Velo Islamico, Discriminazione basata sulla religione, Corte di giustizia unione europea, sentenza del 14 marzo 2017

«Rinvio pregiudiziale – Politica sociale – Direttiva 2000/78/CE – Parità di trattamento – Discriminazione basata sulla religione o sulle convinzioni personali – Requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa – Nozione – Desiderio di un cliente che le prestazioni non vengano assicurate da una dipendente che indossa un velo islamico»

Nella causa C-188/15,

avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dalla Cour de cassation (Corte di cassazione, Francia), con decisione del 9 aprile 2015, pervenuta in cancelleria il 24 aprile 2015, nel procedimento

Asma Bougnaoui,

Association de défense des droits de l’homme (ADDH)

contro

Micropole SA, già Micropole Univers SA,

 

LA CORTE (Grande Sezione),

composta da K. Lenaerts, presidente, A. Tizzano, vicepresidente, R. Silva de Lapuerta,

  1. Ilešič, L. Bay Larsen, M. Berger, M. Vilaras e E. Regan, presidenti di sezione, A. Rosas,
  2. Borg Barthet, J. Malenovský, E. Levits, F. Biltgen (relatore), K. Jürimäe e C. Lycourgos,

giudici,

avvocato generale: E. Sharpston

cancelliere: V. Tourrès, amministratore

vista la fase scritta del procedimento e in seguito all’udienza del 15 marzo 2016, considerate le osservazioni presentate:

– per A. Bougnaoui e l’Association de défense des droits de l’homme (ADDH), da Waquet, avocate;

– per la Micropole SA, da D. Célice, avocat;

– per il governo francese, da G. de Bergues, D. Colas e R. Coesme, in qualità di agenti;

– per il governo svedese, da A. Falk, C. Meyer-Seitz, U. Persson, N. Otte Widgren, Karlsson e L. Swedenborg, in qualità di agenti;

– per il governo del Regno Unito, da S. Simmons, in qualità di agente, assistita da Bates, barrister;

– per la Commissione europea, da D. Martin e Van Hoof, in qualità di agenti,

sentite le conclusioni dell’avvocato generale, presentate all’udienza del 13 luglio 2016,

ha pronunciato la seguente

 Sentenza

1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (GU 2000, L 303, pag. 16).

2 Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra, da un lato, la sig.ra Asma Bougnaoui e l’Association de défense des droits de l’homme (ADDH) (Associazione per la tutela dei diritti dell’uomo; in prosieguo: l’«ADDH») e, dall’altro, la Micropole SA, già Micropole Univers SA (in prosieguo: la «Micropole»), in merito al licenziamento da parte della Micropole della sig.ra Bougnaoui, per il motivo che quest’ultima si rifiutava di togliere il velo islamico quando svolgeva la propria attività lavorativa presso clienti di tale impresa.

 

Contesto normativo

Direttiva 2000/78

3 I considerando 1, 4 e 23 della direttiva 2000/78 enunciano quanto segue:

«(1) Conformemente all’articolo 6 del trattato sull’Unione europea, l’Unione europea si fonda sui principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali e dello Stato di diritto, principi che sono comuni a tutti gli Stati membri e rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario. (…) (4) Il diritto di tutti all’uguaglianza dinanzi alla legge e alla protezione contro le discriminazioni costituisce un diritto universale riconosciuto dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, dalla convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, dai patti delle Nazioni Unite relativi rispettivamente ai diritti civili e politici e ai diritti economici, sociali e culturali e dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali di cui tutti gli Stati membri sono firmatari. La Convenzione n. 111 dell’Organizzazione internazionale del lavoro proibisce la discriminazione in materia di occupazione e condizioni di lavoro. (…) (23) In casi strettamente limitati una disparità di trattamento può essere giustificata quando una caratteristica collegata alla religione o alle convinzioni personali, a un handicap, all’età o alle tendenze sessual[i] costituisce un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, a condizione che la finalità sia legittima e il requisito sia proporzionato. Tali casi devono essere indicati nelle informazioni trasmesse dagli Stati membri alla Commissione».

4 L’articolo 1 della direttiva 2000/78 è del seguente tenore: «La presente direttiva mira a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento».

