Condotta offensiva e vessatoria datore di lavoro , presunta omosessualità dipendente – Corte di Cassazione, ordinanza del 19 febbraio 2019

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Eduardo – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – rel. Consigliere –ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28194-2014 proposto da:

P R. S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FLAMINIA 362, presso lo studio dell’avvocato PASQUALE TRANE, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato TITO ZILIOLI; –

ricorrente

contro Z.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE LIBIA 4, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO GALIENA, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ALDO CAMPESAN;

controricorrente

avverso la sentenza n. 466/2014 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 23/09/2014 R.G.N. 855/2011.

RILEVATO Che:

  1. con sentenza n. 466 pubblicata il 23.9.2014, la Corte d’appello di Venezia ha respinto l’appello proposto dal P R. s.p.a., confermando la sentenza di primo grado di condanna della predetta società al risarcimento del danno non patrimoniale cagionato al dirigente sig. Z. dalla condotta vessatoria posta in essere dal legale rappresentante del P, sig. R.G.L.;
  2. la Corte territoriale ha ritenuto che la pronuncia del Tribunale avesse ad oggetto i fatti dedotti dal ricorrente in primo grado a fondamento della pretesa risarcitoria e relativi alla condotta offensiva e vessatoria posta in essere in suo danno dal legale rappresentante della società, quantomeno dal 2001 e fino alla data del licenziamento, risalente al 2007; ha rilevato come la condotta datoriale, quanto alle ripetute offese sulla presunta omosessualità del dirigente, avesse trovato conferma nelle deposizioni dei testimoni, sia dei testi M. e B., dipendenti della società rispettivamente fino a novembre 2002 e settembre 2001, e sia dei testimoni ( V., M.B.) addotti da parte datoriale, oltre che nell’interrogatorio libero del sig. Z.;
  3. la Corte di merito ha escluso che la condotta posta in essere dal legale rappresentante sig. R. fosse solo espressione di un clima scherzoso nell’ambiente di lavoro, avendo al contrario rilevato che la condotta medesima, in quanto ripetutamente posta in essere dal titolare;
  4. secondo la sentenza impugnata, il lavoratore aveva allegato il danno subito (“stato di ansia e di stress… pregiudizio alla vita di relazione, pregiudizio alla dignità e professionalità, per la conoscenza nell’ambito aziendale”) e questo era stato provato per presunzioni; che, inoltre, era congruo il criterio di liquidazione adottato dal giudice di primo grado e riferito alla retribuzione per il periodo di sei mesi;
  5. avverso tale sentenza il P R. s.p.a. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi, cui ha resistito con controricorso il sig. Z.;
  6. entrambe le parti hanno depositato memoria, ai sensi dell’art. 380 bis.1. c.p.c..

CONSIDERATO Che:

