Discriminazione handicap,Tribunale di Catania, Ordinanza del 2 agosto 2012
R E P U B B L I C A I T A L I A N A
Il Tribunale di Catania
Sezione Civile Feriale
composto dai Sigg. Magistrati:
- Giovanni Dipietro Presidente
- Concetta Grillo Giudice
- Mario Fiorentino Giudice rel. est.
nella causa civile iscritta al n. 5821/2012 R.G.L., avente ad oggetto: reclamo ex art. 669 terdecies c.p.c. – licenziamento ex art. 15 St. lav.
p r o m o s s a d a
xy, con l’Avv.to F. BASILE
RECLAMANTE
c o n t r o
cz S.R.L., con l’Avv.to A.F.A. PETINO
RESISTENTE
ha emesso la seguente
o r d i n a n z a
***
Con ricorso ex art. 700 c.p.c., depositato il 20.1.2012, Xy, dipendente della società convenuta dal 9.9.1996, impugnava giudizialmente il licenziamento intimatole con lettera del 29.9.2011, chiedendo l’immediata reintegra nel posto di lavoro.
Esponeva, a tal riguardo, che il licenziamento, formalmente giustificato da ragioni di natura organizzativa, era stato adottato in ragione della propria condizione di portatrice di handicap grave ai sensi dell’art. 3, comma 3, legge 104/1992, siccome affetta da sclerosi multipla, patologia che la reclamante aveva riscontrato nel 2008, a seguito della seconda gravidanza, e della quale aveva prontamente informato il datore di lavoro.
Si costituiva in giudizio la Cz s.r.l. la quale chiedeva il rigetto del ricorso.
A seguito dell’istruttoria orale, la domanda veniva rigettata dal Giudice di prime cure con ordinanza del 3.6.2012.
Il Giudice monocratico riteneva che, incontestato lo stato di handicap della lavoratrice, non era stata raggiunta la prova del carattere discriminatorio del recesso, tenuto conto, peraltro, che non era stata fornita alcuna prova che il part time pattuito nel 2008 fosse stato imposto dalla società, né che fosse stato preordinato al licenziamento.
Con l’odierno reclamo, la lavoratrice, attraverso un ampia disamina delle questioni poste già in prima fase, insiste nell’accoglimento della domanda di reintegra, ritenendo non condivisibile l’iter logico giuridico seguito dal giudice di prime cure, nella parte in cui ha ritenuto non raggiunta la prova del carattere discriminatorio del licenziamento in questione, prova desumibile, osserva la reclamante, da una pluralità di circostanze indicate in atti (tra cui, il difetto di ragioni oggettive del licenziamento, la mancata verifica, da parte del datore di lavoro, della disponibilità della lavoratrice di ripristinare l’orario a tempo pieno, il carattere ingravescente della malattia, l’insofferenza dell’azienda dimostrata in occasione della richiesta di congedo per malattia del 12.12.2011, etc. v. reclamo pag. 42 e ss., ).
Nei termini assegnati si è costituita la società datrice che ha insistito nelle proprie difese, chiedendo il rigetto del reclamo e la conferma dell’ordinanza di prima fase.
All’udienza del 2.8.2012 le parti discutevano oralmente la causa e il Tribunale riservava la decisione.
Ciò posto, il Collegio ritiene che il reclamo sia fondato e vada accolto.
Appare utile, preliminarmente, ricostruire brevemente il quadro normativo e i principi giurisprudenziali che informano la fattispecie in scrutinio.
Vengono innanzitutto in considerazione le norme di cui agli artt. 15 l. 300/1970 (c.d. Statuto dei lavoratori) e 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108, recante disposizioni in materia di “disciplina dei licenziamenti individuali”.
L’art. 15 l. 300/70 stabilisce che è nullo qualsiasi patto od atto diretto a subordinare l’occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad una associazione sindacale ovvero cessi di farne parte ovvero diretto a licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero (1 comma) ovvero a causa della sua condizione di handicap (v. a tal riguardo art. 15, secondo comma, l. 300 cit., che estende l’ambito di applicazione del primo comma “ai patti o atti diretti a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali”).
L’art. 3 della legge 108/1990 stabilisce che “Il licenziamento determinato da ragioni discriminatorie ai sensi dell’articolo 4 della legge 15 luglio 1966, n. 604 e dell’articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall’articolo 13 della legge 9 dicembre 1977, n. 903, è nullo indipendentemente dalla motivazione addotta e comporta, quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro, le conseguenze previste dall’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dalla presente legge. Tali disposizioni si applicano anche ai dirigenti”.
Nella materia in scrutinio giova inoltre richiamare le disposizioni introdotte dal D.lgs. 9 luglio 2003 n. 216, in attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.
