Crocifisso in aula, discriminazione indiretta, Corte di Cassazione, ordinanza interlocutoria di rimessione della questione alle sezioni unite del 18 settembre 2020

REPUBBLICA ITALINA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

ORDINANZA INTERLOCUTORIA

sul ricorso 11794-2015 proposto da:

C F, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CARLO MIRABELLO 23, presso lo studio

dell’avvocato SIMONETTA CRISCI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato FABIO CORVAJA;

– ricorrente –

contro

– MINISTERO ISTRUZIONE UNIVERSITA’ RICERCA, in 2020 persona del Ministro pro tempore, ISTITUTO

1356 PROFESSIONALE DI STATO PER I SERVIZI ALESSANDRO CASAGRANDE TERNI, in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso AVVOCATURA  GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende ape legis;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 165/2014 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA, depositata il 19/12/2014, R.G.N.

105/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del giorno 22/07/2020 dal Consigliere Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO.

 

RILEVATO CHE

  1. la Corte d’Appello di Perugia ha respinto l’appello proposto da F C, docente di ruolo di materie letterarie, avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva ritenuto legittima la sanzione disciplinare della sospensione dall’insegnamento per trenta giorni, inflitta al C dall’Ufficio Scolastico Provinciale il 16 febbraio 2009, ed aveva escluso il carattere discriminatorio della condotta tenuta dal dirigente scolastico, il quale aveva imposto a tutti i docenti di attenersi al deliberato dell’assemblea degli studenti e, quindi, di consentire che nell’aula assegnata alla classe III A dell’Istituto professionale di Stato “Alessandro Casagrande” rimanesse affisso durante lo svolgimento delle lezioni un crocifisso;
  2. la Corte territoriale, riassunti i termini della controversia e ricostruiti gli avvenimenti che avevano dato luogo all’instaurazione del procedimento disciplinare, ha evidenziato, in sintesi, che il C, invocando la libertà di insegnamento e di coscienza in materia religiosa, aveva sistematicamente rimosso il simbolo prima di iniziare la lezione, ricollocandolo al suo posto solo al termine della stessa, ed aveva anche proferito frasi ingiuriose nei confronti del dirigente, che pretendeva il rispetto delle disposizioni impartite in conformità al deliberato dell’assemblea di classe;
  3. il giudice d’appello ha escluso che la condotta tenuta dal dirigente scolastico potesse essere qualificata discriminatoria, innanzitutto perché l’ordine di servizio era stato indirizzato all’intero corpo docente e, quindi, non era stata realizzata alcuna disparità di trattamento;
  4. ha precisato, inoltre, che l’esposizione del crocifisso non aveva limitato la libertà di insegnamento e che il ricorrente non aveva titolo per dolersi dell’asserita violazione del principio di buon andamento ed imparzialità della pubblica amministrazione nonché di quello di laicità dello Stato, perché gli stessi danno origine, non a diritti soggettivi dei singoli bensì ad interessi diffusi, la cui tutela è affidata agli enti esponenziali della collettività nel suo complesso e solo nei casi di espressa previsione di legge ad associazioni o enti collettivi che di quegli interessi sono portavoce;
  5. la Corte territoriale ha aggiunto che nell’ambito del rapporto di impiego il dipendente può azionare il potere di autotutela solo per far valere diritti soggettivi inviolabili e pertanto nella fattispecie il Coppola, invocando la laicità dello Stato, non poteva disobbedire all’ordine, perché ritenuto illegittimo;
  6. il giudice d’appello ha rilevato, inoltre, che l’esposizione del crocifisso non è lesiva di diritti inviolabili della persona né è, di per sé sola, fonte di discriminazione tra individui di fede cristiana e soggetti appartenenti ad altre confessioni religiose ed ha richiamato la motivazione della sentenza pronunciata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo il 18 marzo 2011 per sostenere che il simbolo è essenzialmente passivo e la sua esposizione nel luogo di lavoro, così come è stata ritenuta non idonea ad influenzare la psiche degli allievi, a maggior ragione non è sufficiente a condizionare e comprimere la libertà di soggetti adulti e ad ostacolare l’esercizio della funzione docente;
  7. ha precisato al riguardo che il dirigente scolastico aveva imposto agli insegnanti solo di tollerare l’affissione del crocifisso nell’aula, non certo di prestare ossequio ai valori della religione cristiana e di partecipare a cerimonie con funzioni di carattere religioso, sicché il comportamento del ricorrente non poteva essere giustificato dalla mera percezione soggettiva di una violazione dei diritti di libertà;
  8. infine la Corte territoriale ha evidenziato che non possono trovare applicazione negli istituti scolastici secondari superiori le disposizioni regolamentari che prescrivono l’affissione del crocifisso nelle aule delle scuole elementari e medie inferiori, ma da ciò non si può desumere un divieto e, pertanto, non può essere ritenuto illegittimo il provvedimento del dirigente scolastico che aveva ritenuto di impartire una direttiva conforme al deliberato della assemblea di classe;
  9. quest’ultima non aveva il potere di stabilire quali dovessero essere gli arredi dell’aula ma la circostanza non spiegava alcuna incidenza causale sulla legittimità della sanzione disciplinare, inflitta al C in ragione della reiterata e plateale violazione degli ordini impartiti dal superiore gerarchico;
  10. il ricorso di F C domanda la cassazione della sentenza sulla base di otto motivi, illustrati da memoria, ai quali oppongono difese il MIUR e l’Istituto Professionale di Stato per i servizi “Alessandro Casagrande” di Terni;
  11. la Procura Generale con atto depositato il 22 giugno 2020 ha concluso chiedendo il rinvio a nuovo ruolo per la trattazione del ricorso in udienza pubblica ex art. 375, ultimo comma, cod. proc. civ..

