Licenziamento lavoratrice madre, Discriminazione di genere, Tribunale di Livorno, sentenza del 15 giugno 2015
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Tribunale di Livorno
Sezione Lavoro
Il Giudice dott.ssa F. Sbrana, ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa n 1539/2014 RG, trattenuta in decisione all’udienza di discussione dell’11.6.2015 , promossa su ricorso in opposizione ex art 1 comma 51 ss. Legge 92/12 presentato da
G R S.r.l. con avv Umberto Ferrari ed avv Giulia Novelli presso il cui studio in Livorno via Diaz n 7 è elettivamente domiciliato
Parte opponente/ricorrente
Contro
M.M. con avv Elena Giuliano
Parte opposta/convenuta
Per i seguenti motivi
Col ricorso in oggetto G.R proponeva opposizione, ai sensi dell’art 1 co 51 Legge 92/12, avverso l’ordinanza emessa nel procedimento n 1679/2013 RG, promosso su ricorso di M. M , che aveva adito questo Tribunale, ai sensi dell’art 1 co 47 Legge cit., per sentire accordata la tutela di cui all’art 18 legge 300/70, deducendo la violazione dell’art 7 comma 1 e 2 legge 604/66, per non avere la società effettuato la comunicazione preventiva alla DTL, la mancanza di esauriente motivazione del recesso datoriale, l’insussistenza del giustificato motivo oggettivo e, ancora, la discriminatorietà del licenziamento.
Con ordinanza del 27.10.2014 il Tribunale si pronunciava sul ricorso, accertando e dichiarando “la natura discriminatoria e, conseguentemente, la nullità del licenziamento intimato a M. M. e, per l’effetto, ordina a G R srl l’immediata reintegrazione della lavoratrice nel posto e nelle mansioni di cui in precedenza, o altre equivalenti”; condannava altresì la convenuta a risarcire alla ricorrente il danno determinato nelle retribuzioni globali di fatto maturate dalla data del licenziamento a quella di effettiva reintegrazione, oltre interessi e rivalutazione, ed a versare i contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento al momento dell’effettiva reintegrazione; oltre che a rimborsare controparte delle spese di lite.
Con il ricorso in opposizione la società impugnava la detta ordinanza, deducendo in ordine alla sussistenza del giustificato motivo oggettivo, sulla base di una difforme lettura del materiale probatorio; deduceva vieppiù la opponente in ordine alla insussistenza della discriminatorietà del recesso, argomentando circa la mancata prova della “mala fede” del datore ed il mancato assolvimento dell’onere probatorio gravante sul lavoratore.
Assegnato il fascicolo a questo Giudice, parte opponente presentava tempestivamente istanza di ricusazione, che veniva rigettata dal Collegio con provvedimento del 26.1.2015, versato in atti.
Si costituiva quindi nella presente fase la M., chiedendo il rigetto del ricorso e la conferma della ordinanza opposta.
Ritenuta la causa istruita, attesa anche la mancata richiesta, ad opera delle parti, di ulteriori prove rispetto a quelle acquisite nella fase sommaria, la causa veniva quindi rinviata per discussione all’udienza indicata in epigrafe, allorquando veniva trattenuta in decisione sulle conclusioni rassegnate oralmente dal solo procuratore della M. presente.
La ordinanza deve essere confermata.
La causa è stata esaustivamente istruita in fase sommaria, tanto che neppure parte opponente ha ritenuto di avanzare nuove richieste di prova. Tanto premesso, deve osservarsi che la M. M ha originariamente adito questo Giudice del Lavoro, allegando di avere lavorato alle dipendenze della O.M. soc. coop a r.l. dal 01.08.1988 con mansioni di addetta mensa e addetta a bar e self service, di essere stata quindi assunta in data 25.09.2000, con contratto a tempo indeterminato part time alle dipendenze della C S s.p.a., con mansioni di addetta alla sala mensa; di essere stata nuovamente assunta, alle dipendenze della O M soc. coop a r.l. con contratto di lavoro a tempo indeterminato e parziale dal 21.07.2003 e con mansioni di addetta alla cassa, aiuto cuoca, addetta a self service, lavapiatti, addetta alla cucina, addetta al magazzino ed al catering, nelle varie unità produttive site nella Provincia di Livorno; deduceva quindi la ricorrente di essere stata trasferita, a far data dal 20.8.2012, presso l’impianto de “La Stazione Marittima” con mansioni di barista e responsabile della gestione del bar e self service; il precedente datore, con lettera del 13.5.2013 comunicava quindi alla ricorrente la risoluzione dal rapporto di lavoro con decorrenza dal 31.5.2013 e preannunciava altresì l’inizio di trattative sindacali, volte alla assunzione del personale operante presso la Stazione Marittima ad opera della G R srl, aggiudicataria dell’appalto in luogo della O M soc coop.
