Discriminazione della lavoratrice a seguito di gravidanza, Tribunale di Pistoia, sentenza del 19 dicembre 2008

TRIBUNALE DI PISTOIA

 REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale di Pistoia, sezione lavoro, in persona del dott. Giuseppe De Marzo, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile in primo grado, iscritta al n. 808/2008 del Ruolo della Sezione controversie di lavoro

TRA

Consigliera di Parità della Provincia di Pistoia, in rappresentanza della signora L M, con l’avv. Chiara Lensi

– Ricorrente –

E

L. P. s.r.l., con l’avv. Marco Rossi

– Resistente-

OGGETTO: risarcimento danni

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso depositato il 1° agosto 2008, la Consigliera di parità della provincia di Pistoia, lamentando varie condotte discriminatorie in danno della lavoratrice in epigrafe indicata da parte del L. P. s.r.l., a seguito della comunicazione della sua gravidanza, ha chiesto ordinarsi la cessazione della condotta lesiva e condannarsi la datrice di lavoro al risarcimento del danno non patrimoniale.

Nel costituirsi in giudizio, la società convenuta ha eccepito il difetto di legittimazione attiva della Consigliera e, nel merito, ha contestato il fondamento della pretesa.

All’udienza di discussione la causa è stata decisa come da separato dispositivo

MOTIVI DELLA DECISIONE

L’eccezione di difetto di legittimazione attiva della Consigliera di parità della Provincia di Pistoia è destituita di fondamento.

Ai sensi dell’art. 36, comma 2, d. lgs. 198/2006, ferme restando le azioni in giudizio di cui all’articolo 37, commi 2 e 4, le consigliere o i consiglieri di parità provinciali e regionali competenti per territorio hanno facoltà di ricorrere innanzi al tribunale in funzione di giudice del lavoro o, per i rapporti sottoposti alla sua giurisdizione, al tribunale amministrativo regionale territorialmente competenti, su delega della persona che vi ha interesse, ovvero di intervenire nei giudizi promossi dalla medesima.

L’art. 38 del d. lgs. 198/2006 dispone testualmente:

  1. Qualora vengano posti in essere comportamenti diretti a violare le disposizioni di cui all’articolo 27, commi 1, 2, 3 e 4, e di cui all’articolo 5 della legge 9 dicembre 1977, n. 903, su ricorso del lavoratore o per sua delega delle organizzazioni sindacali, associazioni e organizzazioni rappresentative del diritto o dell’interesse leso o della consigliera o del consigliere di parità provinciale o regionale territorialmente competente, il tribunale in funzione di giudice del lavoro del luogo ove è avvenuto il comportamento denunziato, nei due giorni successivi, convocate le parti e assunte sommarie informazioni, se ritenga sussistente la violazione di cui al ricorso, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale, nei limiti della prova fornita, ordina all’autore del comportamento denunciato, con decreto motivato ed immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti.
  2. L’efficacia esecutiva del decreto non può essere revocata fino alla sentenza con cui il giudice definisce il giudizio instaurato a norma del comma seguente.
  3. Contro il decreto è ammessa entro quindici giorni dalla comunicazione alle parti opposizione davanti al giudice che decide con sentenza immediatamente esecutiva. Si osservano le disposizioni degli articoli 413 e seguenti del codice di procedura civile.
  4. L’inottemperanza al decreto di cui al primo comma o alla sentenza pronunciata nel giudizio di opposizione è punita ai sensi dell’articolo 650 del codice penale.
  5. Ove le violazioni di cui al primo comma riguardino dipendenti pubblici si applicano le norme previste in materia di sospensione dell’atto dall’articolo 21, ultimo comma, della legge 6 dicembre 1971, n. 1034.
  6. Ferma restando l’azione ordinaria, le disposizioni di cui ai commi da 1 a 5 si applicano in tutti i casi di azione individuale in giudizio promossa dalla persona che vi abbia interesse o su sua delega da un’organizzazione sindacale o dalla consigliera o dal consigliere provinciale o regionale di parità. 

Il comma 6 appena menzionato dimostra in modo evidente che anche la domanda risarcitoria di cui al comma 1 può essere proposta all’interno delle controversie individuali dalla consigliera di parità.

Ed è del resto evidente che l’azione risarcitoria relativa al danno non patrimoniale può essere esercitata sia all’interno dell’ordinario processo di cognizione (l’azione ordinaria di cui al comma 6 dell’art. 38) sia all’interno del più spedito modulo processuale delineato dai precedenti commi 1 a 5.

Poiché infatti viene in questione un rimedio di carattere sostanziale rispetto ad una peculiare forma di illecito, sarebbe inammissibile, per violazione dell’art. 3 Cost., qualunque interpretazione che discriminasse l’esperibilità dello stesso in relazione al tipo di istituto processuale.

