Discriminazione indiretta dipendenti genitori, Tribunale ordinario di Firenze, sezione lavoro, ordinanza del 22 ottobre 2019

TRIBUNALE ORDINARIO di FIRENZE
Sezione Lavoro

Il Giudice del Lavoro, a scioglimento della riserva assunta all’udienza del 24/09/2019, in ordine al ricorso ex art. 37, co. 4 d.lgs. n. 198/2006 (“Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, a norma dell’articolo 6 della legge 28 novembre 2005, n. 246”) con il quale la Consigliera di Parità della Regione Toscana ha convenuto in giudizio l’Ispettorato Territoriale del Lavoro di Firenze e l’Ispettorato Nazionale del Lavoro per l’accertamento della natura discriminatoria dell’Ordine di Servizio n. 3 del 17 luglio 2018 (doc. n. 1), e delle successive modifiche ed integrazioni introdotte con l’Ordine di Servizio n. 2 dell’01 aprile 2019 (doc. n. 2), adottato dall’Ispettorato Territoriale del lavoro di Firenze per la disciplina dell’orario di lavoro del personale in violazione alla normativa in materia di parità, pari opportunità e garanzia contro le discriminazioni, con conseguente condanna ex art. 37, co. 3 del d.lgs. n. 198/2006, osserva quanto segue.

Preliminarmente, quanto alla legittimazione ad agire della Consigliera di Parità della Regione Toscana, deve darsi atto che, come è noto, con riguardo alle discriminazioni indirette di carattere collettivo, “la consigliera o il consigliere regionale e nazionale di parità possono proporre ricorso in via d’urgenza davanti al tribunale in funzione di giudice del lavoro o al tribunale amministrativo regionale territorialmente competenti. Il giudice adito, nei due giorni successivi, convocate le parti e assunte sommarie informazioni, ove ritenga sussistente la violazione di cui al ricorso, con decreto motivato e immediatamente esecutivo oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale, nei limiti della prova fornita, ordina all’autore della discriminazione la cessazione del comportamento pregiudizievole e adotta ogni altro provvedimento idoneo a rimuovere gli effetti delle discriminazioni accertate, ivi compreso l’ordine di definizione ed attuazione da parte del responsabile di un piano di rimozione delle medesime. Si applicano in tal caso le disposizioni del comma 3. Contro il decreto e’ ammessa, entro quindici giorni dalla comunicazione alle parti, opposizione avanti alla medesima autorità giudiziaria territorialmente competente, che decide con sentenza immediatamente esecutiva.” (art. 37, co. 4 succitato).
E, nel caso di specie, a parere del Giudicante, la domanda proposta, alla luce del complessivo e univoco tenore dell’atto introduttivo, è da qualificarsi come volta all’accertamento di una discriminazione indiretta di carattere collettivo (si vedano, ad esempio, le allegazioni di cui alle pagg. 17-19).

Sempre in via preliminare, si ritiene irrilevante ai fini del decidere sindacare se la Consigliera ricorrente abbia o meno previamente sottoposto all’attenzione dell’I.T.L. in sede stragiudiziale le censure poi dedotte nel presente giudizio, atteso che, per espresso dettato normativo, la Consigliera ha la facoltà e non l’obbligo di avvalersi della procedura di conciliazione di cui al comma 1 dell’art. 37 (v. co. 2 dello stesso articolo).