L’art. 2 del D.lgs. 9 luglio 2003 n. 216 cit., a tal riguardo, stabilisce che, salvo quanto disposto dall’art. 3, commi da 3 a 6 del Decreto, si intende “per principio di parità di trattamento… l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell’età o dell’orientamento sessuale”.
La norma precisa che sussiste la discriminazione diretta quando “per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga”.
Sussiste la discriminazione indiretta quando “una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone” (art. 2 cit.).
L’art. 3 del d.lgs. 216/2003 ribadisce che il principio di non discriminazione informa la disciplina giuridica dei rapporti di lavoro, precisando che esso si applica “a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato… con specifico riferimento alle seguenti aree:
- a) accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione;
- b) occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni del licenziamento;
omissis”.
Come evidenziato dalla dottrina e dalla giurisprudenza, perché un atto possa qualificarsi come discriminatorio è necessario che venga riscontrato l’intento discriminatorio (ravvisabile ogni qual volta il motivo sotteso all’emanazione dell’atto sia tale), attraverso un accertamento di fatto che è devoluto al giudice di merito (ex multis, cfr. Cass. 13 gennaio 2003 n. 322).
Tale accertamento, stante la difficoltà di fornire una prova diretta di tale connotato, può avvenire anche attraverso il ricorso a presunzioni semplici (Cass. 15 novembre 2000 n. 2025), nonché attraverso la valorizzazione, come elemento sintomatico dell’intento discriminatorio, della “non plausibilità” delle ragioni formalmente addotte dal datore di lavoro a sostegno del provvedimento irrogato (Pret. Nola-Pomigliano D’arco 5 agosto 1994).
L’onere della prova della discriminazione – ovverosia il rischio processuale derivante dalla mancata dimostrazione del carattere discriminatorio dell’atto impugnato – grava su chi l’allega, e quindi (in caso di licenziamento) sul lavoratore, ed esso può ritenersi assolto anche con la rappresentazione di una serie di indizi che, valutati nel loro insieme, convincano il giudice della fondatezza dell’assunto (Trib. Milano, 23 aprile 1986, che ha ritenuto come significative della discriminazione sindacale, tra le altre circostanze, l’infondatezza dei motivi addotti a giustificazione del licenziamento).
Orbene, venendo al caso di specie, ritiene il Collegio che l’onere della prova gravante sulla parte lavoratrice sia stato sufficiente assolto, emergendo dagli atti di causa diversi elementi sintomatici del carattere discriminatorio del recesso, ed in particolare:
- l’assenza di ragioni economiche sfavorevoli che giustifichino la prospettata riorganizzazione aziendale (di fatto coincidente con la mera soppressione del posto part time della reclamante), essendo stato riconosciuto dalla stessa società che “il licenziamento non è motivato dal calo di fatturato” (v. memorie di costituzione, prima fase, pag. 13);
- l’assenza di un effettivo giustificato motivo oggettivo, se si considera che la dedotta riorganizzazione aziendale si incentra nella mera soppressione del posto ricoperto dalla lavoratrice per asserita riduzione dei costi (v. lettera di licenziamento, in atti), laddove, secondo l’indirizzo cui accede anche questo Collegio, il giustificato motivo oggettivo richiede che la soppressione del posto o del reparto cui è addetto il singolo lavoratore non sia meramente strumentale ad un incremento di profitto, ma diretta a fronteggiare situazioni sfavorevoli non contingenti (in tal senso, cfr. Cass., civ. sez. lav., 2 ottobre 2006 n. 21282; conforme, da ultimo, Cass. civ. sez. lav. 26 settembre 2011 n. 19616);
- la mancata pianificazione della dedotta riorganizzazione, attraverso una previa verifica della disponibilità della ricorrente a svolgere mansioni anche di livello inferiore ovvero a ritornare ad espletare la propria attività lavorativa a tempo pieno (come del resto fatto fino al 2008), in adempimento degli obblighi di buona fede cui il datore di lavoro è tenuto anche in caso di giustificato motivo oggettivo (cfr. i principi espressi in materia di demansionamento dalla Suprema Corte, laddove, pur operando la norma imperativa di cui all’art. 2103 c.c., si prescisa che “in caso di licenziamento per giustificato motivo, il datore di lavoro che adduca a fondamento del licenziamento la soppressione del posto di lavoro cui era addetto il lavoratore licenziato ha l’onere di provare non solo che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa, alla quale avrebbe potuto essere assegnato il lavoratore per l’espletamento di mansioni equivalenti a quelle svolte, ma anche di aver prospettato, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale, purché tali mansioni siano compatibili con l’assetto organizzativo aziendale insindacabilmente stabilito dall’imprenditore” e ciò “in ottemperanza al principio di buona fede nell’esecuzione del contratto”, così Cass., civ. sez. lav., 13 agosto 2008 n. 21579, che riprende Cass. Sezioni Unite n. 7755/1998);
