Disabilità e discriminazione: nuove frontiere per la tutela dell’occupazione del disabile. Pietro Lambertucci Professore ordinario di diritto del lavoro – Università de L’Aquila
I recenti provvedimenti attuativi del c.d. Jobs act hanno coinvolto anche i soggetti affetti da disabilità sotto diversi versanti, relativi anche alle tutele da assicurargli nel caso di licenziamento ingiustificato.
In particolare, sull’”onda lunga” d un riordino delle politiche attive disegnato dal d.lgs. 14 settembre 2015, n. 150 (che dovrebbe sortire l’effetto di agevolare l’ingresso dei lavoratori in cerca di occupazione nel mercato del lavoro), si rivisitano, con il d.lgs. 14 settembre 2015,n. 151, anche gli strumenti per realizzare il collocamento c. d. “mirato” dei disabili, introdotto dalla legge 12 marzo 1999, n. 68 e le modalità che ne assicurino l’effettivo ingresso nell’impresa.
Nel contempo la questione del licenziamento del lavoratore disabile – dibattuta, nelle sue diverse sfaccettature, dalla giurisprudenza – trova motivi di rinnovato interesse nella rivisitazione dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori, condotta prima dalla legge 28 giugno 2012, n.92 (legge Monti – Fornero) e poi dal d.lgs. 4 marzo 2015, n.23 (decreto Renzi).
Va anticipato che, al di sopra delle fonti nazionali, si staglia il “presidio” di una normativa comunitaria antidiscriminatoria, particolarmente incisiva, in base alla quale “rileggere” la disciplina di tutela dei disabili, non solo con riguardo al trattamento da riservare a questi ultimi all’interno del rapporto di lavoro e, nello specifico, in sede di risoluzione dello stesso, ma anche, a ben guardare, in merito all’accesso al lavoro, legando, in tal modo, in una prospettiva unificante, tutto lo svolgimento del rapporto di lavoro delle persone affette da disabilità.
Una delle novità più rilevanti, contenute nel d.lgs. n. 151 del 2015, è costituita, infatti, dal rafforzamento del collocamento c. d. mirato, sul quale aveva già puntato la riforma del 1999, attraverso la definizione ora di “linee guida” (affidate ad una successiva decretazione ministeriale), i cui principi generali sono già stabiliti nell’art. 1, primo comma, d.lgs. n. 151 del 2015.
E’ apprezzabile che il legislatore abbia individuato, con un’ elencazione particolarmente attenta, i vari profili che possono favorire il collocamento mirato del disabile: dalla promozione di una rete “integrata” con i servizi sociali, sanitari, educativi e formativi del territorio, ad accordi territoriali con le organizzazioni sindacali, le associazioni delle persone con disabilità e quelle del terzo settore, fino alle modalità di valutazione bio-psico- sociale della disabilità. In tale contesto si innesta anche la predisposizione di progetti di inserimento lavorativo dei disabili, con l’istituzione di un responsabile dei medesimi, depositario del compito di predisporre “progetti personalizzati” per i disabili e di risolverne i problemi legati alle condizioni di lavoro.
A tale stregua particolare interesse assume la disposizione, contenuta nell’art. 1, primo comma, lett. d, d.lgs. n. 151 del 2015, che demanda alle predette linee guida l’analisi delle caratteristiche dei posti di lavoro da assegnare alle persone con disabilità, anche con riferimento agli “accomodamenti ragionevoli” che il datore di lavoro è tenuto ad adottare.
Quest’ ultimo costituisce un profilo nevralgico della disciplina, in quanto già l’art 5 della direttiva comunitaria del 27 novembre 2000 (2000/78/CE), al fine di garantire il rispetto del principio di parità di trattamento, impone, in capo al datore di lavoro, l’adozione di “soluzioni ragionevoli” per i disabili, per consentire a questi ultimi di accedere ad un lavoro, di svolgerlo, di ricevere una formazione adeguata, a meno che tali provvedimenti richiedano, a carico del primo, un onere finanziario sproporzionato.