Ciò posto, come è noto, si è in presenza di una discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere le persone appartenenti alle categorie tipizzate (i.e. portatrici dei fattori di rischio tipici) in una situazione di particolare svantaggio, a meno che non sussistano una finalità legittima e il carattere di appropriatezza e necessità dei mezzi impiegati per conseguirla (v. art. 25 d.lgs. n. 198/2006).
In ordine, quindi, alla nozione di discriminazione indiretta, deve evidenziarsi come la discriminazione indiretta sia tale in quanto essa alberga, non nel trattamento – che è uguale -, ma negli effetti; e ciò che rileva è solo l’effetto del trattamento discriminatorio, la sua conseguenza sul piano oggettivo, essendo, viceversa, del tutto irrilevante l’intento soggettivo dell’agente, sia, per l’individuazione della condotta vietata, sia, correlativamente, per l’individuazione delle cause di esclusione della fattispecie illecita.
La discriminazione è, dunque, una condotta oggettiva che si valuta per gli effetti lesivi nei confronti del lavoratore che appartiene a categorie tipizzate sulla base del fattore di protezione senza passare attraverso la mediazione dell’articolo 1345 c.c.
Anche alla stregua dell’attuale diritto dell’U.E., dunque, sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione contiene anche solo il rischio di mettere in posizione di svantaggio persone appartenenti a un gruppo caratterizzato da un fattore di discriminazione che forma oggetto di protezione.
In ordine al concetto di particolare svantaggio, poi, deve evidenziarsi come, alla stregua dell’elaborazione della giurisprudenza comunitaria in materia, esso non designa casi rilevanti, evidenti o gravi di disuguaglianza, ma significa che sono in particolare le persone portatrici di un determinato fattore di protezione a trovarsi svantaggiate a causa della disposizione , del criterio o della prassi di cui si tratta (v. causa G.G.U.E. Chez C-83/14).
Quanto al regime probatorio applicabile nel presente giudizio, nell’ordinamento nazionale, l’art. 40 d.lgs. n. 198/2006 dispone che “Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all’assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l’onere della prova sull’insussistenza della discriminazione.”.
Pertanto, si è in presenza di una «attenuazione del regime probatorio ordinario» mediante un regime presuntivo «alleggerito» (v. Cass. n. 14206/2013; n. 23286/2016). Il ricorrente può avvalersi di dati statistici, oppure, allegare fatti “precisi e concordanti” (ma non “gravi”, requisito che attiene alla pregnanza di significato, alla capacità dimostrativa).
Diversamente da quanto ritenuto da parte resistente, non pare proprio al Tribunale che la norma escluda l’applicabilità del regime probatorio attenuato laddove la discriminazione denunciata riguardi l’organizzazione dell’orario di lavoro, esemplificando, infatti, il legislatore solo gli istituti giuridici cui possono riferirsi i dati statistici presuntivi.
Alla luce della giurisprudenza comunitaria in argomento, fermo restando che basta che una persona risulti lesa nella pratica per dimostrare la sussistenza di una discriminazione (cfr. Causa C.G.U.E. O’Flynn C-237/94), poiché, come si è detto, è sufficiente un impatto potenziale (potrebbe mettere), ossia è sufficiente che la disposizione (il criterio etc.) sia tale da poter causare una posizione di particolare svantaggio, il nesso casuale deve essere adeguato, ossia tale da provocare il particolare effetto, in base a un criterio di normale prevedibilità. A tale riguardo, deve evidenziarsi come in varie cause della C.G.U.E. riguardanti presunti casi di discriminazione indiretta conseguente alle condizioni di soggiorno, il senso comune e la comune esperienza (ossia ciò che avviene nella pratica) sono stati ritenuti sufficienti per stabilire una potenziale discriminazione indiretta (cfr. causa C.G.U.E. O’Flynn succitata).
Tutto ciò premesso, ritiene il Tribunale, sia pure nei limiti della sommarietà della cognizione propria della presente fase urgente, che nel caso di specie la Consigliera ricorrente abbia provato che l’ordine di servizio n. 3 del 17 luglio 2018, e le successive modifiche e integrazioni introdotte con l’ordine di servizio n. 2 del 1 aprile 2019, determinano nel loro complesso una potenziale discriminazione indiretta in danno dei genitori lavoratori (soggetti portatori del fattore di rischio costituito dalla maternità o paternità, v. art. 25, co. 2-bis d.lgs. n. 198/2006), e, in particolare, delle lavoratrici madri (soggetti che cumulano il fattore di rischio costituito dal sesso femminile con il fattore di rischio costituito dalla maternità), senza che, dal canto suo, il datore di lavoro pubblico convenuto abbia comprovato la sussistenza di una finalità legittima perseguita con mezzi appropriati e necessari.
In particolare, a parere del Tribunale, poiché è notorio che i genitori (e, a maggior ragione, le lavoratrici-madri), specialmente se con figli in età da scuola dell’infanzia, materna o primaria, si trovino frequentemente a dover far fronte a impellenti e imprevedibili esigenze connesse all’accudimento della prole, le quali possono anche comportare l’improvvisa necessità di ritardare l’ingresso al lavoro o anticiparne l’uscita, è prevedibile, sulla base del senso comune e della comune esperienza, che il complesso delle disposizioni di cui ai due ordini di servizio in materia di organizzazione dell’orario di lavoro, possa svantaggiare i suddetti gruppi tipizzati rispetto ai dipendenti non genitori, in quanto risulta ostacolare, o, comunque, rendere difficoltosa la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro e la fruizione degli istituti giuridici a ciò preposti, esponendo, altresì, per l’effetto, i dipendenti genitori anche a un maggior rischio di incorrere in violazioni disciplinari connesse a ritardi.