  1. col primo motivo di ricorso la società datoriale ha censurato la sentenza, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione e falsa applicazione degli artt. 115,116,414,420,421 e 437 c.p.c., in relazione agli artt. 1218,2087 e 2697 c.c.; nonchè, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omesso esame di fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti, con riferimento alla condotta asseritamente inadempiente del datore di lavoro;
  2. ha sostenuto come la sentenza impugnata avesse accertato la responsabilità datoriale sebbene non fossero stati provati, dal lavoratore onerato, gli episodi descritti nel ricorso introduttivo di primo grado integranti la condotta inadempiente; e come la medesima sentenza non avesse valutato il fatto, decisivo e oggetto di discussione tra le parti, della mancata prova della condotta inadempiente;
  3. col secondo motivo di ricorso la società ha dedotto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 115,116,414 e 420 c.p.c., in relazione agli artt. 1218,2059,2087 e 2697 c.c. e in relazione agli artt. 2727 e 2729 c.c. e ancora in relazione all’art. 1226 c.c. e art. 432 c.p.c.; nonchè omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, con riferimento al danno asseritamente sofferto dal sig. Z., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5;
  4. ha affermato come la Corte d’appello avesse riconosciuto un danno in re ipsa in favore del sig. Z., per il difetto di allegazioni e prove e per la mancanza di qualsiasi accertamento sulla esistenza del danno, sulla gravità della lesione e sulla serietà del pregiudizio; come, inoltre, avesse erroneamente ritenuto integrata una prova presuntiva ed avesse erroneamente confermato la liquidazione equitativa del danno ad opera del Tribunale pur in assenza di prova del danno medesimo;
  5. il primo motivo di ricorso presenta plurimi profili di inammissibilità;
  6. la Corte d’appello ha riprodotto le allegazioni contenute nel ricorso introduttivo di primo grado, ha dato atto di come gli specifici episodi ivi descritti e collocati nel periodo dal 2003 al 2007 non fossero stati dimostrati ma come, invece, fosse stata comprovata la protratta condotta offensiva di parte datoriale, pure allegata dal lavoratore, e relativa alla presunta omosessualità del sig. Z., sistematicamente apostrofato col termine “finocchio”;
  7. la società ricorrente ha anzitutto omesso di trascrivere, almeno nelle parti essenziali, il ricorso introduttivo di primo grado al fine di contrastare l’affermazione della Corte d’appello sulla allegazione, ad opera del lavoratore, della condotta offensiva ritenuta integrata; inoltre, la censura, nella parte in cui denuncia la violazione di diverse norme di legge, risulta priva di adeguata specificità; secondo l’indirizzo di questa Corte, il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 va dedotto, a pena di inammissibilità, non solo con l’indicazione delle norme di diritto che si assumono violate ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata di cui si denuncia il contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. n. 287 del 2016; Cass. n. 635 del 2015; Cass. n. 25419 del 2014; Cass. n. 16038 del 2013; Cass. n. 3010 del 2012);
  8. di fatto, col motivo di ricorso in esame, la società ha criticato la sentenza impugnata per non aver colto il carattere scherzoso degli epiteti con cui il legale rappresentante era solito apostrofare il dipendente, in presenza degli altri colleghi e in un clima cameratesco, nonchè per avere, in modo illogico e contraddittorio, letto la mancata reazione del sig. Z. in dette circostanze come sopportazione di una offesa anzichè come riflesso della irrilevanza e inoffensività della condotta datoriale, senza neanche debitamente considerare come il sig. Z. fosse rimasto a lavorare alle dipendenze della società per circa dieci anni, arrivando a ricoprire una importante posizione dirigenziale;
  9. tali censure, poichè si risolvono, tutte, in una critica alla valutazione del materiale probatorio e alla ricostruzione della fattispecie concreta di violazione dell’art. 2087 c.c., così come operata dalla Corte d’appello, non possono trovare ingresso in questa sede di legittimità; tali censure neanche si conformano al modello legale di cui al nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 applicabile ratione temporis (sentenza d’appello del 2014);
  10. come compiutamente descritto dalle Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza n. 8053 del 2014, per effetto della novella, il sindacato di legittimità sulla motivazione deve intendersi limitato al minimo costituzionale, con la conseguenza che l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sè, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di qualsiasi rilievo del difetto di “sufficienza”, nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, laddove nel caso di specie è chiaramente percepibile il percorso motivazionale adottato dal giudice d’appello;
  11. inoltre, secondo l’orientamento espresso dalle Sezioni Unite, e dalle successive pronunce conformi (cfr. Cass., 27325 del 2017; Cass., n. 9749 del 2016), l’omesso esame deve riguardare un fatto, inteso nella sua accezione storico-fenomenica, principale (ossia costitutivo, impeditivo, estintivo o modificativo del diritto azionato) o secondario (cioè dedotto in funzione probatoria), la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali e che abbia carattere decisivo. Non solo quindi la censura non può investire argomenti o profili giuridici, ma il riferimento al fatto secondario non implica che possa denunciarsi, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, anche l’omesso esame di determinati elementi probatori, il che rende inammissibili tutti i rilievi che attengono, in sostanza, alla critica nella ricostruzione del fatto come eseguita dalla Corte di merito attraverso la valutazione del materiale probatorio raccolto;
