Decurtazione del premio produttività per aver usufruito del congedo paternità, discriminazione, Tribunale di Asti, sentenza del 7 dicembre 2020
TRIBUNALE ORDINARIO di ASTI
Il giudice del Lavoro, dott.ssa Elisabetta Antoci, ha pronunciato il seguente
decreto ex art. 38 d. lgs. 198/2006
nel procedimento iscritto al n. r.g. 536/2020 promosso da:
G S (C.F.) con il patrocinio dell’avv. PADOVANI MASSIMO
ricorrente
contro
S K I S.P.A. (C.F. …………………) con il patrocinio dell’avv. MONCALVO FABRIZIO ARMANDO e dell’avv. GORIA CAMILLO
resistente
Con ricorso ex art. 38 d. lgs. 198/2006 G S ha convenuto in giudizio S K It s.p.a. deducendo:
– di essere dipendente della resistente a far data dal 01/01/2008, a tempo pieno ed indeterminato, inquadrato al livello C1 CCNL Carta e Cartone Industria, in qualità di addetto ufficio spedizioni presso l’unità locale di Asti;
– di aver fruito, nel corso del 2019, di più periodi di congedo parentale, per un totale di 60 giorni;
– di non aver effettuato altre assenze nel 2019;
– di aver subito, in ragione dell’assenza dovuta al congedo parentale, una decurtazione del “premio di risultato” previsto dall’accordo aziendale del 10.6.2019 e valido per il triennio 2019/2021;
– più specificamente, di aver percepito – a titolo di premio di risultato – la somma di € 421,20, in luogo della somma di € 1.293,81 ricevuta dai colleghi con medesimo inquadramento contrattuale e in mancanza di assenze.
Tanto premesso in fatto e richiamato il disposto di cui all’art. 3 del d. lgs. 151/2001 e 25, comma 2 bis, del d. lgs. 198/2006, il ricorrente ha dedotto la natura discriminatoria della condotta datoriale in relazione alla propria qualità di genitore e ne ha chiesto l’accertamento, con conseguente dichiarazione del diritto del ricorrente all’equiparazione dei periodi di assenza per congedo parentale all’effettiva presenza in servizio ai fini della quantificazione del premio di risultato 2019 e condanna della resistente al pagamento di € 872,31, quale differenza tra l’ammontare del premio di risultato ricevuto e quanto spettante ad un lavoratore di pari inquadramento.
Costituita in giudizio, K I s.p.a. ha contestato l’ammissibilità e la fondatezza del ricorso, deducendo in primo luogo la non ravvisabilità di una discriminazione di genere ai sensi degli artt. 25 e 28 del d. lgs. 198/2006, in virtù del fatto che l’accordo aziendale ha previsto la medesima disciplina in materia di assenze per congedi parentali (oltre che per le altre cause di riduzione del premio) per i lavoratori e le lavoratrici; ha affermato in secondo luogo la resistente la coerenza della disciplina pattizia in questione rispetto alla natura premiale dell’istituto del “premio di risultato”, necessariamente collegato alla presenza al lavoro e al conseguente apporto fornito alla realizzazione degli obiettivi aziendali; ha sottolineato infine il mancato assolvimento da parte del ricorrente all’onere di allegazione e prova, avuto riguardo agli elementi di fatto, anche desunti da dati statistici, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione di discriminazione, secondo quanto disposto dall’art. 40 del d. lgs. 198/2006.
Fallita la conciliazione, le parti hanno insistito nelle rispettive difese e conclusioni.
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Il 10.6.2019 è stato siglato tra S K I s.p.a., unità di Asti, e le RSU l’accordo relativo ai criteri e parametri di calcolo del premio di risultato per il triennio 2019/2021 (prodotto da entrambe le parti sub doc. 1).
Detto accordo individua, oltre ai parametri e criteri di definizione degli obiettivi di produzione, anche la platea dei lavoratori aventi diritto al premio, le modalità di erogazione e i criteri di quantificazione dello stesso.
Nello specifico, il premio viene definito ed erogato in unica soluzione nel corso del mese di febbraio dell’anno successivo a quello di riferimento e viene corrisposto a tutto il personale in forza – compreso il personale in somministrazione – nell’anno di riferimento e che abbia maturato almeno tre mesi di anzianità di servizio nello stesso anno. La maturazione del premio avviene in ragione di dodicesimi di prestazione lavorativa e l’importo dello stesso viene erogato in misura identica a tutti i lavoratori appartenenti alla medesima categoria e livello.