Risulta, infatti, per tabulas dai documenti in atti che gli ordini di servizio de quibus:
* impongono, diversamente dall’orario di lavoro nazionale I.N.L., l’obbligo di giustificazione scritta entro le 24,00 ore per ritardi dalle ore 9.16 alle ore 9,30, con la previsione che “in assenza di giustificazione scritta ovvero in caso di giustificazione non ritenuta congruente, l’ingresso in ufficio oltre le ore 9,15 costituisce violazione del dovere di rispetto dell’orario di lavoro e, in considerazione anche della eventuale reiterazione, dà luogo a responsabilità disciplinare” (viceversa, l’orario di lavoro nazionale I.N.L. prevede solo che “Il ritardo – tra le ore 9.16 e le ore 9.30, n.d.r. – sull’orario di ingresso al lavoro comporta l’obbligo del recupero entro l’ultimo giorno del mese successivo a quello in cui si è verificato il ritardo, come stabilito dall’art. 24 del citato CCNL”, a norma del quale “In caso di mancato recupero, si opera la proporzionale decurtazione della retribuzione e del trattamento economico accessorio, come determinato dall’ art. 69. Resta fermo quanto previsto in sede di codice disciplinare dall’art. 62 e seguenti.”): a parere del Giudicante, quindi, a livello nazionale, la rilevanza disciplinare della condotta è subordinata all’inosservanza dell’obbligo di recupero;
* prevedono che le entrate successive alle ore 9,30 debbano essere considerate “permessi brevi non retribuiti”, ma, diversamente da quanto prevede l’art. 34 C.C.N.L. (… 2. Per consentire al responsabile dell’ufficio di adottare le misure ritenute necessarie per garantire la continuità del servizio, la richiesta del permesso deve essere effettuata in tempo utile e, comunque, non oltre un’ora dopo l’inizio della giornata lavorativa, salvo casi di particolare urgenza o necessità, valutati dal responsabile. 3. Il dipendente è tenuto a recuperare le ore non lavorate entro il mese successivo, secondo le modalità individuate dal responsabile; in caso di mancato recupero, si determina la proporzionale decurtazione della retribuzione.”), e diversamente anche da quanto disposto dall’orario nazionale di lavoro I.N.L. (l’ingresso in servizio in orario successivo alle ore 9,30 deve essere considerato “permesso breve” e l’orario da recuperare debba essere computato dalle ore 8,00, “salvo quanto previsto dal comma 4 dell’art. 26 CCNL da definirsi in sede locale”, cioè fatta salva la disciplina della c.d. “flessibilità ulteriore”), stabiliscono che “i permessi brevi non retribuiti di cui all’art. 34 CCNL 2016-2018 possono essere concessi dal Responsabile dell’Area (dal Dirigente per i responsabili di Area), salvo ragioni di ufficio, previa istanza inviata con congruo anticipo, onde consentire alla struttura di adottare le misure organizzative necessarie, salvo situazioni particolari, da indicare nella richiesta e rimesse alla valutazione del Responsabile dell’Area ovvero del Dirigente. In nessun caso la richiesta di permesso breve che deve essere avanzata con congruo anticipo può essere utilizzata allo scopo di eludere l’obbligo del rispetto dell’orario di ingresso o comunque di sanare ritardi in atto…”;
* prevedono che la fruizione del riposo compensativo da Banca delle ore (v. art. 27 C.C.N.L. Funzioni Centrali) debba conciliarsi con l’esigenza di spesa delle somme accreditate per il lavoro straordinario, laddove, invece, la contrattazione collettiva nazionale prevede solo che la contrattazione integrativa nazionale o di sede unica stabilisca il limite individuale annuo delle ore che possono confluire nella banca delle ore, ai sensi dell’art. 27, comma 2; e che l’utilizzo come riposi compensativi, a domanda del dipendente, avvenga compatibilmente con le esigenze di servizio, anche con riferimento ai tempi, alla durata ed al numero dei lavoratori, contemporaneamente ammessi alla fruizione (v. causa C.G.U.E. Kutz-Bauer C-187/00 in cui, per esempio, si è affermato che considerazioni di bilancio non possono giustificare di per sé differenze di trattamento fra i due sessi);
* nulla prevedono in ordine alla flessibilità c.d. “ulteriore” in favore dei dipendenti che si trovino in particolari situazioni personali, sociali e familiari (fra i quali sono espressamente previsti coloro che si trovino in situazione di necessità connesse alla frequenza dei propri figli di asili nido, scuole materne e scuole primarie) di cui all’art. 26, comma 4 C.C.N.L. Funzioni centrali, limitandosi, infatti, a stabilire che “L’ingresso in servizio in orario successivo alle ore 9,30 oltre a costituire ritardo, viene considerato permesso breve e l’orario da recuperare viene computato dalle ore 8,00, salvo quanto previsto dal comma 4 dell’art. 26 C.C.N.L da definirsi in sede locale”, laddove, però, la “sede locale” richiamata dovrebbe essere proprio l’I.T.L. di Firenze stesso, atteso che, diversamente da quanto opinato da parte resistente, la lettera della disciplina collettiva nazionale summenzionata su tale specifico argomento non demanda alcunché alla contrattazione collettiva nazionale integrativa e, quindi, alla contrattazione integrativa territoriale (v. art. 7 C.C.N.L. Funzioni centrali).