CONSIDERATO CHE

  1. con il primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 nn. 3 e 4 cod. proc. civ. il ricorrente denuncia «violazione e falsa applicazione dell’art. 2 del d.lgs. n. 216 del 2003; nullità della sentenza ex art. 112 cod. proc. civ. per omessa pronuncia in riferimento alla lamentata violazione dell’art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 216 del 2003 e dell’art. 2087 cod. civ.» e addebita, in sintesi, alla Corte territoriale di avere erroneamente ritenuto che il carattere discriminatorio dell’ordine di servizio potesse essere escluso per il solo fatto che lo stesso si rivolgesse all’intero corpo docente, senza considerare che quell’ordine, apparentemente neutro, in realtà aveva determinato una situazione di svantaggio degli insegnanti non aderenti alla religione cattolica; 1.1. aggiunge che il giudice d’appello non si è pronunciato sulla sussistenza della discriminazione nella forma delle molestie, espressamente denunciata sia in primo grado che nell’atto di gravame, con il quale era stato rappresentato anche che il datore di lavoro, violando il precetto di cui all’art. 2087 cod. civ., anziché tutelare la personalità morale del lavoratore gli aveva imposto un comportamento contrario alla sua coscienza, ed aveva esercitato pressioni, anche attraverso la minaccia di iniziative disciplinari, poi effettivamente intraprese;
  2. la seconda censura addebita alla sentenza impugnata la «violazione e falsa applicazione degli artt. 19 e 33 Cost., nonché dell’art. 1 del d.lgs. 16 aprile 1994 n. 297» perché, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice d’appello, la presenza del crocifisso in classe è lesiva del diritto alla libertà negativa di religione e alla libertà di coscienza dell’insegnante;

2.1. il ricorrente richiama giurisprudenza di questa Corte per sostenere che il rifiuto di prestare obbedienza all’ordine di servizio doveva essere ritenuto manifestazione della libertà di coscienza e della libertà di insegnamento, intesa come autonomia didattica e come libera espressione culturale del docente;

  1. con la terza critica si denuncia la «violazione e falsa applicazione degli artt. 2,3,7,8,19 e 20 Cost. e del principio costituzionale supremo di laicità dello Stato» e si censura la sentenza impugnata nella parte in cui, facendo leva su una lettura errata della motivazione della sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte n. 5924/2011, ha escluso che si potessero ravvisare nella fattispecie diritti soggettivi;

3.1. il ricorrente evidenzia che con quella pronuncia era stato esaminato un caso non sovrapponibile a quello oggetto di causa, perché il magistrato incolpato, che aveva rifiutato di tenere udienza in aule prive del crocifisso, pretendeva, facendo leva sulla laicità dello Stato, che il simbolo fosse rimosso da tutti i locali, e pertanto l’affermazione contenuta nella pronuncia si riferiva a quest’ultima pretesa, con la quale, in effetti, si faceva valere un interesse diffuso e non un diritto soggettivo;

3.2. aggiunge che il principio di laicità impone equidistanza e imparzialità verso tutte le confessioni ed è sicuramente leso dalla preferenza accordata ad un unico simbolo, perché in tal modo viene privilegiata una religione rispetto agli altri culti;