In attuazione dell’accordo di cui al verbale del 3.7.2013, la G R assumeva quindi l’obbligo di collocare presso l’impianto Stazione Marittima tutto il personale operante alla data del 31.5.2013, con possibilità di modifica dell’inquadramento (doc 8 fasc ricorrente nella fase sommaria).
La M veniva quindi assunta con lettera del 31.5.2013 da G R, con contratto a tempo indeterminato e parziale, per 29 ore settimanali, con mansioni di operaio V livello CCNL applicato (doc 9 fasc ricorrente fase sommaria). Con lettera raccomandata del 1.8.2013, ricevuta dalla ricorrente il 5.8.2013, la G R comunicava alla lavoratrice il licenziamento per giustificato motivo oggettivo a far data dal 1.8.2013.
Nella fase di opposizione parte opponente propone una diversa lettura del materiale probatorio, evocando altresì un mancato assolvimento dell’onere probatorio che graverebbe sul lavoratore, anche in ordine al motivo illecito integrante la dedotta discriminatorietà del recesso.
Il ricorso in opposizione non può trovare accoglimento.
Quanto alla evocata discriminatorietà del recesso, deve dirsi come la discriminazione possa attuarsi sia in forma diretta che indiretta, laddove la prima si ha quando a causa della presenza di uno dei fattori di rischio, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto lo sarebbe stata un’altra in situazione analoga, mentre la seconda ricorre “quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri” possono mettere le persone appartenenti alle categorie individuate “in una situazione di particolare svantaggio” (salva la presenza di “finalità legittima” ed il carattere di appropriatezza e necessità dei mezzi impiegati per conseguirla, come prescritto dalla normativa europea: cfr in particolare art. 8 della direttiva 2000/43/CE, e art. 10 della direttiva quadro 2000/78/CE).
Il punto di arrivo di questa ricostruzione è la eludibilità, ai fini del riconoscimento della discriminatorietà dell’atto, della prova dell’intento soggettivo dell’agente, mentre rileva certamente l’effetto discriminatorio in sé, riferibile ad uno dei fattori di protezione.
Il secondo cardine di questo inquadramento è rappresentato dal rilievo dell’elemento di comparazione tra diverse posizioni soggettive.
Quanto alla ripartizione dell’onere probatorio tra le parti, deve anche osservarsi come, in tema di comportamenti datoriali discriminatori, l’art. 40 del d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198 – nel fissare un principio applicabile sia nei casi di procedimento speciale antidiscriminatorio che di azione ordinaria, promossi dal lavoratore ovvero dal consigliere di parità – stabilisca un’attenuazione del regime probatorio ordinario, prevedendo, a carico del soggetto convenuto, in linea con quanto disposto dall’art. 19 della Direttiva CE n. 2006/54 (come interpretato da Corte di Giustizia Ue 21 luglio 2011, C-104/10), l’onere di fornire la prova dell’inesistenza della discriminazione, dopo che il ricorrente abbia fornito al giudice elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, relativi ai comportamenti discriminatori lamentati, purché idonei a fondare, in termini precisi (ossia determinati nella loro realtà storica) e concordanti (ossia fondati su una pluralità di fatti noti convergenti nella dimostrazione del fatto ignoto), anche se non gravi.
Si tratta, in sostanza, di un onere probatorio “asimmetrico”, ovvero, fermo restando l’onere di allegazione e prova in capo all’attore, il suo assolvimento richiede un grado di certezza minore, potendo la discriminatorietà ritenersi provata in termini di alta probabilità (cfr in tal senso in parte motiva, Cass., sez L sent 14206/2013).