A fronte di ciò, parte convenuta, come risulta dal complesso dell’atto di costituzione in giudizio e, in particolare, dal capitolato di prova orale articolato, non ha specificamente dedotto, né provato o chiesto di provare, quale sarebbe la concreta e precipua finalità legittima della sede territoriale fiorentina alla cui realizzazione le suddette disposizioni sarebbero volte; né, in ogni caso, ha provato che tali disposizioni costituiscano mezzi appropriati e necessari al perseguimento della predetta e non meglio precisata finalità: l’Ispettorato resistente, in altri termini, avrebbe, cioè, avuto l’onere di allegare e dimostrare che quella finalità, ove puntualmente allegata e provata, non sarebbe stata perseguibile se non mediante le disposizioni per cui è causa, così da giustificare l’adozione a livello territoriale di una organizzazione dell’orario di lavoro peggiorativa, in particolare per i genitori e al loro interno per le lavoratrici madri, rispetto a quella prevista dal medesimo ente pubblico a livello nazionale.
Ritiene, invece, il Giudicante di non dover sindacare in questa sede l’accordo della I.T.L. di Firenze sulla Banca delle ore e il doc. 10 di parte ricorrente in tema di riposi compensativi non da Banca delle ore, in quanto estranei alle conclusioni rassegnate dalla Consigliera ricorrente.
Ai sensi e per gli effetti dell’art. 37, co. 4 d.lgs. n. 198/2006, deve, quindi, ordinarsi all’Ispettorato Territoriale del Lavoro di Firenze la cessazione del comportamento pregiudizievole tramite la rimozione dell’efficacia giuridica, o, comunque, la non applicazione delle disposizioni accertate come discriminatorie, e ordina allo stesso Ispettorato di rimuovere gli effetti delle discriminazioni accertate, provvedendo, tra l’altro, a definire e attuare un piano di rimozione delle medesime, entro il termine di mesi sei, sentite le rappresentanze sindacali aziendali ovvero, in loro mancanza, gli organismi locali aderenti alle organizzazioni sindacali di categoria maggiormente rappresentative sul piano nazionale, nonché la consigliera di parità regionale competente per territorio o la consigliera o il consigliere nazionale.
Per quanto concerne, invece, la domanda risarcitoria proposta dalla Consigliera in relazione al lamentato danno non patrimoniale, dato atto che la lettera della norma prevede il diritto “al risarcimento del danno anche non patrimoniale, nei limiti della prova fornita” attribuendogli, quindi, una funzione esclusivamente riparatoria del danno-conseguenza eventualmente prodottosi, deve tenersi conto, da un lato, che in sede penale (v. Cass., sez. VI, 16 aprile 2009, n. 16031) il giudice di legittimità ha da tempo ritenuto ammissibile la costituzione di parte civile nel processo penale ex art. 74 c.p.p. della Consigliera regionale di parità jure proprio come soggetto danneggiato dal reato (in un caso di maltrattamenti perpetrati da un preposto del datore ai danni di una collettività individuata) di lavoratrici, con ciò riconoscendo che il danno risarcibile attraverso l’azione collettiva possa identificarsi con il pregiudizio agli scopi istituzionali dell’ente e all’azione di contrasto delle discriminazioni che esso si propone; dall’altro, del fatto che, come è noto, le fonti sovranazionali attribuiscono (anche) allo strumento rimediale del risarcimento del danno connotati necessari di effettività, da rapportarsi, non solo alla gravità del danno, ma anche alla funzione dissuasiva e sanzionatoria del rimedio. Ciò detto, deve, altresì, considerarsi come recentemente il giudice di legittimità, a fronte del consolidato orientamento per cui nell’ordinamento nazionale non sarebbero configurabili danni punitivi, proprio seguendo il modello del diritto antidiscriminatorio che la Corte di Cassazione ha riconosciuto in materia di precariato pubblico l’esistenza di un danno “comunitario”, risarcibile ex se in conseguenza della violazione con effetto quindi non solo riparativo, ma anche dissuasivo di future violazioni. Di conseguenza, alla luce di tutto sin qui osservato, dovendo il giudice nazionale effettuare una interpretazione comunitariamente orientata della norma dell’ordinamento interno, e considerato che a fronte dell’interesse iure proprio, pubblico e funzionale alla tutela del bene collettivo – assunto dall’ordinamento come valore – della parità di genere, appare difficile prospettare una funzione del risarcimento diversa da quella dissuasiva e latamente sanzionatoria, si ritiene di dover liquidare, in via equitativa, alla Consigliera ricorrente, a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale, la somma di € 2.000,00, oltre accessori come per legge;
L’assoluta novità e la oggettiva complessità della res controversa giustificano la compensazione delle spese di lite nella misura della metà, dovendosi, quindi, condannare la parte convenuta soccombente a rifondere alla ricorrente la restante metà, liquidata come in dispositivo e da distrarsi in favore dei difensori antistatari.