Sotto la rubrica “Riduzione del premio” l’accordo prevede espressamente che:
“Il premio raggiunto subirà una riduzione del 1% per ogni giorno di assenza del lavoratore per:
– malattia;
– infortunio se causato dal mancato utilizzo dei dispositivi di protezione individuale o dal mancato, evidente e reiterato, rispetto delle regole;
– maternità e paternità facoltative;
– aspettativa non retribuita.
E’ prevista una franchigia di 10 giorni; fino al decimo giorno di assenza non ci saranno pertanto riduzioni % del premio. A partire dall’undicesimo giorno di assenza verrà invece applicata una riduzione del 11%; dal dodicesimo giorno del 12% e così via”.
Tali modalità di computo hanno determinato concretamente per il ricorrente e con riferimento all’anno 2019 – anno in cui egli aveva fruito di 60 giorni di congedo parentale, senza compiere ulteriori assenze (cfr. buste paga e prospetti presenze sub doc. 2 fascicolo ricorrente) – una riduzione del premio di risultato ricevuto nel mese di febbraio 2020 pari ad € 872,31. Detta quantificazione, operata dal ricorrente sulla base del raffronto tra l’ammontare del premio di risultato ricevuto (€ 421,20, cfr. busta paga febbraio 2020 sub doc. 4 fascicolo ricorrente) e quello, privo di riduzioni, ricevuto da un lavoratore comparabile, con pari livello di inquadramento (€ 1.293,81, cfr. busta paga febbraio 2020 sub doc. 5 fascicolo ricorrente), non è stata specificamente contestata dalla resistente.
Tanto premesso, le censure di parte ricorrente si fondano sulla natura discriminatoria delle previsioni richiamate dell’accordo aziendale, in ragione dello status di genitore.
Nella prospettazione attorea difetta ogni riferimento ad una discriminazione di genere, dal che – secondo la resistente – discenderebbe l’inammissibilità e infondatezza della domanda, posto che la normativa invocata dal ricorrente è integralmente fondata sulla parità tra uomo e donna.
Tale tesi non convince.
Invero, se può certamente condividersi l’osservazione di parte resistente secondo cui l’intero impianto originario del codice delle pari opportunità si fonda sul divieto di discriminazione di genere, non possono d’altra parte trascurarsi le modifiche apportate all’art. 25 bis del d.lgs. n. 198/2006 ad opera della l’articolo 1, comma 1, lettera p), numero 2), del D.Lgs. 25 gennaio 2010, n. 5.
In particolare, all’art. 25 citato, sotto la rubrica “Discriminazione diretta e indiretta”, dopo i primi due commi, del seguente tenore:
“1. Costituisce discriminazione diretta, ai sensi del presente titolo, qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento, nonché l’ordine di porre in essere un atto o un comportamento, che produca un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga.
- Si ha discriminazione indiretta, ai sensi del presente titolo, quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, purché l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari”
è stato aggiunto il comma 2 bis, del seguente tenore:
“2-bis. Costituisce discriminazione, ai sensi del presente titolo, ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonché’ di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti”.
Il tenore letterale della norma induce a ritenere che sia stata individuata nella gravidanza, nella maternità e nella paternità autonomi fattori di discriminazione, con la conseguenza di divieto di ogni trattamento meno favorevole per la lavoratrice in gravidanza o in maternità rispetto a quelli riservati sia ai colleghi maschi sia alle colleghe non in stato di gravidanza o maternità, ma anche di ogni trattamento meno favorevole per il lavoratore “in paternità” (in senso ampio) rispetto a quelli riservati sia alle colleghe in condizioni comparabili sia ai colleghi non “in paternità”.