Riprova di ciò si trae dal carattere generale della norma sul risarcimento del danno contenuta nell’art. 18 della direttiva 2006/54 CE (per la quale si veda infra, a proposito della liquidazione del pregiudizio), la quale individua i caratteri della proporzionalità e della dissuasività, senza correlare la quantificazione e a fortiori il riconoscimento a questo o quel modello processuale.

Ciò posto, esaminando il merito della questione, si rileva che, secondo l’art. 25 del d. lgs. 198/2006, costituisce discriminazione diretta, ai sensi del presente titolo, qualsiasi atto, patto o comportamento, nonché l’ordine di porre in essere un atto o un comportamento, che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga.

Ai sensi del successivo art. 40 d. lgs. 198/2006, quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all’assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l’onere della prova sull’insussistenza della discriminazione.

E, tuttavia, nella specie, sono ravvisabili comportamenti che, letti nella loro oggettività e nel loro complesso e riguardati alla luce del comportamento processuale della società convenuta, dimostrano in modo lampante l’esistenza di una discriminazione.

Nella specie, è vero che il 21 ottobre 2005 è stata spedita al datore di lavoro dalla lavoratrice la documentazione relativa alla sua richiesta di astensione anticipata dal lavoro; è vero che tale documentazione è stata ricevuta dal datore il 24 ottobre 2005; è altresì vero che sempre il 21 ottobre 2005, e quindi prima della formale conoscenza di tale documentazione, era stata spedita dal datore di lavoro la comunicazione di licenziamento. Ma certo è significativa la coincidenza temporale che non viene in alcun modo spiegata dalla resistente, la quale, a pag. 3 della comparsa, allude genericamente ad un licenziamento imputabile a “motivi diversi” (dalla discriminazione) e a pag. 6 al fatto che la lavoratrice era stata più volte richiamata “per scarso rendimento, sia per la negligenza con cui svolgeva la sua mansione, sia per le numerose, spesso improvvise e ingiustificate assenze”.

Vero è però che tali negligenze, talmente diffuse e gravi da giustificare il recesso datoriale, non hanno mai lasciato alcuna traccia scritta, non si sono mai tradotte in alcuna contestazione e in alcun provvedimento disciplinare, ancorché di tipo conservativo.

Ma, si ripete, anche volendo dare al licenziamento del 21 ottobre 2005 – poi immediatamente ritirato con efficacia retroattiva – un valore di mero, isolato indizio, resta tutta la condotta susseguente alla fine dell’astensione dal lavoro che dimostra l’esistenza di un evidente fine espulsivo della lavoratrice. E tale finalità non può certo collegarsi a reali inadempimenti della stessa, per le ragioni che si esamineranno, talché, a meno di non ipotizzare una condotta irragionevole del datore di lavoro (ciò che la difesa di quest’ultimo pur tenta di fare, parlando di una condotta un po’ confusionaria), non può che ascriversi alla condizione di donna che rientra, dopo un ampio, ma assolutamente legittimo periodo di astensione, al lavoro.

E’ questa non diversamente motivata condotta, sulla quale si soffermerà la motivazione nel prosieguo, che, saldandosi con l’indizio iniziale del quale s’è detto restituisce ragionevolezza, ma anche plateale illegittimità, alla condotta datoriale.

Ed, infatti, terminato il periodo di astensione facoltativa il 1° marzo 2007, la ricorrente viene collocata in ferie inizialmente sino al 12 aprile 2007.

Il 16 aprile 2007 il datore di lavoro, con una lettera avente ad oggetto: contestazione disciplinare, per motivi tecnico – organizzativi, autorizza la lavoratrice “a rimanere a casa, fino a nuova prossima comunicazione”. Si tratta evidentemente di una sospensione unilaterale del rapporto che il datore di lavoro, ancora con formula generica, spiega – ma solo nella comparsa di risposta – con “alcune modifiche dei propri assetti produttivi”. Va immediatamente rilevato l’assenza di una motivazione del provvedimento e la sua incongruente intestazione sono certamente idonei a creare, secondo un ordinario apprezzamento, un clima di sospensione sulle reali intenzioni del datore.

Sul punto della modifica degli assetti produttivi viene anche chiesta prova testimoniale, ma ciò non identifica una deduzione specifica su quali fossero le modifiche dell’assetto che impedivano di far svolgere alla ricorrente le mansioni originarie di orditrice.

Non viene allora in questione un sindacato del potere datoriale di organizzare liberamente i fattori della produzione, ma l’impossibilità, attesa la evanescenza delle deduzioni, di valutare la reale rispondenza al vero e la non pretestuosità, sì da rendere rilevante la prova richiesta.