- la mancata applicazione dei criteri di anzianità e carichi di famiglia ex art. 5 l. 223/1991 a cui l’azienda datrice era in ogni modo tenuta anche in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (Trib. Milano, sez. lav. 8 luglio 2010 n. 3103; Trib. Torino 18 febbraio 2005; Cass. civ. sez. lav. 11 giugno 2004 n. 11124), quantomeno con riguardo ai lavoratori aventi mansioni omogenee e fungibili;
- la presenza di dipendenti aventi minore anzianità di servizio rispetto alla reclamante (v. quanto allegato in ricorso ex 700 c.p.c., pag. 8-9, non oggetto di specifica contestazione), con mansioni omogenee a quelle già svolte dalla ricorrente, i quali non risultano incisi dall’asserito processo di riorganizzazione; si considerino a tal riguardo le dipendenti F. R. e C. G., del reparto logistica export e italia, segreteria amministrativa commerciale, addette a mansioni di assistenza vendite, bolle, fatturazioni, segreteria, assistenza clienti, spedizioneri e contrattualistica (v. memorie società reclamata, prima fase, pag. 10-11), mansioni certamente espletabili dalla ricorrente in forza delle pregresse esperienze, come analiticamente indicate nel ricorso introduttivo di prima fase e non oggetto di specifica contestazione (v. ricorso, pagg. 5 e ss., laddove si dà atto che la ricorrente ha svolto attività di assistenza alle vendite nazionali ed estere, di segreteria, occupandosi della ricezione degli ordini e della organizzazione delle consegne, delle spedizioni, dell’emissione delle fatture, della gestione dei rapporti con le banche e con gli enti istituzionali, della gestione del magazzino, della redazione dell’inventario, della elaborazione delle statistiche, dell’organizzazione dei meeting con i clienti e gli agenti, di attività di segreteria della direzione, etc.);
- la genericità e l’infondatezza della motivazione espressa nella lettera di licenziamento, secondo cui “non è stato ritenuto proficuo procedere al licenziamento di altri dipendenti in quanto in parte trattasi di operai espletanti indispensabile attività tecnico manuale specialistica; in altra parte trattasi di figure professionali di livello contrattuale superiore o di specifica professionalità tecnico scientifica, destinate all’espletamento di diversa ed indispensabile tipologia di mansioni durante l’intera giornata lavorativa aziendale”, posto che, dagli stessi atti di causa (ed in particolare, dalle memorie di costituzione della società), come sopra evidenziato, emerge che nel settore reparto logistica export italia sono addette due lavoratrici assunte successivamente alla reclamante, che espletano mansioni già svolte dalla stessa (v. ricorso prima fase, pagg. 5 e ss.) e che non hanno livello di inquadramento superiore a quello della ricorrente;
- la repentina interruzione del rapporto di lavoro, nel periodo di preavviso, a seguito della richiesta della lavoratrice di un periodo di congedo per motivi di salute, per lo svolgimento di attività terapeutica (v. doc. 3, 4, 5, fascicolo Albanese, ricorso ex art. 700 c.p.c.).
Ritiene il Collegio che gli elementi sopra evidenziati conducano a ritenere fondata la tesi della reclamante.
Il carattere non plausibile ed in parte infondato della motivazione posta a base del licenziamento, la mancata applicazione dei criteri di scelta di cui all’art. 5 l. 223/1991, avuto riguardo alle dipendenti F. e C., l’omessa verifica, da parte del datore di lavoro, della disponibilità della reclamante all’eventuale ripristino del rapporto a tempo pieno (come osservato dalla stessa fino al 2008), l’indisposizione mostrata dal datore di lavoro nel periodo di preavviso, sono tutti elementi che rendono verosimile la tesi del motivo discriminatorio del recesso, in quanto costituiscono elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti sul reale motivo dell’atto.
Questi, invero, fanno ritenere che il datore di lavoro abbia inteso privarsi della dipendente che, in ragione del proprio stato di portatrice di handicap grave (per come accertato ai sensi della l. 104/1992, il 21.9.2009, doc. 13 parte ricorrente), nonché dei benefici riconosciuti dalla legislazione (in termini di permessi, periodi di congedo e quant’altro), costituiva una risorsa professionale “meno produttiva” per l’impresa, rispetto ad altri dipendenti.