5 L’articolo 2, paragrafi 1 e 2, della direttiva in parola, prevede quanto segue: «1. Ai fini della presente direttiva, per “principio della parità di trattamento” si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su uno dei motivi di cui all’articolo 1. Ai fini del paragrafo 1: a) sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all’articolo 1, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga; b) sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di un particolare handicap, le persone di una particolare età o di una particolare tendenza sessuale, rispetto ad altre persone, a meno che tale disposizione, tale criterio o tale prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari; (…) (…)».

6 L’articolo 3, paragrafo 1, della medesima direttiva è così formulato: «Nei limiti dei poteri conferiti alla Comunità, la presente direttiva si applica a tutte le persone, sia del settore pubblico che del settore privato, compresi gli organismi di diritto pubblico, per quanto attiene: (…) c) all’occupazione e alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la retribuzione; (…)».

7 L’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2000/78 così recita: «Fatto salvo l’articolo 2, paragrafi 1 e 2, gli Stati membri possono stabilire che una differenza di trattamento basata su una caratteristica correlata a uno qualunque dei motivi di cui all’articolo 1 non costituisca discriminazione laddove, per la natura di un’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, tale caratteristica costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, purché la finalità sia legittima e il requisito proporzionato».

Normativa francese

8 Le disposizioni della direttiva 2000/78 sono state recepite nel diritto francese, in particolare, negli articoli L. 1132-1 e L. 1133-1 del code du travail (codice del lavoro) come risultanti dalla legge n. 2008-496, del 27 maggio 2008, recante varie disposizioni di adeguamento al diritto comunitario nel settore della lotta contro le discriminazioni (JORF del 28 maggio 2008, pag. 8801).

9 L’articolo L. 1121-1 del codice del lavoro così dispone: «Nessuno può imporre ai diritti delle persone o alle libertà individuali o collettive restrizioni che non siano giustificate dalla natura del compito da svolgere e proporzionate all’obiettivo perseguito».

10 L’articolo L. 1132-1 di detto codice, nella versione in vigore all’epoca dei fatti del procedimento principale, stabiliva quanto segue: «Nessuno può essere escluso da una procedura di assunzione o dall’accesso a uno stage o a un periodo di formazione presso un’impresa e nessun lavoratore può essere sanzionato, licenziato o essere oggetto di una misura discriminatoria, diretta o indiretta, quale definita all’articolo 1 della legge n. 2008-496 del 27 maggio 2008, recante varie disposizioni di adeguamento al diritto comunitario nel settore della lotta contro le discriminazioni, segnatamente in materia di retribuzione, ai sensi dell’articolo L. 3221-3, misure dipartecipazione o distribuzione di azioni, formazione, riqualificazione, assegnazione, qualificazione, classificazione, promozione, trasferimento o rinnovo contrattuale in ragione dell’origine, del sesso, dei costumi, dell’orientamento o identità sessuale, dell’età (…) delle opinioni politiche, delle attività sindacali o mutualistiche, delle convinzioni religiose, dell’aspetto fisico, del cognome (…) o a motivo del loro stato di salute o della loro disabilità».

11 L’articolo L. 1133-1 del medesimo codice è così formulato: «L’articolo L. 1132-1 non preclude differenze di trattamento che rispondano a un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo e il requisito proporzionato».

12 L’articolo L. 1321-3 del codice del lavoro, nella versione in vigore all’epoca dei fatti del procedimento principale, disponeva quanto segue: «Il regolamento interno non può contenere:

1.disposizioni contrarie alle leggi o ai regolamenti o alle norme delle convenzioni e degli accordi collettivi di lavoro applicabili all’impresa o stabilimento;

2.disposizioni che impongano ai diritti delle persone e alle libertà individuali e collettive restrizioni che non siano giustificate dalla natura del compito da svolgere o proporzionate all’obiettivo perseguito

3. disposizioni che discriminino i lavoratori nell’ambito dell’occupazione e delle condizioni di lavoro, a parità di capacità professionale, in ragione dell’origine, del sesso, dei costumi, dell’orientamento sessuale, dell’età (…) delle opinioni politiche, delle attività sindacali o mutualistiche, delle convinzioni religiose, dell’aspetto fisico, del cognome o a motivo del loro stato di salute o della loro disabilità».

