Cercare di prolungare contro la volontà della lavoratrice il periodo di astensione per maternità costituisce un’ipotesi di tentata estorsione. CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 21 settembre 2012, n. 36332
In fatto e diritto
Con la sentenza del 28 febbraio 2011 la Corte d’appello di Catania, che ha assolto il coimputato, ha confermato la sentenza emessa in data 16 dicembre 2009 dal locale Tribunale, appellata da F.R., dichiarato responsabile del delitto di tentata violenza privata, cosi riqualificata un’ipotesi di tentata estorsione originariamente contestata, commesso nell’ottobre 2003, perché, prospettando a G.M., al rientro dal periodo di astensione obbligatoria per maternità, di farla lavorare in condizioni invivibili in un posto degradato – dove in un’occasione l’aveva lasciata sola senza alcunché da fare – avrebbe compiuto atti idonei e univocamente rivolti a farle accettare le condizioni della società presso la quale lavorava, in sostanza, o le dimissioni o il prolungamento contro la sua volontà del periodo di maternità, retribuito solo al 30% dello stipendio corrisposto dall’ente previdenziale.
Propone ricorso per cassazione l’imputato sulla base di due motivi.
Con il primo motivo deduce violazione della legge penale e mancanza di motivazione relativamente alla qualificazione giuridica dei fatti, non essendosi mai verificata una coartazione della libertà di autodeterminazione psichica della G., dovendosi così escludere l’ipotesi di cui all’art. 610 cod. pen., e neppure potendosi configurare un tentativo punibile in quanto pacificamente la condotta del F. non avrebbe raggiunto alcun effetto, anche perché sarebbe stata priva del requisito dell’univocità degli atti, richiesto dall’art. 56 cod. pen. L’azione del F. non sarebbe stata rivolta in modo inequivoco a coartare la volontà della G., essendo possibile per quella un diverso atteggiamento della volontà, in particolare decidere di allontanarsi dal lavoro e riprendere l’astensione facoltativa post partum.
Con il secondo motivo deduce mancanza di motivazione relativamente alla propria richiesta di concessione delle circostanze attenuanti generiche e di determinazione della pena nel minimo edittale, argomenti del gravame che la Corte non avrebbe affrontato neppure per confutarli.
Osserva il Collegio che il primo motivo di ricorso non è fondato. Del tutto irrilevante invero che il comportamento del prevenuto abbia o meno ottenuto l’effetto intimidatorio nei confronti della G., atteso che i giudici del merito hanno ritenuto che ricorresse l’ipotesi del tentativo di violenza privata. E quanto all’idoneità dell’azione commessa dal F. correttamente i giudici del merito hanno osservato che:
– convocare in un locale fatiscente e abbandonato, anche se sede formale della società, l’unica dipendente che non aveva accettato di dare le dimissioni, rimasta alla società che i titolari avevano intenzione di far cessare per proseguire nella medesima attività sotto una nuova veste societaria, ma con lo stesso complesso aziendale e con gli stessi dipendenti licenziati e assunti nuovamente;
– avvertirla che quello sarebbe stato il suo luogo di lavoro, con nulla da fare in una stanza dotata di scrivania impolverata, perché solo quello meritava per la sua ostinazione a non volersi dimettere (non essendo licenziabile in quanto ancora nel periodo di puerperio) o a non voler proseguire nell’astensione facoltativa, ma al 30% della retribuzione,
erano stati atti che avevano prospettato una situazione lavorativa e personale deteriore per la G., e quindi ingiusta nell’ambito del rapporto di lavoro, avendo la stessa manifestato l’intenzione di riprendere la propria normale attività non appena terminata l’astensione obbligatoria, del tutto idonei ed inequivocabilmente diretti ad orientarne la volontà ad accettare le nuove condizioni che la società dal prevenuto rappresentata voleva imporre.
E il ricorso non riesce a dimostrare l’asserito errore dei giudici del merito laddove finisce sempre per evidenziare come la G. non si fosse lasciata intimidire e come poi la situazione si fosse risolta con l’accettazione da parte della società di trattenere in servizio a stipendio pieno la dipendente, lasciandola a casa fino allo scadere del termine di protezione dal licenziamento. Del tutto immotivata è invece la sentenza della Corte d’appello per quel che concerne il trattamento sanzionatorio. A fronte di motivazione generica del Tribunale il gravame aveva chiesto al giudice d’appello una rivisitazione del trattamento sanzionatorio sia con riferimento alle attenuanti generiche che alla misura della pena, richieste alle quali la Corte di merito non ha ritenuto di dare risposta alcuna, né l’argomentazione complessiva della sentenza apre spazi per individuare una motivazione implicita. Peraltro, il delitto ascritto al F. si è estinto per prescrizione nel termine di anni sette e mesi sei, applicabile sia in riferimento al testo vigente che al precedente testo dell’art. 157 cod. pen., così che in assenza di cause di sospensione e di correlative proroghe del termine, la causa estintiva ha operato nell’aprile 2011, in epoca immediatamente successiva alla pronuncia della sentenza di secondo grado. Ne consegue l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per intervenuta prescrizione, con conferma delle statuizioni civili a carico del F., il cui ricorso sul punto viene rigettato.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio, nei confronti di F.R. la sentenza impugnata, essendo il reato estinto per prescrizione; rigetta il ricorso relativamente alle statuizioni civili.