Nel caso di specie, la lavoratrice M M ha fornito elementi fattuali –acquisiti nella istruttoria già svolta nella fase sommaria – precisi e convergenti nella dimostrazione della natura discriminatoria del recesso, mentre, a fronte dei dati di fatto raccolti e delle considerazioni spese, parte datoriale non ha saputo fornire prova della insussistenza della discriminazione o della esistenza di un motivo economico oggettivo.
Deve anzi tutto dirsi come risulti pacifico in causa che la società abbia omesso la procedura di cui all’art 7 Legge 604/1996 come modif. da legge 92/12.
Risulta vieppiù non contestato che, a metà giugno 2013, poco dopo la assunzione della M, venissero assunti, con contratto part time e a termine n. 4 lavoratori, che nel settembre 2013 i 4 lavoratori neo assunti stipulassero con la G R un contratto part time a tempo indeterminato e, nell’ottobre 2003, la società assumesse una ulteriore lavoratrice.
È altresì risultata in causa la insussistenza del giustificato motivo oggettivo addotto (peraltro, come detto, sottratto al controllo di legge attraverso la omessa procedura di cui all’art 7 cit.). In causa, invero, la società datrice di lavoro ha sostenuto la legittimità del recesso, deducendo la sussistenza del giustificato motivo addotto a base dello stesso, esso consistente nella soppressione della figura di barista, ricoperta dalla M, e nella effettuata ristrutturazione aziendale, con formazione di figure in grado di svolgere più mansioni (così si legge nella memoria di parte della fase sommaria “la G ha deciso di servirsi di personale che, nel corso del contratto, ha svolto mansioni promiscue, e ha risolto il contratto nei confronti delle due dipendenti che svolgevano solamente la mansione di barista”: pag 9 memoria di costituzione).
L’istruttoria svolta ha invece portato ad accertare che la M ha sempre svolto mansioni promiscue, sia per la cooperativa O M, prima, che per la G R, poi: in tal senso riferivano conformemente i testi sentiti in causa, confermando che la ricorrente aveva svolto indifferentemente mansioni di barista, aiuto cuoca, addetta alla cassa (vedi dichiarazione di S C all’ud del 16.09.2014: ADR “presso G ricordo di avere visto la M lavorare anche come aiuto cuoca, lavapiatti ed alla casa”; ed ancora, “la M preparava la linea cena, cioè posizionava le pietanze sulla linea di esposizione ai clienti”; vedi anche risposte date da T C al Cap 5 ricorso: “che io ricordi era addetta al bar, ADR preciso che il bar e il self service stanno nello stesso locale, laddove c’è stata necessità la M è stata spostata anche al self service”).
Le stesse dichiarazioni venivano rese da G G, il quale, in risposta al cap 1 del ricorso, affermava: “lo so perché ho seguito l’azienda dell’O. M e quindi anche la ricorrente faceva un po’ di tutto, barista, inserviente di linea, ha lavorato in cucina per preparare pietanze, in cassa, nelle cooperative facevano un po’ di tutto. ADR l’ho visto anche io personalmente”.
È altresì risultato accertato che la M avesse abilitazione HCCP per la somministrazione dei pasti e che, dunque, benchè idonea anche ad essere adibita alla linea self service (v. al riguardo quanto dichiarato dal teste P A), fosse stata adibita al bar sulla base di una scelta aziendale fondata esclusivamente sulle ultime mansioni comunicate dal precedente datore (cfr ancora dichiarazioni del P).
Può dirsi inoltre acclarato che la posizione di barista, svolta dalla M presso la G, non è stata soppressa, essendo stata successivamente tale mansione ricoperta da altri lavoratori, tra cui figurano quei lavoratori, dapprima assunti nel giugno 2013 con contratto part time a termine e, quindi, dopo un periodo di formazione ed affiancamento (anche alla ricorrente), con contratto a tempo indeterminato, dopo il licenziamento della Marcucci (cfr ancora quanto dichiarato da teste P, che ha riferito come tali lavoratori neo assunti fossero stati formati per poter ricoprire più posizioni; posizioni cui, come visto, era stata adibita la M, anche in via continuativa, sino a pochi mesi prima del licenziamento; cfr anche quanto affermato da parte opponente in ricorso pagg 5 e 6, laddove conferma essere stata la M addetta alla preparazione di pietanze – seppure in “casi emergenziali” – e di avere deciso di formare come pizzaioli i nuovi assunti).