Tale indicazione, inizialmente non contenuta nel provvedimento attuativo della direttiva (d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216) . è stata ora inserita dalla legge 9 agosto 2013, n. 99, che ha aggiunto un comma 3-bis all’art. 3 del d.lgs. n. 216 del 2003, il quale, al fine di garantire il rispetto del principio di parità di trattamento con riferimento alle persone con disabilità, prescrive ai datori di lavoro, pubblici e privati, l’adozione di “accomodamenti ragionevoli”, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata con la legge 3 marzo 2009, n. 18.
E’ interessante notare che, mentre l’art. 27 della predetta Convenzione si limita a richiamare l’obbligo in discorso, viceversa la direttiva comunitaria n. 78 del 2000 individua le soluzioni ragionevoli in quelle destinate a sistemare il luogo di lavoro in funzione dell’handicap, ad esempio sistemando i locali o adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro, la ripartizione dei compiti o fornendo mezzi di formazione o di inquadramento (ventesimo considerando).
Si tratta, in buona sostanza, dal tenore meramente esemplificativo del precetto normativo, non solo dell’eliminazione, negli ambienti di lavoro, degli ostacoli che impediscono al disabile di fornire la prestazione lavorativa, ma anche della promozione di misure le quali incidono sull’organizzazione del lavoro e sulla prestazione di lavoro anche degli altri dipendenti (con riguardo, ad esempio, alla riassegnazione delle mansioni e alla disciplina degli orari di lavoro).
E chiaro che su questa linea dovrà essere anche rivisitata la disciplina, contenuta nella legge m. 68 del 1999, che attiene alla tutela del disabile sopravvenuto (art. 4, quarto comma, l. cit.) e alle misure per garantirne l’occupazione nella diversa ipotesi di aggravamento dello stato di disabilità (art.10, terzo comma, l. cit.) e, più, in generale dovrà essere “calibrato” il licenziamento del disabile.
Problema vivacemente discusso è quello che attiene al licenziamento del disabile, non tanto sotto il profilo del possibile licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, che non deve presentare profili di differenziazione di disciplina con gli altri lavoratori (ex art. 10, primo comma, l. n. 68 del 1999), salvo il controllo, da un lato, dell’eventuale inadempimento contrattuale in relazione al “grado” di capacità lavorativa posseduta dal primo (ex art. 10, secondo comma, l. cit.) e, dall’altro, del possibile carattere discriminatorio del recesso datoriale.
L’aspetto più delicato riguarda, viceversa, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il quale infatti investe il problematico rapporto tra organizzazione aziendale e disabilità.
La questione è stata già affrontata dalla legge n. 68 del 1999 ed attiene al caso di aggravamento delle condizioni di salute o di significative variazioni dell’organizzazione del lavoro, le quali possono comportare la necessità di “verificare” l’ulteriore proseguimento del rapporto di lavoro con il disabile (art. 10, terzo comma, l. cit.). In tali casi il rapporto di lavoro con il disabile può essere risolto solo qualora, pur essendo stati attuati i possibili adattamenti dell’organizzazione del lavoro, la commissione, di cui alla legge 5 febbraio 1992, n. 104, accerti la definitiva impossibilità di reinserire il disabile nel contesto produttivo (art. 10, terzo comma, ult. periodo, l, cit.).
Si tratta di un’ipotesi “speciale” di giustificato motivo oggettivo (ex art. 3 legge 15 luglio 1966, n. 604), che configura il licenziamento come l’extrema ratio , cioè come eventuale momento finale dopo una sospensione, in via provvisoria, del rapporto di lavoro e concomitante obbligo, posto in capo al datore di lavoro, di procedere ai “possibili adattamenti dell’organizzazione del lavoro”, tra i quali deve essere, in primo luogo, ricompreso – secondo gli interpreti – anche il c. d repèchage , disciplinato espressamente solo all’art. 4, quarto comma, l. n. 68 del 1999, con riferimento al disabile sopravvenuto .
