità (v. Cass. n. 14206/2013, sopra richiamata) ma pare l’unica interpretazione plausibile del dettato normativo nazionale per assicurare la piena conformità dell’ordinamento interno al diritto dell’Unione che, come osservato sopra, non solo disciplina espressamente la materia dei congedi parentali, ma impone agli Stati membri e alle parti sociali di prendere le misura necessarie per proteggere i lavoratori dal licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale, al fine di assicurare che i lavoratori possano esercitare tale diritto previsto dalla normativa UE e in particolare dall’accordo quadro sul congedo parentale.
- Invero, a ritenere diversamente, si finirebbe inevitabilmente per escludere in radice la possibilità di accertamento della nullità del licenziamento – in contrasto sia con il divieto di cui al d. lgs. n. 151/2001 sia con il diritto dell’Unione – in tutte le ipotesi in cui sussiste un concorrente motivo alternativo lecito di licenziamento, seppure palesemente insufficiente a ritenere la legittimità del recesso datoriale. Si faccia l’esempio della lavoratrice che dopo avere fatto domanda di congedo parentale viene licenziata dal datore di lavoro per essersi presentata in ufficio con cinque minuti di ritardo; in questa ipotesi, un’applicazione meccanicistica della tralaticia giurisprudenza di legittimità sopra richiamata, fondata sulla nozione di motivo illecito determinante ed esclusivo, escluderebbe in radice la configurabilità di un licenziamento discriminatorio (sussistendo una ragione alternativa lecita al licenziamento, pur palesemente illegittimo) residuando solo lo spazio per la declaratoria della illegittimità del licenziamento disciplinare, in patente contrasto con gli obiettivi di tutela perseguiti dal legislatore nazionale ed europeo. Ancora, si faccia l’ipotesi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo dell’unico lavoratore che ha goduto dei congedi parentali; in questa ipotesi, laddove si adottasse una interpretazione del dato normativo diversa da quella qui prospettata, la obiettiva soppressione del posto di lavoro escluderebbe in radice la possibilità di ravvisare un licenziamento discriminatorio, precludendo così al lavoratore la possibilità di ottenere la reintegra nel posto di lavoro in ragione della asserita discriminatorietà nella scelta del lavoratore da licenziare, in contrasto con la finalità di tutela delle norme sopra richiamate.
Sulla discriminatorietà del licenziamento oggetto di causa
- Ebbene, facendo applicazione dei sopra esposti principi di diritto alla fattispecie in esame, ritiene il Tribunale raggiunta la prova del fatto che la ricorrente sia stata licenziata a causa della fruizione dei congedi parentali, per i seguenti motivi.
- Alla luce della documentazione in atti e delle allegazioni delle parti è provato che la ricorrente, che già aveva lavorato per la convenuta dal 1999 al 2003, ha concluso con la L. un nuovo contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato part time a 36 ore in data 2 novembre 2005, con mansioni di commessa al IV livello del CCNL (v. contratto di lavoro in atti, doc. n. 2 allegato al ricorso).
- E’ provato che la parte datoriale nel mese di febbraio 2006 assunse una seconda commessa, segnatamente la sig.ra F., che svolgeva le medesime mansioni di della ricorrente all’interno della tabaccheria.
- E’ provato che la ricorrente, in attesa del secondo figlio, fruì del periodo di astensione obbligatoria dal lavoro per maternità dal mese di ottobre 2012 sino al 20 marzo 2013 e successivamente di un periodo di astensione facoltativa sino al 2 agosto 2013.
- E’ provato che la ricorrente riprese l’attività lavorativa il 3 agosto 2013 e che nel mese di novembre 2013 la ricorrente comunicò al marito della L., sig. T., la propria intenzione di fruire di un ulteriore periodo di astensione dal lavoro (v. sul punto quanto riferito dal teste T. sul cap. 11: “E’ vero, me lo disse fra ottobre e novembre. Lo disse a me e non a mia moglie perché sono io che mi occupo dei rapporti con i dipendenti e con il commercialista”).