Procedimento principale e questione pregiudiziale

13 Dagli elementi del fascicolo di cui dispone la Corte risulta che la sig.ra Bougnaoui ha incontrato, nell’ottobre del 2007, durante una fiera dello studente, prima di essere assunta dall’impresa privata Micropole, un rappresentante di quest’ultima, che l’ha informata della circostanza che il fatto di portare il velo islamico avrebbe potuto porre problemi quando sarebbe stata a contatto con i clienti di tale società. La sig.ra Bougnaoui, al momento di presentarsi alla Micropole, in data 4 febbraio 2008, per effettuarvi il proprio tirocinio di fine studi, indossava una semplice fascia. Successivamente, ha indossato un velo islamico sul luogo di lavoro. Alla fine di detto tirocinio, la Micropole ha proceduto alla sua assunzione, a decorrere dal 15 luglio 2008, sulla base di un contratto di lavoro a tempo indeterminato, in qualità di ingegnere progettista.

14 Dopo essere stata convocata, il 15 giugno 2009, ad un colloquio in vista di un eventuale licenziamento, la sig.ra Bougnaoui è stata licenziata con una lettera del 22 giugno 2009, redatta nei seguenti termini: «(…) Nell’ambito delle Sue mansioni, è chiamata a intervenire nel quadro di incarichi per conto di nostri clienti. Le abbiamo chiesto di intervenire per il cliente (…) lo scorso 15 maggio presso il [suo] sito (…). Successivamente a tale intervento, il cliente ci ha riferito che la circostanza che Lei indossasse il velo – che effettivamente porta ogni giorno – aveva infastidito alcuni suoi collaboratori. Il cliente ha inoltre chiesto che non vi fosse “alcun velo la prossima volta”. Al momento della Sua assunzione presso la nostra società e dei Suoi colloqui con il Suo responsabile operativo (…) e con la responsabile della selezione del personale (…), l’argomento del velo era stato affrontato molto chiaramente con Lei. Avevamo precisato che rispettiamo pienamente il principio della libertà di opinione nonché le convinzioni religiose individuali, ma che, quando fosse stata a contatto con i clienti dell’impresa, all’interno o all’esterno della stessa, non avrebbe potuto portare il velo in qualsiasi circostanza. Infatti, nell’interesse e ai fini dello sviluppo dell’impresa, siamo costretti, di fronte ai nostri clienti, a far sì che le scelte personali dei nostri dipendenti siano espresse con discrezione. Durante il nostro colloquio dello scorso 17 giugno, abbiamo ribadito tale principio di necessaria neutralità chiedendole di applicarlo nei confronti della nostra clientela. Le abbiamo nuovamente chiesto se poteva accettare detti obblighi professionali acconsentendo a non portare il velo e Lei ha risposto in senso negativo. Riteniamo che tali fatti giustifichino, per le predette ragioni, la risoluzione del Suo contratto di lavoro. Atteso che la Sua posizione rende impossibile la prosecuzione della Sua attività al servizio dell’impresa, poiché per causa a Lei addebitabile non possiamo prendere in considerazione la prosecuzione di prestazioni presso i nostri clienti, Lei non avrà diritto al preavviso. Poiché il mancato rispetto del preavviso è a Lei imputabile, non riceverà la retribuzione per il periodo di preavviso. Siamo dispiaciuti per questa situazione in quanto le Sue competenze professionali e il Suo potenziale ci lasciavano sperare in una collaborazione duratura».

15 Ritenendo che tale licenziamento fosse discriminatorio, la sig.ra Bougnaoui, in data 8 settembre 2009, ha proposto ricorso dinanzi al conseil de prud’hommes de Paris (giudice in materia di diritto del lavoro di Parigi, Francia). Quest’ultimo, il 4 maggio 2011, ha condannato la Micropole al pagamento di un’indennità di preavviso per non aver indicato nella lettera di licenziamento la gravità della colpa contestata alla sig.ra Bougnaoui e ha respinto il ricorso, per il resto, in quanto la restrizione alla libertà della sig.ra Bougnaoui di indossare il velo islamico era giustificata dal fatto che quest’ultima era a contatto con i clienti di detta società ed era proporzionata all’obiettivo della Micropole di preservare la propria immagine e di non ledere le convinzioni personali dei suoi clienti.