  1. con il quarto motivo, che denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 19 e 33 Cost., del principio di laicità, degli artt. 9, 14 e 53 della CEDU, nonché dell’art. 2 del primo protocollo addizionale, il ricorrente insiste nel sostenere che l’esposizione del crocifisso è lesiva delle libertà del docente e critica la sentenza impugnata per avere fatto leva sulla pronuncia della Corte EDU 18.3.2011 Lautsi senza verificare quali fossero le garanzie offerte dal diritto interno e senza considerare che l’intervento della Corte europea era stato provocato dai genitori di un alunno e non da un docente;

4.1. precisa al riguardo che se per il discente il simbolo può essere considerato “passivo”, non altrettanto può dirsi per l’insegnante che «vede la propria voce coperta o autorata da un simbolo confessionale posto sopra di sé»;

  1. la quinta critica addebita al giudice d’appello la «violazione degli artt. 23,97 e 113 Cost., del principio di legalità dell’azione amministrativa e dei principi dello Stato di diritto» perché la posizione del titolare di un ufficio pubblico non può essere ricostruita in termini di libertà, atteso che gli organi dello Stato sono titolari di poteri, retti dal principio di legalità, con la conseguenza che non poteva nella fattispecie la Corte ritenere che l’atto con il quale era stata imposta l’affissione fosse legittimo solo perché non vietato;
  2. il sesto motivo denuncia la «violazione e falsa applicazione dell’art. 494 del d.lgs. n. 297 del 1994; errata e falsa applicazione dei principi in materia di autotutela del lavoratore» giacché l’illegittimità delle determinazioni datoriali legittimava la loro violazione e, quindi, la condotta tenuta dal docente non poteva essere ritenuta egoistica e non rispettosa dei diritti degli alunni, in quanto finalizzata a difendere diritti propri e dei dissenzienti che, in occasione dell’assemblea di classe, non avevano approvato l’affissione;
  3. in subordine il ricorrente eccepisce la «nullità della sentenza ex art. 112 cod. proc. civ. per omessa pronuncia in ordine alla domanda di nullità della sanzione disciplinare per difetto dell’elemento soggettivo e violazione di legge per violazione dei principi in materia di illecito disciplinare» ed addebita alla Corte territoriale di avere omesso di considerare che il convincimento del docente in merito alla sussistenza di un suo diritto soggettivo integra una causa di giustificazione putativa che esclude la sanzionabilità disciplinare;
  4. con l’ottavo motivo, rubricato «domanda di risarcimento del danno non patrimoniale ai sensi dell’art. 4, comma 5, del d.lgs. n. 261 del 2003, da determinarsi in via equitativa» il ricorrente sostanzialmente ripropone la domanda sulla quale la Corte non ha pronunciato, perché assorbita dalla ritenuta insussistenza della denunciata discriminazione;
  5. il ricorso prospetta questioni di massima che il Collegio ritiene essere di particolare rilevanza, innanzitutto perché sollecita una pronuncia sul bilanciamento, in ambito scolastico, fra le libertà ed i diritti tutelati rispettivamente dagli artt. 1 e 2 del d.lgs. n. 297/1994, che, garantendo, da un lato, la libertà di insegnamento, intesa come autonomia didattica e libera espressione culturale del docente (art. 1) e, dall’altro, «il rispetto della coscienza civile e morale degli alunni» ( art. 2), portano ad interrogarsi sui modi di risoluzione di un eventuale conflitto e sulla possibilità di far prevalere l’una o l’altra libertà nei casi in cui le stesse si pongano in contrasto fra loro;
  6. vengono inoltre in rilievo temi più generali perché, come si è evidenziato nello storico di lite, la vicenda è stata innescata dalla richiesta, formulata dagli alunni, di ostensione nell’aula scolastica di un crocifisso, e, pertanto, la risposta da dare all’interrogativo di cui al punto che precede deve necessariamente tener conto delle diverse posizioni espresse da questa Corte, dalla giurisprudenza amministrativa, dal Giudice delle leggi, dalle Corti europee in relazione al significato del simbolo, al principio di laicità dello Stato, alla tutela della libertà religiosa, al carattere discriminatorio di atti o comportamenti del datore di lavoro che, in ragione del credo, pongano un lavoratore in posizione di svantaggio rispetto agli altri;

