Sussiste la discriminazione da parte della PA anche se la norma che la consentiva viene dichiarata incostituzionale successivamente all’avvio dell’azione ex art. 44 TU. Commento a cura dell’avv. Alberto Guariso, servizio antidiscriminazione ASGI.
Trova definitiva e autorevolissima conferma da parte delle Sezioni Unite di Cassazione l’impostazione – sempre promossa e sostenuta da ASGI – secondo la quale l’azione civile contro la discriminazione è esperibile anche qualora una illegittima disparità di trattamento sia prevista da una legge nazionale e l’azione venga proposta al fine di sollevare una questione di costituzionalità.
A ben vedere tale conclusione potrebbe risultare, per i non addetti ai lavori, del tutto scontata: chiunque ambisca a ottenere in giudizio un determinato bene della vita lo può ovviamente ottenere anche invocando l’intervento della Corte Costituzionale e la conseguente dichiarazione di incostituzionalità della norma; sicché è del tutto conseguente che il medesimo iter giudiziario possa essere seguito anche quando il “bene della vita” cui si aspira è costituito dalla parità di trattamento.
Ma la discriminazione trascina sempre con sé l’originaria “maledizione” di un necessario, almeno parziale, intento soggettivo sicchè a taluno (anche nelle aule giudiziarie) sembrava impossibile che potesse farsi questione di discriminazione allorché il convenuto si era limitato ad applicare una legge vigente perché non ancora dichiarata incostituzionale, o “apparentemente vigente” per la difficoltà di intravederne con chiarezza il suo superamento ad opera di una disposizione comunitaria direttamente applicabile.
Si rinvengono cosi in talune isolatissime pronunce affermazioni curiose e sorprendenti come quella del Tribunale di Sassari 19.5.2014 (in causa Chavez c. INPS avente ad oggetto le prestazioni ai sordomuti) ove l’estensore, dopo aver (erroneamente) ritenuto che il diniego dell’INPS non poteva ritenersi discriminatorio “in quanto perfettamente conforme e rispettoso della normativa in materia“ ha anche aggiunto (forse prevedendo che la norma non avrebbe retto al giudizio della Corte Costituzionale, come poi effettivamente accaduto) : “diversa sarebbe la valutazione riservata al giudice di merito, il quale ben può adottare una interpretazione costituzionalmente orientata della legge e superare i limiti ivi previsi. Soluzione questa che esigeva tuttavia la formulazione della domanda nell’ambito di un ordinario giudizio di merito ex art. 442 cpc”.
O ancora nello stesso senso il Tribunale di Arezzo 3.11.11 secondo il quale, ove un effetto discriminatorio discenda dalla applicazione di una norma di legge, “va escluso che questa specie di discriminazione possa essere rimossa a mezzo del ricorso ex art. 44 che altrimenti verrebbe a configurarsi come uno strumento generale per la verifica di legittimità costituzionale e comunitaria di una norma, anziché come strumento sanzionatorio di singole condotte…” …
A parte queste incomprensibili e minoritarie ricostruzioni del giudizio antidiscriminatorio come giudizio che deve fermarsi “a metà strada” senza poter affrontare questioni di costituzionalità o disapplicazione, maggiore appeal rischiava di provenire da un passaggio (spesso ad arte “ritagliato”) della sentenza 24170/2006 della Cassazione: questa, nel respingere la domanda di uno straniero non comunitario volta ad accedere al pubblico impiego, aveva affermato che “la discriminazione è comportamento illecito, non configurabile, ovviamente, se tenuto in esecuzione di disposizioni normative”.
L’affermazione è pacifica, ma ovviamente si riferisce a una “disposizione normativa” rispettosa delle fonti superiori e certo non esime il Giudice da una attenta ricostruzione della gerarchia delle fonti e dunque dal verificare se la norma “apparentemente vigente” non sia in realtà sospetta di incostituzionalità o da disapplicare: in questi ultimi casi il trattamento di svantaggio connesso alla nazionalità (o ad altro fattore vietato) risulterà privo di basi legali e dunque si configurerà proprio quella “restrizione o esclusione” che – come ora confermato dalle Sezioni Unite – può essere contrastata con l’azione civile ex art. 28 Dlgs 150/11 (le Sezioni Unite fanno ancora riferimento all’art. 44 TU probabilmente per rafforzare il riferimento al fattore nazionalità, ma il giudizio in questione era già stato introdotto sotto la vigenza dell’art. 28 cit.).
Né a una diversa conclusione potrebbe giungersi deducendo la tutela del legittimo affidamento che ciascun consociato (e prima di tutti la pubblica amministrazione) potrebbe riporre nella legittimità delle norme di legge nazionali, le quali lo potrebbero indurre a ritenere che, agendo in conformità ad esse, non incorrerà in violazione del principio di non discriminazione.
Un accenno al tema dell’affidamento si trova in effetti nella giurisprudenza comunitaria, ad es. in Shmitzer, 11.11.14 C-530/14, ove la Corte afferma che la protezione del legittimo affidamento di dipendenti pubblici favoriti dal regime discriminatorio anteriore alla rimozione della discriminazione “costituisce un obiettivo legittimo di politica del lavoro e del mercato del lavoro e può giustificare per un periodo transitorio, il mantenimento delle retribuzione anteriori e conseguentemente di un regime discriminatorio in ragione dell’età” (punto 42).