Il rito del lavoro richiede infatti una precisa puntualizzazione delle circostanze di fatto, al fine di giungere ad una motivata decisione sulla necessità dei mezzi istruttori e, in difetto, ad una sollecita decisione del merito della controversia.

La successiva comunicazione datoriale del 30 maggio, nel comunicare la data della ripresa della prestazione (4 giugno 2007), contiene anche un invito alla ricorrente a partecipare ad un incontro in data anteriore per la definizione formale del nuovo incarico “e ulteriori valutazioni alternative”. Frase sibillina che, in assenza di speficazioni da parte del datore, altro non significa se non la possibilità di dimissioni.

In ogni caso, le considerazioni sopra svolte sulla genericità della deduzione concernente la modifica degli assetti organizzativi, consentono di concludere nel senso che non è stato assicurato il diritto della lavoratrice di essere adibite alle mansioni da ultimo svolte o a mansioni equivalenti, di cui all’art. 56 d. lgs. 151/2001.

Segue la paradossale comunicazione di ingiustificata assenza dal lavoro per il giorno 11 giugno 2007 (paradossale, poiché trova causa nel rifiuto della corrispondenza con la quale la lavoratrice trasmetteva il certificato di malattia: circostanza incontroversa e comunque risultante dai documenti prodotti), non seguita da alcuna conseguenza disciplinare, a dimostrazione del suo carattere pretestuoso.

Nel frattempo – e siamo giunti all’undici settembre 2007 – il datore di lavoro continuava a non erogare le retribuzioni spettanti alla lavoratrice: ciò che avrebbe fatto solo a seguito dell’accordo conciliativo del 22 ottobre 2007, nel quale il datore di lavoro riconosce le rivendicazioni della lavoratrice. Si badi che anche il licenziamento del settembre 2007 è stato al pari del primo annullato, a riprova dell’assoluta inconsistenza delle motivazioni sulle quali deve riposare l’atto di recesso datoriale.

Ora, è vero che i licenziamenti sono stati revocati, che le contestazioni disciplinari non hanno sortito effetto, che alla fine la lavoratrice non è stata adibita ai telai, che alla fine ha riscosso le mensilità arretrate di retribuzione, ma è anche vero che l’attuazione di quelli che appaiono, in difetto di alcuna reale giustificazione, meri diritti della lavoratrice (si badi che in tutti gli accordi non è dato cogliere alcuna concessione della lavoratrice, alcun aliquid datum sostanziale, sicché si è in presenza di clamorose retromarce del datore di lavoro) sono seguiti ad uno stillicidio di provocazione e inadempimenti durati nel tempo e tesi evidentemente a fiaccare la resistenza della lavoratrice, cercando di orientarne la volontà verso le dimissioni (obiettivo che, come s’è sopra visto, traspare in più occasioni nelle comunicazioni intercorse tra le parti)

L’art. 18 della direttiva 2006/54 CE, ricognitiva delle precedenti fonti comunitarie dispone che gli Stati membri introducono nei rispettivi ordinamenti giuridici nazionali le misure necessarie per garantire, per il danno subito da una persona lesa a causa di una discriminazione fondata sul sesso, un indennizzo o una riparazione reali ed effettivi, da essi stessi stabiliti in modo tale da essere dissuasivi e proporzionati al danno subito. Tale indennizzo o riparazione non può avere un massimale stabilito a priori, fatti salvi i casi in cui il datore di lavoro può dimostrare che l’unico danno subito dall’aspirante a seguito di una discriminazione ai sensi della presente direttiva è costituito dal rifiuto di prendere in considerazione la sua domanda.

Il contesto sopra analiticamente descritto rivela non solo un palese intento discriminatorio, ma soprattutto una pluralità di condotte estremamente incisive, per la loro idoneità a fiaccare la volontà della lavoratrice di continuare a lavorare alle dipendenze della resistente. La reiterazione delle condotte, la loro gravità, l’assoluta loro pretestuosità, la loro incidenza in una sfera personalissima e in un momento estremamente delicato dell’esistenza dell’individuo impongono di liquidare equitativamente il danno nella misura di euro 30.000,00.

Le spese seguono la soccombenza. Tenuto conto della natura e del valore della controversia nonché delle questioni trattate,  si liquidano come da dispositivo.    

                          P.Q.M.

Il giudice, dott. Giuseppe De Marzo, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta dalla Consigliera di Parità della Provincia di Pistoia nei confronti del L P s.r.l. l’accoglie e, per l’effetto, condanna la società convenuta al risarcimento del danno subito dalla lavoratrice L M e liquidato in euro 30.000,00, all’attualità, oltre interessi dal dì della sentenza al saldo, nonché al pagamento delle spese del processo, liquidate in euro 5.000,00, per diritti e onorari, cui devono aggiungersi rimborso spese generali, iva e cap come per legge.

Pistoia, 19 dicembre 2008