10.1. la rilevanza di detti temi non può essere esclusa per il solo fatto che il ricorrente, oltre a rimuovere il crocifisso, abbia pronunciato frasi irriguardose nei confronti del dirigente scolastico, e ciò sia perché il  C aveva agito in giudizio, con distinti ricorsi poi riuniti, denunciando non solo l’illegittimità della sanzione, ma anche e soprattutto il carattere discriminatorio delle direttive impartite e dei provvedimenti adottati dal dirigente, sia in quanto in sede disciplinare, come evidenziato nella pronuncia gravata, si era tenuto conto principalmente dell’inottemperanza alle disposizioni del superiore gerarchico che recepivano la volontà espressa dalla maggioranza degli alunni;

  1. occorre premettere che l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche non è imposta da disposizioni di legge ma solo da regolamenti, risalenti nel tempo, applicabili alle scuole medie inferiori, per le quali l’art. 118 del r.d. n. 965/1924 prevedeva che «ogni istituto ha la bandiera nazionale; ogni aula, l’immagine del Crocifisso e il ritratto del Re», ed alle scuole elementari, i cui arredi erano elencati nella tabella C allegata al r.d. n. 1297/1928, richiamata dall’art. 119 del regolamento;

11.1. su questi regolamenti hanno fatto, poi, leva atti amministrativi più recenti (direttiva del MIUR del 3.10.2002 n. 2667) con i quali si è richiamata l’attenzione dei dirigenti scolastici sull’esigenza di adottare «iniziative idonee ad assicurare la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche»;

11.2. il Consiglio di Stato, dapprima in sede consultiva e poi in sede giurisdizionale (C.d.S. II parere n. 63/1988; C.d.S. VI n. 556/2006), oltre ad escludere che le disposizioni regolamentari in parola siano state abrogate dalla legislazione sopravvenuta per incompatibilità con la stessa ( questo aspetto, peraltro, non è determinante nella fattispecie giacché la vicenda interessa un istituto di scuola media superiore) ha anche affermato, ed è il principio che specificamente rileva in questa sede, che il crocifisso, a seconda del luogo nel quale è esposto, può assumere significati diversi ed in ambito scolastico può svolgere una funzione simbolica educativa nei confronti degli alunni, credenti e non credenti, perché richiama valori laici, quantunque di origine religiosa, quali sono quelli della tolleranza, del rispetto reciproco, della valorizzazione della persona, con la conseguenza che la sua esposizione non assume un significato discriminatorio sotto il profilo religioso né la decisione delle autorità scolastiche di tenere esposto il simbolo si pone in contrasto con il principio della necessaria laicità dello Stato;

11.3. le conclusioni alle quali la giurisprudenza amministrativa è pervenuta non sono state condivise da questa Corte che, sia pure pronunciando in fattispecie nella quale veniva in rilievo l’utilizzo dell’aula scolastica per lo svolgimento delle operazioni elettorali, ha ritenuto quelle disposizioni regolamentari frutto del principio, sancito dall’art. 1 dello statuto albertino, della religione cattolica come unica religione dello Stato, ed ha posto l’accento sulla natura esclusivamente religiosa del simbolo nonché sulla impossibilità di giustificare, attraverso il richiamo alla coscienza sociale, una scelta che si pone in contrasto con l’art. 3 Cost. in quanto, disponendo l’esposizione del solo crocifisso, viola il  divieto di «discipline differenziate in base a determinati elementi distintivi, tra i quali sta per l’appunto la religione» ( Cass. Pen. IV n. 4273/2000 che richiama Corte Cost. n. 329/1997);

11.4. le Sezioni Unite che, pronunciando in sede di regolamento di giurisdizione, avevano evidenziato il valore escatologico e di simbolo fondamentale della religione cristiana del crocifisso (Cass. S.U. n. 15614/2006), di quel valore non hanno dubitato nell’affrontare la diversa questione dell’esposizione del simbolo nelle aule giudiziarie ed hanno escluso, in quel caso, che fosse stata lesa la libertà religiosa del magistrato, incolpato di avere illegittimamente rifiutato di esercitare la giurisdizione, non perché in assoluto non si potesse ravvisare nell’ostensione una lesione di diritti soggettivi inviolabili ed una violazione del principio di laicità dello Stato, bensì perché in quella fattispecie la contestazione si riferiva ad un rifiuto opposto nonostante che fosse stata messa a disposizione del magistrato, per lo svolgimento della funzione sua propria, un’aula dalla quale il simbolo era stato rimosso ( Cass. S.U. n. 5924/2011);