  12. neppure è fondata la censura di violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e art. 2697 c.c. che presuppone, come più volte precisato da questa Corte (cfr. Cass. n. 11892 del 2016; Cass. n. 25029 del 2015; Cass. n. 25216 del 2014), il mancato rispetto delle regole di formazione della prova ed è rinvenibile nelle ipotesi in cui il giudice utilizzi prove non acquisite in atti (art. 115 c.p.c.) o valuti le prove secondo un criterio diverso da quello indicato dall’art. 116 c.p.c., cioè una prova legale secondo prudente apprezzamento o un elemento di prova liberamente valutabile come prova legale, oppure inverta gli oneri di prova; nessuna di queste situazioni è rappresentata nel motivo di ricorso in esame ove è unicamente dedotto che il giudice ha male esercitato il suo prudente apprezzamento della prova;
  13. considerazioni analoghe possono ripetersi quanto al secondo motivo di ricorso avendo la Corte di merito, una volta ricostruita la condotta inadempiente di parte datoriale, ritenuto il danno non patrimoniale provato in via presuntiva;
  14. questa Corte (Cass. n. 11269 del 2018; n. 7471 del 2012) ha più volte statuito come il danno non patrimoniale, anche nel caso di lesione di diritti inviolabili, non possa mai ritenersi “in re ipsa”, ma vada debitamente allegato e provato da chi lo invoca, anche attraverso il ricorso a presunzioni semplici;
  15. le Sezioni Unite, nella sentenza n. 26972 del 2008, hanno affermato come il danno non patrimoniale derivante dalla lesione di diritti inviolabili della persona, come tali costituzionalmente garantiti, è risarcibile – sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. – anche quando non sussiste un fatto-reato, nè ricorre alcuna delle altre ipotesi in cui la legge consente espressamente il ristoro dei pregiudizi non patrimoniali, a tre condizioni: (a) che l’interesse leso – e non il pregiudizio sofferto – abbia rilevanza costituzionale; (b) che la lesione dell’interesse sia grave, nel senso che l’offesa superi una soglia minima di tollerabilità; (c) che il danno non sia futile, vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi, ovvero nella lesione di diritti del tutto immaginari, come quello alla qualità della vita od alla felicità;
  16. nel caso di specie, la Corte di merito ha desunto il danno non patrimoniale subito dal lavoratore dagli elementi probatori raccolti sul contenuto delle offese, sulla reiterazione, sulle modalità e contesti in cui le stesse venivano arrecate, sulla difficoltà di reazione per essere il destinatario lavoratore subordinato; ha ritenuto che le offese, ripetute nel tempo, avessero arrecato, tra l’altro, “concreto e grave pregiudizio alla dignità del lavoratore nel luogo di lavoro, al suo onore e alla sua reputazione, per il fatto che gli epiteti spregiativi erano ripetuti alla presenza dei colleghi e in situazioni nelle quali il destinatario non era in condizioni di reagire”;
  17. la sentenza d’appello ha pronunciato in modo coerente alla giurisprudenza di legittimità che reputa veicolato dall’art. 2087 c.c. l’obbligo di tutela, nel contratto di lavoro, di interessi non patrimoniali presidiati da diritti inviolabili della persona, come appunto la salute e la personalità morale, con conseguente obbligo di risarcimento del danno non patrimoniale ove l’inadempimento datoriale abbia provocato la lesione dei medesimi (per tutte cfr. Cass., S.U., n. 26972 del 2008);
  18. questa Corte ha anche precisato come il danno recato alla reputazione, da inquadrare nell’ambito della categoria del danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c., debba essere inteso in termini unitari, senza distinguere tra “reputazione personale” e “reputazione professionale”, non concepibili alla stregua di beni diversi e pertanto non suscettibili di distinte domande risarcitorie, trovando la tutela di tale diritto – a prescindere dall’entità e dall’intensità dell’aggressione o dal differente sviluppo del percorso lesivo – il proprio fondamento nell’art. 2 Cost. e, in particolare, nel rilievo che esso attribuisce alla dignità della persona in quanto tale, (Cass. n. 18174 del 2014); sulla stessa linea si pongono le pronunce che ravvisano la risarcibilità del danno non patrimoniale in caso, ad esempio, di licenziamento ingiurioso, tale per la forma o per le modalità del suo esercizio e per le conseguenze morali e sociali che ne derivano, da risultare lesivo della dignità e dell’onore del lavoratore licenziato (Cass. n. 23686 del 2015; n. 15496 del 2008); 26. infondata è la dedotta violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c. avendo questa Corte (Cass. n. 15737 del 2003; 722 del 2007; Cass. n. 8023 del 2009) più volte statuito come le presunzioni semplici costituiscono una prova completa alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza, anche in via esclusiva, ai fini della formazione del proprio convincimento, nell’esercizio del potere discrezionale, istituzionalmente demandatogli, di individuare le fonti di prova, controllarne l’attendibilità e la concludenza e, infine, scegliere, fra gli elementi probatori sottoposti al suo esame, quelli ritenuti più idonei a dimostrare i fatti costitutivi della domanda o dell’eccezione. Spetta pertanto al giudice di merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità, dovendosi tuttavia rilevare che la censura per vizio di motivazione in ordine all’utilizzo o meno del ragionamento presuntivo non può limitarsi ad affermare un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve fare emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio, restando peraltro escluso che la sola mancata valutazione di un elemento indiziario possa dare luogo al vizio di omesso esame di un punto decisivo; le censure della società appellante risultano inammissibilmente volte a contrapporre un risultato interpretativo diverso rispetto a quello adottato dalla Corte d’appello;
  19. il rigetto delle censure sulla mancata prova del danno porta a ritenere infondato il rilievo sul non corretto uso della equità integrativa di cui all’art. 1226 c.c. e art. 432 c.p.c.;
  20. per le considerazioni svolte il ricorso deve essere respinto;
  21. da tale statuizione deriva la condanna di parte ricorrente, secondo il criterio di soccombenza, alla rifusione delle spese di lite, liquidate come in dispositivo;
  22. si dà atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5.000,00 per compensi professionali, in Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012 n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis del medesimo art. 13.

Così deciso in Roma, nella adunanza camerale, il 20 dicembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 19 febbraio 2019