- E’ provato che il 20 novembre 2013 la ricorrente presentò domanda di congedo parentale per il periodo che va dal 5 dicembre 2013 sino al 4 giugno 2014 (v. doc. n. 3 allegata al ricorso).
- E’ infine provato che, durante la fruizione di detto congedo parentale e segnatamente il 4 aprile 2014, la ricorrente ha ricevuto la raccomandata (spedita il 30 marzo 2014) con la quale era informata del suo licenziamento con decorrenza dal 6 maggio 2014 in ragione della asserita diminuzione dell’attività dell’azienda ed in conseguenza della necessaria riorganizzazione dell’attività lavorativa risoltasi con la soppressione del posto di lavoro cui era addetta la lavoratrice ricorrente (v. lettera di licenziamento in atti, doc. n. 4 allegato al ricorso).
- Così chiarita la dinamica fattuale della vicenda, ritiene il Tribunale che la ricorrente abbia dimostrato l’esistenza di un trattamento differenziato in suo danno rispetto al tertium comparationis rappresentato da un soggetto, ritenuto comparabile, rispetto al quale non si dia il fattore di protezione che si afferma leso, nella specie la collega di lavoro F., assunta successivamente alla ricorrente, svolgente le medesime mansioni ma che, a differenza della ricorrente, non avendo figli non aveva mai domandato di godere dei congedi parentali.
- Pacifico che la ricorrente, a differenza della collega F., aveva goduto di un periodo di astensione dal lavoro per maternità e stava godendo, al momento del licenziamento, dei congedi parentali, così astenendosi per un periodo certo non breve dalla esecuzione della prestazione lavorativa, la spiegazione offerta dalla parte datoriale circa i criteri di scelta seguiti per individuare, a parità di mansioni, il lavoratore da licenziare, non costituiscono ragione obiettiva tale da determinare l’esistenza del giustificato motivo oggettivo del licenziamento della ricorrente durante la fruizione dei congedi parentali.
- Invero, la circostanza affermata in memoria secondo cui la convenuta ignorava le difficili condizioni di salute dei figli della ricorrente e la scelta sarebbe ricaduta sulla ricorrente anziché sull’altra dipendente in ragione del fatto che la prima versava in una situazione economica migliore rispetto alla F, nonché in migliori condizioni di salute che le avrebbero permesso più agevolmente di trovare un lavoro, non risulta convincente (v. memoria di costituzione in giudizio: “del tutto incolpevolmente la signora L. ignorava le difficoltà relative ai figli della signora T., situazione che ha conosciuto solo leggendo l’atto di ricorso; per tale motivo, in tutta buona fede ha ritenuto che la presenza di un convivente e padre dei due figli e la possibilità di una casa di proprietà, potessero configurare una situazione economica migliore rispetto a quella della signora F che per quanto a sua conoscenza vive in una casa in affitto. Peraltro (…) la signora F nell’aprile 2012 aveva subito un importante intervento chirurgico alla colonna vertebrale (…) in seguito al quale ella soffre periodicamente di dolori alla schiena che inevitabilmente si ripercuotono sulla sua abilità lavorativa – in particolare rispetto al lavoro di commessa – rendendole senza dubbio più difficoltosa la scelta di un lavoro alternativo”).
- In primo luogo, infatti, in ragione dell’esistenza di un rapporto di lungo corso tra le parti (avendo la ricorrente pacificamente lavorato per la convenuta anche nel periodo compreso tra il 1999 e il luglio 2003) e della conduzione familiare dell’impresa, non risulta credibile che la L., che pure sapeva che la ricorrente era proprietaria di una abitazione, ignorasse i gravi problemi di salute dei figli della ricorrente, che l’avevano indotta alla richiesta dei congedi parentali.
- In secondo luogo, e soprattutto, posto che la ricorrente aveva una indubbia maggiore anzianità di servizio della ricorrente (avendo lavorato già per la convenuta dal 1999 al 2003 ed essendo stata nuovamente assunta nel novembre 2005, essendo per contro l’assunzione della Fanfani risalente al marzo 2006), ritiene il Tribunale che la scelta di parte convenuta di licenziare la ricorrente (madre di due figli con gravi problemi di salute, che godeva dei congedi parentali) in luogo dell’altra dipendente, in ragione delle asserite (ma non provate) maggiori difficoltà economiche e di salute di quest’ultima rispetto alla prima, sia contraria a buona fede e correttezza.