11.5. le argomentazioni svolte dalle Sezioni Unite nella decisione da ultimo citata, che erroneamente la Corte territoriale ha ritenuto di poter richiamare nella sentenza qui gravata, attengono alla pretesa fatta valere dall’incolpato di veder rimuovere il crocifisso da tutte le aule dell’ufficio giudiziario nonché a quella di esposizione di un simbolo rappresentativo di un diverso credo religioso, e, quindi, non appaiono risolutive in questa sede nella quale, invece, viene in rilievo la condotta del docente che non ha rifiutato la prestazione, bensì ha ritenuto legittimo esercizio del potere di autotutela, fondato sulla lesione del suo diritto di libertà religiosa, la momentanea rimozione del simbolo dall’aula nella quale era chiamato a svolgere la sua attività di insegnamento;

11.6. il ricorso prospetta una questione sulla quale le Sezioni Unite non hanno avuto modo di pronunciare perché, in ragione del contenuto dell’incolpazione, hanno ritenuto inammissibili le censure inerenti la tutela di diritti inviolabili della persona, rilevando che solo qualora fosse stato imposto al magistrato «di esercitare la giurisdizione sotto la tutela simbolica del crocifisso, ciò poteva mettere in discussione il suo diritto soggettivo di libertà religiosa e di opinione»;

11.7. sul significato da attribuire all’ostensione del crocifisso nelle aule scolastiche è intervenuta la Corte EDU che, con la sentenza della Grande Camera del 18.3.2011, Lautsi ed altri contro Italia, ribaltando le conclusioni alle quali era pervenuta una Camera della stessa Corte, dopo aver dato atto del valore religioso del simbolo nonché delle posizioni divergenti assunte in proposito dal Consiglio di Stato e dalla Corte di Cassazione (punto 68 della pronuncia), ha escluso la denunciata violazione dell’art. 9 della Convenzione perché dalla sola esposizione di un «simbolo essenzialmente passivo» non deriva la violazione del principio di neutralità dello Stato ed all’ostensione, che deve essere “relativizzata”, non può essere riconosciuta un’influenza sull’educazione degli allievi paragonabile a quella di un discorso didattico o della partecipazione ad attività religiose  allorquando lo stesso Stato non assuma alcun comportamento intollerante nei confronti di alunni che aderiscano ad altri credi religiosi;

11.8. queste argomentazioni sono state fatte proprie dalla Corte territoriale, sebbene la fattispecie non sia in tutto sovrapponibile a quella valutata dalla Corte di Strasburgo perché, come evidenzia il ricorrente, in questo caso viene in rilievo il valore del simbolo in relazione non all’utente del servizio bensì al soggetto che è chiamato a svolgere la funzione educativa, di tal ché si potrebbe dubitare dell’asserito “ruolo passivo” qualora all’esposizione del simbolo si attribuisse il significato di evidenziare uno stretto collegamento fra la funzione esercitata ed i valori fondanti il credo religioso che quel simbolo richiama;

11.9. in tal caso, infatti, il docente della scuola pubblica, non confessionale, potrebbe fondatamente sostenere che quel collegamento si pone in contrasto con il principio di laicità dello Stato, inteso «non come indifferenza di fronte all’esperienza religiosa, bensì come tutela del pluralismo, a sostegno della massima espansione della libertà di tutti, secondo criteri di imparzialità» ( Corte Cost. n. 67/2017) e ravvisare nell’esposizione del simbolo una lesione della sua libertà di coscienza e di religione, minata dal richiamo di valori propri di un determinato credo religioso a fondamento dell’attività pubblica prestata;

  1. la risposta da dare all’interrogativo posto nei punti che precedono incide anche sull’ulteriore questione che il ricorso pone della denunciata violazione della disciplina dettata in tema di discriminazioni dal d.lgs. n. 216/2003, emanato in attuazione della direttiva 2000/78/CE, disciplina che la Corte territoriale ha ritenuto non violata valorizzando la circostanza che gli atti adottati dal dirigente scolastico, sulla base della volontà espressa dall’assemblea di classe, si riferissero indistintamente a tutti i docenti, e, quindi, non operassero alcuna disparità di trattamento fondata sul credo religioso;