16 La sig.ra Bougnaoui, sostenuta dall’ADDH, ha proposto appello avverso tale decisione dinanzi alla cour d’appel de Paris (Corte d’appello di Parigi, Francia). Con decisione del 18 aprile 2013, quest’ultima ha confermato la decisione del conseil de prud’hommes de Paris (giudice in materia di diritto del lavoro di Parigi). Nella sua decisione, essa ha dichiarato, in particolare, che il licenziamento della sig.ra Bougnaoui non era dovuto ad una discriminazione in base alle sue convinzioni religiose, perché essa poteva continuare ad esprimerle all’interno dell’impresa, e che detto licenziamento era giustificato da una restrizione legittima derivante dagli interessi dell’impresa, mentre l’esercizio, da parte della dipendente, della libertà di manifestare le sue convinzioni religiose fuoriusciva dall’ambito aziendale e s’imponeva ai clienti dell’impresa senza tener conto della loro sensibilità, il che violava i diritti di terzi.

17 La sig.ra Bougnaoui e l’ADDH hanno impugnato la decisione del 18 aprile 2013 dinanzi alla Cour de cassation (Corte di cassazione, Francia). Dinanzi a tale giudice esse hanno fatto valere che la cour d’appel de Paris aveva violato in particolare gli articoli L. 1121-1,1321-3 e L. 1132-1 del codice del lavoro. Infatti, le restrizioni alla libertà religiosa dovrebbero essere giustificate dalla natura del compito da espletare e soddisfare un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, a condizione che la finalità sia legittima e il requisito sia proporzionato. Orbene, il fatto di indossare il velo islamico da parte di una dipendente di un’impresa privata, a contatto con la clientela, non pregiudicherebbe i diritti o le convinzioni di terzi e il disagio o la sensibilità della clientela di una società commerciale, che si asserisce siano stati provati alla sola vista di un segno di appartenenza religiosa, non costituirebbe un criterio efficace o legittimo, estraneo a qualsiasi discriminazione, che giustifichi la prevalenza degli interessi economici o commerciali di detta società sulla libertà fondamentale di religione di un lavoratore dipendente.

18 La chambre sociale de la Cour de cassation (sezione lavoro della Corte di cassazione), investita dell’impugnazione proposta dalle ricorrenti nel procedimento principale, osserva che, nella sua sentenza del 10 luglio 2008, Feryn (C-54/07, EU:C:2008:397), la Corte si è limitata a statuire che la circostanza che un datore di lavoro dichiari pubblicamente che non assumerà lavoratori dipendenti aventi una certa origine etnica o razziale costituisce una discriminazione diretta nell’assunzione ai sensi della direttiva 2000/43/CE del Consiglio, del 29 giugno 2000, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica (GU 2000, L 180, pag. 22), ma non si è pronunciata sulla questione se l’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2000/78 debba essere interpretato nel senso che costituisce un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, per la natura di un’attività professionale o per il contesto in cui essa viene espletata, il desiderio di un cliente di un datore di lavoro che i servizi di quest’ultimo non siano più garantiti da un lavoratore dipendente per uno dei motivi previsti dalla direttiva 2000/78.

19 Alla luce di tali considerazioni, la Cour de cassation (Corte di cassazione) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale: «Se le disposizioni di cui all’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2000/78 debbano essere interpretate nel senso che, per la natura di un’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, il desiderio di un cliente di una società di consulenza informatica che i servizi informatici di quest’ultima non siano più garantiti da una dipendente, ingegnere progettista, che indossa un velo islamico costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa».

Sulla domanda di riapertura della fase orale del procedimento 20 Dopo la presentazione delle conclusioni dell’avvocato generale, la Micropole ha proposto, il 18 novembre 2016, una domanda di riapertura della fase orale del procedimento ai sensi dell’articolo 83 del regolamento di procedura della Corte.