- Invero, anche laddove volesse ritenersi credibile la versione della resistente, secondo cui la scelta della lavoratrice da licenziare sarebbe stata operata non avendo riguardo al maggior interesse dell’impresa e alle obiettive esigenze organizzative e produttive, né all’anzianità di servizio delle due dipendenti ovvero ai carichi di famiglia, ma alle sole condizioni economiche e allo stato di salute delle due lavoratrici dipendenti (scegliendo, secondo la prospettazione di parte convenuta, di licenziare la lavoratrice in minore difficoltà) ritiene il Tribunale che tale individuazione dei criteri di scelta del lavoratore da licenziare, per essere in contrasto con esigenze di correttezza e buona fede, che impongono l’adozione di criteri obiettivi e conoscibili ex ante, escludano la sussistenza di un giustificato motivo di licenziamento nei confronti della ricorrente e inducano a ritenere provato, in via presuntiva, sussistendo in tal senso elementi gravi, precisi e concordanti, per le ragioni dette sopra, che il motivo determinante della scelta di licenziare la ricorrente, a fronte della obiettiva soppressione di un posto di lavoro, sia stata la fruizione dei congedi parentali da parte della ricorrente dopo che la stessa aveva fruito del periodo di astensione obbligatoria e facoltativa per maternità.
- Le precedenti considerazioni hanno valenza assorbente, determinando l’accoglimento della domanda formulata dalla ricorrente in via principale, rendendo superflua la disamina dei profili di diritto CEDU richiamati dalla parte ricorrente in sede di note conclusive, che peraltro si profilano non pienamente pertinenti atteso che la materia dei congedi parentali non pare rientrare nel novero dei diritti e delle libertà riconosciuti da detta Convenzione e che il protocollo n. 12 della CEDU, che vieta la discriminazione nel “godimento di ogni diritto previsto dalla legge”, è relativo soltanto alla tutela dei singoli contro le discriminazioni poste in essere dalle autorità pubbliche.
- Deve dunque conclusivamente affermarsi la nullità ai sensi dell’art. 54 d. lgs. n. 51/2001 del licenziamento intimato alla ricorrente con raccomandata del 30.03.2104 ed efficacia dal 6 maggio 2014, e condannarsi ai sensi dell’art. 18 comma 1 l. 300/70 parte resistente alla reintegrazione della ricorrente nel posto di lavoro occupato alla data del licenziamento, oltre che al risarcimento del danno in favore della ricorrente pari alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quella della effettiva reintegrazione, oltre interessi e rivalutazione come per legge, nonché al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.
- Non sussistendo allegazione e prova dello svolgimento da parte della ricorrente di altra attività lavorativa in data successiva al licenziamento per cui è causa, nulla deve essere dedotto a titolo di aliunde perceptum.
- Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate nella misura indicata in dispositivo, secondo i parametri di cui al d.m. 55/2014, avuto riguardo al valore della causa, all’attività svolta e alla natura sommaria della cognizione che caratterizza il presente rito.
P . Q .M.
Il Tribunale, pronunciando ai sensi dell’art. 1 comma 49 l. 28 giugno 2012, n. 92:
- a) accoglie la domanda e per l’effetto, dichiara la nullità del licenziamento intimato a T. B. con raccomandata del 30.03.2014 ed efficacia dal 6 maggio 2014 e condanna L. C. alla reintegrazione della ricorrente nel posto di lavoro occupato alla data del licenziamento, oltre che al pagamento di una indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quella della effettiva reintegrazione, oltre interessi e rivalutazione come per legge, nonché al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali;
- b) condanna L. C. al pagamento in favore di T. B. delle spese di lite, che liquida ai sensi del d.m. 55/2014 in complessivi euro 2.300,00, oltre spese generali, IVA e CPA come per legge;
- c) manda alla Cancelleria per la comunicazione alle parti costituite della presente ordinanza.
Livorno, 27 luglio 2015
Il Giudice
Raffaella Calò