12.1. la sentenza impugnata non affronta la questione della configurabilità nella fattispecie di una discriminazione indiretta, rispetto alla quale rilevano i principi affermati dalla Corte di Giustizia nelle recenti sentenze del 14.3.2017 in cause C-157/15, Achbita, e C- 188/15, Buougnaoui, con le quali, in relazione al divieto imposto dal datore di lavoro di indossare simboli identificativi dell’adesione ad un credo religioso, la Corte ha, da un lato, escluso che il divieto stesso, in quanto riferito indifferentemente a tutti i prestatori, possa costituire una discriminazione diretta, ma, dall’altro, ha ritenuto che l’atto possa integrare una discriminazione indiretta qualora determini «un particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione o ideologia» rispetto ai lavoratori che a detta religione o ideologia non aderiscono, ed ha precisato che in tal caso, affinché possa dirsi giustificata una restrizione della libertà religiosa, è necessario che ricorra una finalità legittima e che i mezzi impiegati per il perseguimento di detta finalità siano appropriati e necessari;

12.2. sebbene la fattispecie che qui viene in rilievo non sia sovrapponibile a quella esaminata dal giudice eurounitario, tuttavia si potrebbe sostenere che l’esposizione del crocifisso, sempre che alla stessa si ricolleghi il particolare significato di cui si è discusso nei punti che precedono, pone il docente non credente o aderente ad un credo religioso diverso da quello cattolico, in una situazione di svantaggio rispetto all’insegnante che a quel credo aderisce, perché solo il primo si vede costretto a svolgere l’attività di insegnamento in nome di valori non condivisi, con conseguente lesione di quella libertà di coscienza che il datore di lavoro è tenuto a salvaguardare ogniqualvolta la prestazione possa essere utilmente resa con modalità diverse, che quella libertà garantiscano;

12.3. dalla astratta configurabilità di una discriminazione indiretta, sulla cui ricorrenza la Corte territoriale non si è interrogata, discende l’ulteriore questione della valutazione sulla sussistenza o meno di una finalità legittima che giustifichi la compressione del diritto di libertà religiosa del docente, questione che nella fattispecie si ricollega a quella indicata in premessa, perché porta ad interrogarsi sulla possibilità di comprimere il diritto dell’insegnante valorizzando la volontà manifestata dall’assemblea di classe e, quindi, dando prevalenza al rispetto della coscienza degli alunni, espressamente tutelata dall’art. 2 del d.lgs. n. 297/1994;

12.4. in tal senso si rinvengono precedenti nella giurisprudenza amministrativa ( TAR Brescia n. 603/2006) ed è questa la soluzione adottata in altro ordinamento dell’unione europea ( legge bavarese del 23.12.1995 art. 7) che, appunto, in ragione delle caratteristiche proprie della comunità scolastica, ha ritenuto di dover valorizzare, quanto all’esposizione di simboli religiosi, la volontà espressa dalla maggioranza degli alunni, dei genitori e del personale docente;

12.5. a questa tesi, però, si potrebbe obiettare che la soluzione finisce per porsi in contrasto con i principi affermati dalla Corte Costituzionale secondo cui in materia di religione nessun rilievo può essere attribuito al criterio quantitativo, perché si impone la «pari protezione della coscienza di ciascuna persona che si riconosce in una fede, quale che sia la confessione religiosa di appartenenza» (Corte Cost. n. 440/1995 richiamata da Corte Cost. n. 329/1997), con la conseguenza che il conflitto fra la volontà espressa dagli alunni e quella del docente che nel simbolo non si riconosce, andrebbe risolto valorizzando il principio della laicità dello Stato, da intendere nei termini sopra indicati, che implica l’impossibilità di operare discriminazioni fra le diverse fedi e fra credenti e non credenti;

12.6. d’altro canto, e l’interrogativo rileva anche ai fini dell’indagine che il diritto antidiscriminatorio richiede sull’appropriatezza del mezzo utilizzato rispetto alla finalità perseguita, ci si può chiedere se, a fronte della volontà manifestata dalla maggioranza degli alunni e dell’opposta esigenza resa esplicita dal docente, l’esposizione del simbolo fosse comunque necessaria o se non si potesse realizzare una mediazione fra le libertà in conflitto, consentendo, in nome del pluralismo, proprio quella condotta di rimozione momentanea del simbolo della cui legittimità qui si discute, posta in essere dal ricorrente sull’assunto che la stessa costituisse un legittimo esercizio del potere di autotutela;

  1. in via conclusiva ritiene il Collegio che, in ragione della natura dei diritti che vengono in rilievo, le questioni poste dal ricorso possano essere ricondotte a quelle «di massima di particolare importanza» di cui all’art. 374, secondo comma, cod. proc. civ., e che sia pertanto opportuna la trasmissione degli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite

PQM

La cassazione rinvia al Primo Presidente per un eventuale esame da parte delle Sezioni Unite

Così deciso in Roma, il 22 luglio 2020

Depositato in cancelleria il 18 settembre 2020