Inoltre, più incisivamente, il precetto normativo impone al datore di lavoro di apportare le modifiche organizzative necessarie per il reinserimento lavorativo del disabile, il che, in secondo luogo, dovrebbe comportare anche il superamento del dogma dell’intangibilità dell’assetto organizzativo dell’impresa, alla luce del “contemperamento” dell’art. 41, primo comma, della Costituzione con i valori della “sicurezza, libertà e dignità umana” (ex art. 41, secondo comma, Cost. ) .
A tale stregua ora abbiano anche una sponda rappresentata – in ricaduta dall’ordinamento comunitario (art 5 della direttiva n. 78 del 2000) – dall’obbligo, posto in caso al datore di lavoro, di predisporre gli “accomodamenti ragionevoli”, di cui all’art. 3, comma 3-bis, d.lgs. n. 216 del 2003, alla luce del quale, per un verso “reinterpretare” gli interventi della giurisprudenza e, per altro verso, riconsiderare sicuramente – giova ribadirlo – la predisposta organizzazione aziendale.
A tal riguardo la direttiva comunitaria n. 78 del 2000 cerca di realizzare un complesso equilibrio, che intende mettere in condizione il disabile di trovare una collocazione all’interno del contesto produttivo, con la rimozione di tutti gli ostacoli che si oppongono al suo utile inserimento (imponendo, a tale scopo, al datore di lavoro le predette “soluzioni ragionevoli”), con la partecipazione delle istituzioni pubbliche.
In tal modo, con riferimento al licenziamento del disabile, se è vero che la direttiva comunitaria non prescrive “l’assunzione, la promozione o il mantenimento dell’occupazione, né prevede la formazione di un individuo non competente, non capace o non disponibile ad effettuare le funzioni essenziali del lavoro in questione”, tuttavia su tale indicazione deve essere calibrato “l’obbligo di prevedere una soluzione appropriata per i disabili “(considerando diciassette della direttiva).
A questo punto si collocano le “soluzioni ragionevoli” (ex art. 5 della direttiva), direttamente ricollegabili alle nozione di discriminazione (diretta ed indiretta ex art. 2, lett. a e b,) e la cui mancata adozione non potrà che considerarsi come una discriminazione diretta .
Inoltre, sempre attraverso la “lente” delle soluzioni ragionevoli, deve essere valutato l’orientamento che intende giustificare la mancata assunzione (o il licenziamento) con ragioni che attengono alla tutela della salute e della sicurezza dei compagni di lavoro, in qualche misura richiamando il previgente art. 20 l. n. 482 del 1968.
Innanzitutto sia la direttiva comunitaria (art. 2, quinto comma) che il provvedimento normativo di attuazione (art.3, secondo comma, d. lgs, n. 216 del 2003), prevedono espressamente clausole di “salvezza” specifiche che non includono, per l’handicap, l’ipotesi indicata.
In ogni caso non si può estendere la portata dalla clausola di salvezza della “tutela della salute e dei diritti e delle libertà altrui”, in quanto, a prescindere dalla sua interpretazione, anche a fronte di una disposizione, formulata sulla falsariga dell’art. 20 l. n. 482 del 1968, scatta pur sempre, alla stregua dell’art. 2, secondo comma, lett, ii), della direttiva, la causa di giustificazione dell’adozione di “misure adeguate” volte ad ovviare agli svantaggi nei confronti dei soggetti affetti da handicap.
In altre parole il bilanciamento dei delineati interessi non può che avvenire sul piano dell’adozione dei c. d. accomodamenti ragionevoli, per cui solo dopo aver inutilmente sperimentato “soluzioni adeguate” – per consentire l’inserimento del disabile senza pregiudizio dei beni della salute e sicurezza (anche degli impianti) – è possibile la risoluzione del rapporto di lavoro di quest’ultimo.
D’altronde – e su piano più generale – la valorizzazione della capacità lavorativa del disabile, ai fini dell’ instaurazione (o della prosecuzione) del rapporto di lavoro potrà essere verificata solo dopo aver adottato gli adattamenti necessari del “posto” di lavoro.