Come ben si vede, si tratta quindi di una prospettiva del tutto diversa, quella cioè volta a indagare le modalità di ripristino della parità e gli effetti che questo ripristino può avere sui beneficiati dal precedente regime discriminatorio. E in proposito la Corte si limita ad affermare che ai fini di detto ripristino può venire in rilievo (oltre, aggiungiamo noi, al divieto di ritorsione ex art. 4bis dlgs 215/03 e il conseguente divieto di un ripristino della parità “al ribasso” mediante sottrazione a chi aveva conseguito il bene) anche la tutela dell’affidamento da parte di chi aveva percepito il trattamento discriminatorio.
Ma ciò non ha nulla a che vedere con l’obbligo di ciascun consociato (e prima di tutto della PA) di avere piena consapevolezza del precetto normativo in tutte le sue articolazioni, ordinaria, costituzionale e comunitaria e, per quanto di competenza di ciascuno, di attenervisi anche (e soprattutto) in tema di parità di trattamento e non discriminazione; con la conseguenza che non può certamente invocarsi la tutela dell’affidamento per giustificare violazioni di norme (a qualunque livello collocate) volte a tutelare uno dei più importanti diritti della persona.
Al più, la questione dell’affidamento potrà venire in rilievo nell’indagine sulla colpa e dunque sulle conseguenze risarcitorie (senza peraltro dimenticare la pronuncia CGE 22.4.97 Draempaehl che ha escluso la compatibilità con il diritto comunitario delle disposizioni nazionali che stabiliscono il principio della colpa per il risarcimento del danno subito a causa di una discriminazione): ma non potrà incidere sulla oggettiva esistenza di una violazione della parità di trattamento e dunque sulla azionabilità dell’art. 28 TU.
Ora le Sezioni Unite di Cassazione fanno piazza pulita di ogni residuo dubbio in materia e aprono la strada a un utilizzo senza ostacoli della azione civile contro la discriminazione: a qualunque livello si collochi la parità (sia esso quello costituzionale o quello di legge ordinaria) l’azione civile contro la discriminazione è sempre esperibile. E se nella specifica vicenda del servizio civile la parità era collocata a livello costituzionale, a maggior ragione lo stesso principio varrà allorché la parità sia prevista in sede comunitaria e l’azione venga esperita al fine di ottenere appunto la “parità comunitaria” in quanto prevalente su una “disparità nazionale” che deve invece essere disapplicata (come appunto accade nel vastissimo contenzioso in tema di accesso degli stranieri a prestazioni sociali che la legge nazionale limita agli italiani o a determinati gruppi di stranieri).
Ovviamente quanto sopra richiede una chiara consapevolezza dei limiti e della potenzialità della disapplicazione, in ordine alle quali la giurisprudenza appare talora incerta.
In realtà i principi generali sembrerebbero consolidati: applicazione diretta dei soli precetti di diritto derivato sufficientemente precisi e incondizionati; limitazione di tale applicazione ai soli rapporti verticali; estensione anche ai rapporti orizzontali – secondo il “principio Mangold” – dei soli precetti che costituiscono espressione di principi generali dell’ordinamento comunitario, ivi compreso il divieto di discriminazione. E tuttavia la loro concreta applicazione risulta sempre alquanto controversa come risulta ad esempio dal fatto che a fronte di un medesimo precetto comunitario paritario (l’art. 11 direttiva 2011/98) il medesimo Tribunale abbia in un caso rimesso alla Corte Costituzionale e pochi mesi dopo disapplicato la norma nazionale (cfr. Tribunale Bergamo ordinanza 25.11.2015 est.Bertoncini e ordinanza 15.4.2016 est. Azzolini)
Da rilevare infine che, benchè il terreno principe della disapplicazione sia quello della discriminazione per nazionalità, identici problemi possono porsi anche rispetto ad altri fattori di protezione. Cosi la Corte d’Appello di Milano (sentenza 15.4.14 in causa Bordonaro c. Aber Crombie & Fitch srl ) ha ammesso l’azione antidiscriminatoria (e accolto la domanda) in un caso in cui il ricorrente si doleva della applicazione, da parte del datore di lavoro, della norma nazionale in tema di contratto a chiamata, invocando la disapplicazione della norma stessa per contrasto con il divieto di discriminazione per età di cui alla direttiva 2000/78, accogliendo quindi la tesi della disapplicazione della norma nazionale nei rapporti orizzontali. Tesi che sembra essere stata accolta anche dalla Cassazione che ha poi operato il rinvio pregiudiziale alla CGE della norma stessa ma esclusivamente sulla effettiva esistenza del contrasto e non sulla questione della effettiva applicabilità, al rapporto di lavoro in questione, della direttiva, laddove il contrasto dovesse essere confermato dalla CGE.
Resta solo da osservare che, benchè il fulcro della decisione delle SU sia quello sin qui illustrato, non va sottovalutato l’ultimo passaggio della decisione, ove la Corte di Cassazione ricorda che il divieto di discriminazione nell’accesso al servizio impone non solo di non escludere gli stranieri, ma anche di non escludere “alcuni” stranieri, selezionandoli in base al titolo di soggiorno, come aveva tentato di fare il Governo nel primo bando successivo alla sentenza 119/15 e come è molto d’uso fare in tema di accesso al pubblico impiego o a prestazioni.
La strada per riforme pasticciate del sistema è dunque definitivamente sbarrata.
Il testo di riforma attualmente in discussione al Senato è coerente con questa apertura totale agli stranieri, non contenendo limiti di sorta connessi al titolo di soggiorno. Ma il richiamo della Corte giunge comunque opportuno, a futura memoria.