21 A sostegno della sua domanda, la Micropole ha affermato che la Corte doveva prendere conoscenza delle sue osservazioni dopo la pronuncia di dette conclusioni e che essa intendeva fornire informazioni supplementari alla Corte.

22 A questo proposito, si deve ricordare che la Corte può, in qualsiasi momento, sentito l’avvocato generale, disporre la riapertura della fase orale del procedimento, conformemente all’articolo 83 del suo regolamento di procedura, in particolare se essa non si ritiene sufficientemente edotta oppure quando la causa dev’essere decisa in base a un argomento che non è stato oggetto di discussione tra le parti o gli interessati menzionati dall’articolo 23 dello Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea.

23 La Corte, sentito l’avvocato generale, ritiene di disporre, nella specie, di tutti gli elementi necessari per statuire sulla controversia di cui è investita e che quest’ultima non debba essere esaminata alla luce di un argomento non dibattuto dinanzi ad essa.

24 Di conseguenza, occorre respingere la domanda di riapertura della fase orale del procedimento proposta dalla Micropole.

Sulla questione pregiudiziale

25 Con la sua questione, il giudice del rinvio chiede sostanzialmente se l’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2000/78 debba essere interpretato nel senso che la volontà di un datore di lavoro di tener conto del desiderio di un cliente che i servizi di detto datore di lavoro non siano più assicurati da una dipendente che indossi il velo islamico, costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa ai sensi di tale disposizione.

26 In primo luogo, occorre ricordare che, conformemente all’articolo 1 di detta direttiva, quest’ultima mira a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento.

27 Per quanto concerne la nozione di «religione» di cui all’articolo 1 di tale direttiva, occorre rilevare che tale direttiva non contiene alcuna definizione di detta nozione.

28 Tuttavia, il legislatore dell’Unione ha fatto riferimento, al considerando 1 della direttiva 2000/78, ai diritti fondamentali quali garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 (in prosieguo: la «CEDU»), che prevede, all’articolo 9, che ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione e che tale diritto include, in particolare, la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti.

29 Nel medesimo considerando, il legislatore dell’Unione ha fatto altresì riferimento alle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto dell’Unione. Orbene, tra i diritti che risultano da tali tradizioni comuni e che sono stati riaffermati nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta») figura il diritto alla libertà di coscienza e di religione sancito all’articolo 10, paragrafo 1, della Carta. Conformemente a detta disposizione, tale diritto include la libertà di cambiare religione o convinzione, così come la libertà di manifestare la propria religione o la propria convinzione individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti. Come risulta dalle spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali (GU 2007, C 303, pag. 17), il diritto garantito dall’articolo 10, paragrafo 1, della medesima corrisponde al diritto garantito dall’articolo 9 della CEDU e, conformemente all’articolo 52, paragrafo 3, della Carta, ha significato e portata identici a detto articolo.

30 Poiché la CEDU e, successivamente, la Carta forniscono un’ampia accezione della nozione di «religione», includendovi la libertà delle persone di manifestare la propria religione, occorre considerare che il legislatore dell’Unione ha inteso adottare lo stesso approccio in occasione dell’adozione della direttiva 2000/78, cosicché si deve interpretare la nozione di «religione» di cui all’articolo 1 di tale direttiva nel senso che essa comprende sia il forum internum, vale a dire il fatto di avere convinzioni personali, sia il forum externum, ossia la manifestazione in pubblico della fede religiosa.

31 In secondo luogo, occorre rilevare che la decisione di rinvio non consente di sapere se la questione del giudice del rinvio si basi sulla constatazione di una disparità di trattamento direttamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali o su quella di una disparità di trattamento indirettamente fondata su tali criteri.

32 In proposito, se dovesse risultare, circostanza che spetta a tale giudice verificare, che il licenziamento della sig.ra Bougnaoui si è basato sul mancato rispetto di una norma interna che era in vigore in detta impresa, la quale vieta di esibire qualunque segno visibile di convinzioni politiche, filosofiche o religiose, e che tale norma, in apparenza neutra, comporta, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione o ideologia, come la sig.ra Bougnaoui, si dovrebbe concludere per l’esistenza di una disparità di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78 (v., in tal senso, sentenza pronunciata in data odierna G4S Secure Solutions, C-157/15, punti 30 e 34).