D’altro canto, quanto rappresentato dalla lavoratrice risulta trovare conferma anche nei documenti prodotti, da cui emerge che la M ebbe ad essere nel tempo addetta, anche formalmente, alla mensa (cfr lettera di assunzione del 25.09.2000 in doc 2 fasc ricorrente fase sommaria ).
Orbene, tanto premesso in fatto, deve osservarsi come sia principio consolidato in giurisprudenza quello secondo cui “in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro, che adduca a fondamento del licenziamento la soppressione del posto di lavoro cui era addetto il lavoratore licenziato, ha l’onere di provare che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa alla quale avrebbe potuto essere assegnato il lavoratore licenziato per l’espletamento di mansioni equivalenti a quelle svolte, tenuto conto della professionalità raggiunta dal lavoratore medesimo, e deve inoltre dimostrare di non avere effettuato per un congruo periodo di tempo successivo al recesso alcuna nuova assunzione in qualifica analoga a quella del lavoratore licenziato.” (cfr ex plurimis Cass. , Sentenza n. 12367 del 22/08/2003).
Il controllo del Giudice- che non può, ovviamente , sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa – deve quindi appuntarsi sulla effettiva sussistenza e non pretestuosità del motivo addotto dal datore di lavoro, in ordine al quale il datore di lavoro ha l’onere di provare, anche mediante elementi presuntivi ed indiziari, l’effettività delle ragioni che giustificano l’operazione di riassetto (cfr tra le molte, Cass. Sez. L, Sentenza n. 7474 del 14/05/2012 che ha ritenuto non giustificato il recesso che era stato motivato sul presupposto della soppressione del posto cui era addetta la lavoratrice, le cui mansioni erano state assegnate ad altra dipendente, assunta con contratto a termine per più volte).
Deve quindi confermarsi quanto già affermato nella ordinanza opposta ovvero “Nel caso di specie, dunque, la riorganizzazione, dedotta dalla convenuta a base del licenziamento della M, risulta pretestuosa e non effettiva, neppure parte datoriale allegando essa essere rispondente ad una qualche razionale scelta imprenditoriale, ispirata a criteri di economicità ed efficienza, dimostrandosi, invece, in esito alla istruttoria svolta, da un lato, come la M fosse fungibile con, e potesse essere adibita a, le differenti posizioni di banco, self service, preparazione pasti e, dall’altro, come si fosse resa necessaria la assunzione (prima a termine e quindi formalizzata a tempo indeterminato) e formazione di nuovo personale per andare a svolgere anche le mansioni al banco cui era addetta la ricorrente (cfr ancora quanto dichiarato da teste S in risposta ai capp 10, 17-18 ricorso, e quanto riferito anche dal teste di parte convenuta, P A, in merito, in particolare, alla formazione della B; vedasi altresì i prospetti dei turni successivi al licenziamento della M, in atti versati)”.
Ed ancora deve osservarsi che nel caso di specie non viene in questione la violazione dei criteri di buona fede e correttezza nella scelta, tra figure fungibili, del lavoratore da licenziare, violazione che attiene alla fase “esecutiva” della scelta di recesso datoriale: invero, mentre i criteri di buona fede e correttezza identificano in negativo un’area più vasta di scelte per la non corrispondenza di esse a determinati criteri (cosiddetto limite “interno” del potere datoriale di recesso ), il motivo discriminatorio identifica invece l’area più ristretta di scelte individuate in positivo in quelle che vanno ad attingere il soggetto per il solo fatto di una sua caratteristica personale che lo contraddistingue, per un (pre)giudizio di non identità e omologazione, che può guardare alla condizione psico-fisica, ovvero al genere, così come al credo o alla appartenenza politica o sindacale. Il profilo di discriminazione può attenere, dunque, anche solo alla fase genetica della scelta datoriale, dando ad essa impulso e giustificazione.
Nel caso di specie, deve osservarsi come, alla carenza del motivo oggettivo ed alla omissione della prescritta procedura di cui all’art 7 legge 604/66, vada ad aggiungersi un altro elemento presuntivo, indice eloquente circa la discriminatorietà del recesso ovvero dell’avere esso attinto la lavoratrice in quanto portatrice di un fattore di protezione per essere ella lavoratrice madre di tre figli e ritenuta dal datore meno disponibile rispetto ai lavoratori neo assunti : per come allegato nel ricorso ex art 1 co 47 legge 92/12, e confermato in corso di causa, la M ebbe invero a lamentarsi , sin da subito, di un trattamento deteriore quanto ai turni di lavoro, di esso essendosi la ricorrente lamentata anche con il sindacalista (vedi quanto dichiarato da G G in udienza: ADR “quando contestai a G. i turni della ricorrente mi riferivo ai primi mesi della assunzione, giugno e forse prima settimana di luglio 2013…”).