A questo punto, in considerazione dell’obbligo – imposto dalla legge (art. 3, comma 3-bis, d.lgs. n. 216 del 2003) – di adottare soluzioni ragionevoli (le quali abbracciano, come già segnalato, sia misure relative agli ambienti di lavoro, nonché misure riguardanti l’organizzazione del lavoro e la persona del lavoratore (ventesimo considerando della direttiva comunitaria n. 78 del 2000), la giurisprudenza sarà chiamata ad individuare, caso per caso, il rapporto tra professionalità del disabile e inserimento (o utilizzazione) del medesimo nel contesto produttivo.
Comunque l’inserimento della disciplina dei disabili all’interno del diritto antidiscrinatorio, oltre alle significative conseguente sul piano probatorio, getta una nuova luce anche sul tormentato percorso del legislatore di riforma dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, disposta dapprima dalla legge c . d. “Monti- Fornero”del 2012 e poi ulteriormente “aggiustata” dal decreto c.. d. “Renzi” del 2015, in attuazione del Jobs act.
In primo luogo – e in ordine temporale – la prima rivisitazione della norma statutaria aveva attratto, all’interno della reintegrazione “attenuata”, l’ipotesi del licenziamento carente di giustificazione, intimato ai sensi degli artt. 4, quarto comma, e 10, terzo comma, l. n. 68 del 1999, per motivo oggettivo, consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore (art. 18, settimo comma, primo periodo, come introdotto dall’art. 1, comma 42, legge 28 giugno 2012, n. 92), mentre ora l’art. 2, quarto comma, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, attuativo del c. d. Jobs act, inserisce lo stesso licenziamento privo di giustificazione all’interno della tutela reintegratoria “forte”, che condivide con le altre fattispecie di licenziamenti discriminatori e nulli.
Le differenze lessicali tra le due disposizioni sono di per sé già significative -nonostante la confusione terminologica che ruota spesso intorno al concetto di disabilità – in quanto nella prima si parla di “inidoneità” e nella seconda di “disabilità”, per rilevare come la fattispecie riguarda comunque i disabili (in ragione dell’espresso richiamo alla legge n. 68 del 1999) residuando il problema dell’individuazione, ai sensi del settimo comma dell’art. 18 dello Statuto, di una inidoneità allo svolgimento della mansione specifica che non comporti una disabilità. D’altronde, come ha precisato la giurisprudenza comunitaria, una malattia, non può essere assimilata all’handicap, che si aggiunge ai motivi in base ai quali la direttiva n. 78 del 2000 vieta qualsiasi discriminazione, salvo che, nel corso della malattia, non si manifestino limitazioni funzionali di lunga durata o permanenti, che vanno considerate handicap .
A questo punto si può già porre un problema di costituzionalità in ordine ai due diversi regimi di tutela che, per un verso, interessando soggetti ugualmente disabili, vengono poi a “differenziare” le misure sanzionatorie (a fronte di un licenziamento illegittimo), in ragione della data di assunzione del lavoratore (la tutela reale “forte” si applica solo ai lavoratori assunti, a far data dal 7 marzo 2015, con il contratto di lavoro subordinato a tutele crescenti) e, per altro verso, coinvolgono una diversificata platea di datori di lavoro, che prescinde, nell’art. 2, quarto comma, d. lgs. n. 23 del 2015, dal requisito occupazionale, richiesto, viceversa, per l’applicazione del regime della reintegrazione “attenuata”.
Se la novella del 2012 ha “ritagliato” – in presenza di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo – un regime speciale nel caso di licenziamento per inidoneità del lavoratore , è pur vero che, già all’interno del predetto quadro normativo, poteva rintracciarsi il carattere discriminatorio del licenziamento del disabile, non soltanto perché la discriminazione per handicap rientra tra le fattispecie espressamente prese in considerazione dall’art. 15, secondo comma, dello Statuto dei lavoratori (e, pertanto, nel contesto della tutela reintegratoria “forte” ex art .18, primo comma, dello Statuto), ma, soprattutto, per la collocazione sistematica all’interno dei divieti di discriminazione, sul piano del diritto comunitario, con le successive “ricadute” nel diritto interno – ed, in particolare, in forza del già richiamato art. 3, comma 3-bis, d.lgs. n.216 del 2003 sugli “accomodamenti ragionevoli”.