33 Ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), i), di tale direttiva, tale disparità di trattamento non costituirebbe tuttavia una discriminazione indiretta qualora fosse oggettivamente giustificata da un obiettivo legittimo, quale l’attuazione, da parte della Micropole, di una politica di neutralità nei confronti della sua clientela, e se i mezzi impiegati per il conseguimento di tale obiettivo fossero appropriati e necessari (v., in tal senso, sentenza pronunciata in data odierna G4S Secure Solutions, C-157/15, punti da 35 a 43).

34 Per contro, nel caso in cui il licenziamento della sig.ra Bougnaoui non si basasse sull’esistenza di una norma interna quale prevista al punto 32 della presente sentenza, occorre esaminare, come richiede la questione posta dal giudice del rinvio, se la volontà di un datore di lavoro di tener conto del desiderio di un cliente che i servizi non siano più prestati da una dipendente che, come la sig.ra Bougnaoui, sia stata assegnata da tale datore di lavoro presso detto cliente e che indossi un velo islamico, costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2000/78.

35 In proposito, ai termini di tale disposizione, gli Stati membri possono stabilire che una differenza di trattamento basata su una caratteristica correlata a uno qualunque dei motivi di cui all’articolo 1 di detta direttiva non costituisca discriminazione laddove, per la natura di un’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, tale caratteristica costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, purché la finalità sia legittima e il requisito proporzionato.

36 Pertanto, spetta agli Stati membri stabilire, se del caso, che una differenza di trattamento fondata su una caratteristica correlata a uno qualunque dei motivi di cui all’articolo 1 della stessa direttiva non costituisce discriminazione. Ciò sembra verificarsi nel caso di specie, in forza dell’articolo L. 1133-1 del codice del lavoro, circostanza che, tuttavia, spetta al giudice del rinvio verificare.

37 Ciò premesso, occorre ricordare che la Corte ha più volte dichiarato che dall’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2000/78 risulta che non è il motivo su cui è basata la disparità di trattamento a costituire un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, ma una caratteristica ad esso legata (v. sentenze del 12 gennaio 2010, Wolf, C-229/08, EU:C:2010:3, punto 35; del 13 settembre 2011, Prigge e a., C-447/09, EU:C:2011:573, punto 66; del 13 novembre 2014, Vital Pérez, C-416/13, EU:C:2014:2371, punto 36, nonché del 15 novembre 2016, Salaberria Sorondo, C-258/15, EU:C:2016:873, punto 33).

38 Va inoltre sottolineato che, a norma del considerando 23 della direttiva 2000/78, è solo in casi strettamente limitati che una caratteristica collegata, in particolare, alla religione può costituire un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa.

39 Occorre altresì precisare che, secondo i termini stessi dell’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2000/78, la caratteristica in questione può costituire un requisito del genere unicamente «per la natura di un’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata».

40 Da dette diverse indicazioni risulta che la nozione di «requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa», a norma di tale disposizione, rinvia a un requisito oggettivamente dettato dalla natura o dal contesto in cui l’attività lavorativa in questione viene espletata. Essa, per contro, non può includere considerazioni soggettive, quali la volontà del datore di lavoro di tener conto dei desideri particolari del cliente.

41 Di conseguenza, occorre rispondere alla questione posta dal giudice del rinvio che l’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2000/78 dev’essere interpretato nel senso che la volontà di un datore di lavoro di tener conto del desiderio di un cliente che i servizi di tale datore di lavoro non siano più assicurati da una dipendente che indossa un velo islamico non può essere considerata come un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa ai sensi di detta disposizione.

Sulle spese

42 Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice del rinvio, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione

Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara:

L’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, dev’essere interpretato nel senso che la volontà di un datore di lavoro di tener conto del desiderio di un cliente che i servizi di tale datore di lavoro non siano più assicurati da una dipendente che indossa un velo islamico non può essere considerata come un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa ai sensi di detta disposizione.