P.Q.M.

– ordina all’Ispettorato Territoriale del Lavoro di Firenze la cessazione del comportamento pregiudizievole tramite la rimozione dell’efficacia giuridica, o, comunque, la non applicazione delle disposizioni di cui all’Ordine di Servizio n. 3 del 17 luglio 2018 e all’Ordine di Servizio n. 2 dell’01 aprile 2019 accertate come discriminatorie, e ordina allo stesso Ispettorato di rimuovere gli effetti delle discriminazioni accertate, provvedendo, tra l’altro, a definire e attuare un piano di rimozione delle medesime, entro il termine di mesi sei, sentite le rappresentanze sindacali aziendali ovvero, in loro mancanza, gli organismi locali aderenti alle organizzazioni sindacali di categoria maggiormente rappresentative sul piano nazionale, nonché la consigliera o il consigliere di parità regionale competente per territorio o la consigliera o il consigliere nazionale;
– condanna l’Ispettorato Territoriale del Lavoro di Firenze a corrispondere alla Consigliera ricorrente, a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale, la somma di € 2.000,00, oltre accessori come per legge;
– compensa nella misura della metà le spese di lite, e condanna parte convenuta a rifondere a parte ricorrente la restante metà delle spese di lite che, ex D.M. n. 55/14 e 37/18, liquida in complessivi € 1.250,00 per compensi professionali, oltre 15%, per spese generali I.V.A. e C.P.A. come per legge, da distrarsi in favore dei procuratori dichiaratisi antistatari ex art. 93 c.p.c.

Si comunichi.
Firenze, 22 ottobre 2019
Il Giudice del Lavoro
dott.ssa Carlotta Consani