Appare chiaro che, se il datore avesse voluto procedere alla riorganizzazione per mera riduzione dei costi, sopprimendo il posto part time ricoperto dalla ricorrente, attraverso la redistribuzione delle mansioni, egli avrebbe dovuto verificare preventivamente la disponibilità della reclamante al ripristino del rapporto di lavoro a tempo pieno, applicando, nella scelta del lavoratore da licenziare, i criteri di cui all’art. 5 l. 223/1991, e ciò in special modo considerando la particolare anzianità di servizio della reclamante.
Quanto premesso consente di ritenere che la domanda cautelare proposta da Xy sia assistita dal requisito del fumus boni iuris, non potendosi confermare, sul punto, le conclusioni cui è giunta l’ordinanza reclamata.
Ritiene questo Collegio che la domanda risulti anche assistita dal requisito del periculum in mora, tenuto conto che l’estromissione dal posto di lavoro, per tutto il tempo necessario allo svolgimento del procedimento ordinario, appare incidere negativamente, non solo sulla condizione patrimoniale della parte, ma anche sulla sfera non patrimoniale, avuto pure riguardo allo stato di salute della lavoratrice.
Si consideri a tal proposito il parere medico in atti del dott. V. P, Consulente Psichiata dell’Ospedale S. Raffaele di Milano, che ha rilevato il nesso di causalità tra il licenziamento e l’episodio “depressivo maggiore di grado moderato severo” riscontrato sulla parte reclamante dopo l’intimato recesso, “lo stretto rapporto temporale tra la comparsa dei sintomi psichiatrici” e la perdita del lavoro, l’assenza nella storia clinica-anamnestica della reclamante di sintomi psichiatrici precedenti, così come l’assenza di familiarità positiva per disturbi psichiatrici.
Va a inoltre evidenziato che l’estromissione dal posto di lavoro incide su diritti non patrimoniali della parte (quale la dignità personale, il diritto di esplicare la propria personalità all’interno dell’impresa), come è stato rimarcato dalle Sezioni Unite della Suprema Corte (Cass., Sez. Un. 10.1.06, n. 141), secondo le quali la rilevanza degli interessi coinvolti nei rapporti di lavoro “impediscono di ricondurre quei rapporti esclusivamente a fattispecie di scambio e, nell’ambito di queste, di ridurre la posizione del prestatore di lavoro semplicemente a quella di titolare del credito avente ad oggetto la retribuzione. Al contrario, il prestatore, attraverso il lavoro reso all’interno dell’impresa, da intendere come formazione sociale nei sensi dell’art. 2 Cost., realizza non solo l’utilità economica promessa dal datore ma anche i valori individuali e familiari indicati nell’art. 2 Cost. cit. e nel successivo art. 36 (cfr. Cass. Sez. un. 12 novembre 2001 n. 14020)” (cfr. Tribunale di Reggio Calabria, sez. lav., 15.9.2008).
La fondatezza del reclamo implica la revoca dell’ordinanza emessa dal Giudice del lavoro monocratico il 3.6.2012 e l’accoglimento della domanda cautelare proposta dalla Xy.
Deve pertanto ordinarsi alla società reclamata di reintegrare immediatamente parte ricorrente nel posto di lavoro, essendo irrilevante l’insussistenza del requisito dimensionale ex art. 18 St. lav. a fronte del rilevato carattere discriminatorio dell’impugnato licenziamento (art. 3, legge 108/1990), tenuto conto che la nullità dell’atto non incide sulla continuità del rapporto.
In ragione dei discordi indirizzi tra le diverse fasi del procedimento cautelare, appare equo disporre la compensazione delle spese processuali avuto riguardo alla prima fase.
Le spese della presente fase seguono invece la soccombenza ex art. 91 c.p.c. e sono liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale di Catania, in composizione collegiale, nel procedimento in epigrafe indicato, così statuisce:
ACCOGLIE il reclamo e, per l’effetto:
- REVOCA l’ordinanza del Giudice del lavoro del 3.6.2012;
- ACCOGLIE la domanda cautelare proposta da Xy;
- ORDINA alla società Cz Italia s.r.l. di reintegrare immediatamente Xy nel posto di lavoro;
- COMPENSA le spese processuali avuto riguardo alla fase innanzi al Giudice monocratico;
- CONDANNA la società reclamata al pagamento, in favore di Xy, delle spese processuali della presente fase, che si liquidano in complessivi € 1.500, di cui € 1.000,00 per onorari, € 500,00 per diritti, oltre IVA e CP, come per Legge, da distrarsi a favore del Procuratore dichiaratosi antistatario ex art. 93 c.p.c.
Così deciso, nella Camera di Consiglio del 2.8.2012.
Il GIUDICE ESTENSORE IL PRESIDENTE
(dott. Mario Fiorentino) (dott. Giovanni Dipietro)