La importante dichiarazione poi resa in causa dal teste G ha consentito non solo di dare conferma alla natura discriminatoria dell’atto nella sua portata obiettiva, ma anche della connotazione soggettiva dello stesso. Invero, così riferiva il teste G, circa quanto rispostogli dal legale rappresentante della convenuta società, sig G, a fronte delle rimostranze del sindacalista: “posso dire che io e G eravamo soli quando si parlava, cioè si minacciava, nel senso che io andai da G a contestare le modalità di turno della ricorrente, che veniva fatta entrare o troppo presto la mattina, cioè sempre il primo turno o sempre l’ultimo e ciò non si conciliava con le esigenze della famiglia e tutti dovevano cambiare i turni e farli tutti e G mi aggredì dicendomi che lei aveva rotto le scatole anche con assegni di famiglia, G mi disse che lei rompeva le scatole e che se non la smetteva la licenziava e se la toglieva di torno con qualche mensilità”. Questa conversazione precedeva di poco il poi attuato licenziamento della M.
Nel caso di specie, la lavoratrice ha quindi fornito elementi fattuali gravi, precisi e convergenti nella dimostrazione della natura discriminatoria del recesso, mentre, a fronte dei dati di fatto raccolti e suindicati e delle considerazioni spese, parte datoriale non ha saputo fornire alcuna prova, anche logica o induttiva, della insussistenza della discriminazione.
E’ quindi possibile inferire, dalla insussistenza e pretestuosità del motivo addotto, dalla omissione della procedura di legge (di cui all’art 7 legge 604/66) sul controllo della sussistenza delle ragioni economiche, dalle dichiarazioni palesate dal legale rappresentante della società e dalle altre circostanze di fatto, l’esistenza della discriminatorietà del recesso che ha attinto la M madre, separata, di tre figli minori; come motivato nella ordinanza opposta : “Il datore di lavoro, invero a meno di due mesi di distanza dalla assunzione della M, e nonostante la professionalità dalla stessa nel tempo acquisita e la disponibilità da questa manifestata, in sede di accordo sindacale, a recepire le variazioni professionali decise dal nuovo datore, con assegnazione di un livello di inquadramento inferiore (vedi doc 8 fasc ricorrente), ha ritenuto di potere risolvere il rapporto di lavoro con la ricorrente, semplicemente sostituendola. D’altro canto, come visto, è stato lo stesso legale rappresentare della società a preannunciare, a voce, i reali motivi del licenziamento che sarebbe avvenuto nel volgere di nemmeno un mese, non facendo mistero della insofferenza per gli assegni familiari che dovevano essere versati alla lavoratrice e dei problemi che questa stava creando coi turni”. Il licenziamento operato integra una condotta ex se illecita, in quanto senz’altro discriminatoria per motivi di genere, nel senso, proprio della nozione secondo il diritto dell’Unione Europea, di trattamento deteriore riservato al lavoratore portatore del fattore di protezione, ovvero in quanto madre di figli minori, con conseguente applicazione del disposto di cui all’art. 18 comma 1 della L. 300/1970.
La ordinanza opposta deve essere pertanto confermata.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo, avuto riguardo ad assenza di attività istruttoria, valore e natura della causa.
PQM
Decidendo sul ricorso in opposizione di G R SRL proposto ex art 1 comma 57 legge 92/12:
– Rigetta il ricorso e conferma l’ordinanza depositata il 27.10.2014 dal Giudice del Lavoro del Tribunale di Livorno nel proc. n 1679/2013 Rg;.
– Condanna G R srl a rifondere controparte delle ulteriori spese del presente giudizio, liquidandole ex DM 55/14 in euro 2.100,00 oltre IVA, CPA e 15% per rimborso forfettario delle spese generali.
Manda alla Cancelleria per quanto di competenza.
Livorno 15 GIUGNO 2015
Il Giudice