A questo punto il licenziamento del disabile, avvenuto senza adottare i necessari accomodamenti ragionevoli, si rivela come “carente di giustificazione” e, pertanto, discriminatorio, come tale riconducibile, già nel quadro legale introdotto dalla novella del 2012, all’interno della tutela reintegratoria “forte”.
Ora il percorso di “isolare” il licenziamento del disabile dal licenziamento del lavoratore semplicemente inidoneo allo svolgimento della mansione specifica viene completato con il d.lgs, n. 23 del 2015, che riconosce esplicitamente il licenziamento del primo come licenziamento lato sensu discriminatorio.
In altri termini, pur nella consapevolezza che il licenziamento ingiustificato per motivo oggettivo non si risolve automaticamente in un licenziamento discriminatorio e scontando, al tempo stesso, l’ambiguità della locuzione utilizzata dal legislatore, il quale, all’art. 2, quarto comma, d.lgs. n. 23 del 2015, mette insieme il motivo consistente nella disabilità e il difetto di giustificazione è pur vero che l’ingiustificatezza del licenziamento del disabile, nelle ipotesi richiamate dalla legge del 1999, si converte nella discriminazione, nella misura in cui il recesso del datore di lavoro risulti avvenuto senza aver preliminarmente adottato tutte quelle misure organizzative necessarie per continuare ad utilizzare la prestazione lavorativa del disabile. Solo in tal modo può assumere un significato l’espressione “difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità”, che si sostanzia nella violazione dei predetti precetti normativi, “riletti” alla luce della normativa comunitaria.
In conclusione – e sempre che discuta di un licenziamento per motivi oggettivi – ci troviamo dianzi ad un licenziamento che trova la sua “motivazione”nella disabilità del lavoratore, che non può automaticamente determinare la risoluzione del rapporto di lavoro, laddove la sua prestazione non si inserisca più nel contesto produttivo dato (ex art. 3 l. n. 604 del 1966).
Allora ci si deve interrogare sulla locuzione “anche”, probabilmente inserita in via specificativa di “casi” di licenziamento per giustificato motivo oggettivo adottato senza aver vagliato le necessarie misure alternative, ma che non preclude la possibilità di individuare altre ipotesi di licenziamento ingiustificato, in quanto sempre legate alla disabilità del lavoratore. Un indirizzo interpretativo, ad esempio, vi fa rientrare anche l’art. 10, quarto comma, l. n. 68 del 1999, laddove si prevede l’annullabilità del licenziamento per riduzione di personale o per giustificato motivo oggettivo del disabile in violazione della quota di riserva prescritta dalla legge.
Riannodando le fila conclusive del discorso occorre considerare che il “collegamento” tra la normativa sui disabili del 1999 e la disciplina antidiscriminatoria (in particolare il d.lgs. n. 216 del 2003) consente di raggiungere due importanti risultati.
Da un lato, infatti, sul piano della questione dei “limiti” al licenziamento del disabile, vengono ad aprirsi prospettive nuove, che riescono a dare corpo alla stessa configurazione di quest’ultimo come extrema ratio.
Dall’altro, e sotto il versante dell’accesso al lavoro, l’”ombrello protettivo” dello stesso diritto comunitario può costituire un oggettivo rafforzamento della tutela del disabile, per risolvere anche i consueti problemi che affliggono anche il c. d. collocamento mirato, al fine di assicurare quegli “accomodamenti ragionevoli”, atti a garantire l’inserimento lavorativo del disabile.
Pietro Lambertucci
Professore ordinario di diritto del lavoro – Università de L’Aquila