Tale interpretazione appare corroborata, del resto, dalla lettura della Direttiva 2006/54/CE, “riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego”, di cui il D.Lgs. 25 gennaio 2010, n. 5 costituisce espressa attuazione:
– all’art. 9, sotto la rubrica “esempi di discriminazione” è previsto che: “1. Nelle disposizioni contrarie al principio della parità di trattamento sono da includere quelle che si basano direttamente o indirettamente sul sesso per: (…) g) interrompere il mantenimento o l’acquisizione dei diritti durante i periodi di congedo di maternità o di congedo per motivi familiari prescritti in via legale o convenzionale e retribuiti dal datore di lavoro”;
– all’art. 15, sotto la rubrica “Rientro dal congedo di maternità” è previsto che: “Alla fine del periodo di congedo per maternità, la donna ha diritto di riprendere il proprio lavoro o un posto equivalente secondo termini e condizioni che non le siano meno favorevoli, e a beneficiare di eventuali miglioramenti delle condizioni di lavoro che le sarebbero spettati durante la sua assenza”;
– all’art. 16, sotto la rubrica “Congedo di paternità e di adozione” è previsto che: “La presente direttiva lascia impregiudicata la facoltà degli Stati membri di riconoscere diritti distinti di congedo di paternità e/o adozione. Gli Stati membri che riconoscono siffatti diritti adottano le misure necessarie per tutelare i lavoratori e le lavoratrici contro il licenziamento causato dall’esercizio di tali diritti e per garantire che alla fine di tale periodo di congedo essi abbiano diritto di riprendere il proprio lavoro o un posto equivalente secondo termini e condizioni che non siano per essi meno favorevoli, e di beneficiare di eventuali miglioramenti delle condizioni di lavoro che sarebbero loro spettati durante la loro assenza”.
Ne discende, quindi, che il divieto di discriminazione per ragioni connesse al sesso, già sancito già dalla L. n. 300 del 1970, art. 15, come modificato dal D.Lgs. n. 216 del 2003, e ribadito dal D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 3 e dal D.Lgs. n. 198 del 2006, art. 25, comma 2 bis entrambi come modificati dal D.Lgs. n. 5 del 2010, è esteso anche alla genitorialità (cfr. in questo senso anche Cassazione civile, sez. lav., 22/10/2018, n. 26663, punto 21 della motivazione).
Si consideri, d’altra parte, che con particolare riferimento al congedo parentale l’art. 34 del d. lgs. 151/01 prevede espressamente che “I periodi di congedo parentale sono computati nell’anzianità di servizio, esclusi gli effetti relativi alle ferie e alla tredicesima mensilità o alla gratifica natalizia”.
Ritenuto, dunque, che lo status di genitore costituisca un autonomo fattore di protezione nell’ordinamento vigente, occorre stabilire se la discriminazione denunciata sia stata prospettata come diretta ovvero indiretta.
A parere del giudice, il ricorrente ha prospettato una discriminazione diretta in danno del genitore, posto che, così come delineato dal ricorrente, il meccanismo di riduzione del premio di risultato non pone una regola apparentemente neutra che tuttavia, nella sua concreta esplicazione, finisce con il colpire la categoria protetta, bensì colpisce direttamente i lavoratori che fruiscono dei congedi parentali, e cioè i genitori.
Così astrattamente qualificata la discriminazione denunciata dal ricorrente, deve affermarsi che essa si riscontra nel caso di specie.
Infatti, il meccanismo di computo del premio di risultato prevede la riduzione dell’ammontare del premio in misura direttamente proporzionale al numero di giorni di fruizione del congedo parentale, a detrimento di chi compie assenze per tale motivo rispetto a chi ne compie per altri motivi.
Tale meccanismo, peraltro, non è giustificato dalla necessità di valorizzare la presenza in servizio del lavoratore, perché colpisce proprio le assenze per congedi parentali (e quindi i genitori) e non altre tipologie di assenze altrettanto giustificate (assenze per legge 104, permessi sindacali, permessi per donazioni del sangue, etc.).
Può quindi concludersi che il meccanismo di computo del premio in esame non soltanto non è strettamente e intimamente legato alla presenza in servizio (considera, infatti, rilevanti talune tipologie di assenze e irrilevanti altre) ma neppure appare in alcun modo giustificato dalla natura dell’assenza per congedo parentale, del tutto analoga a quella di altre assenze (necessità di accudimento di altri soggetti, come avviene per i permessi ex l. 104).
L’analisi del meccanismo di attribuzione del premio e il riscontro del trattamento sfavorevole riservato ai lavoratori che fruiscono del congedo parentale fa emergere chiaramente la natura discriminatoria della norma in danno dei lavoratori genitori.
Non vi è quindi necessità di ulteriori “elementi di fatto, anche statistici, idonei a costituire indici precisi e concordanti” per dimostrare la sussistenza della discriminazione, così come prospettata dal ricorrente (tale ultima modalità di accertamento sarebbe stata necessaria ove fosse stata dedotta dal ricorrente una discriminazione indiretta di genere, e cioè ad esempio deducendo che la norma pattizia, prevedendo una ripercussione negativa di ordine retributivo per coloro che fruiscono dei diritti connessi allo status di genitore, finisce per colpire i lavoratori di un determinato sesso).
Infine, va affermato che non rileva, al fine di escludere il carattere discriminatorio delle disposizioni in esame, né – in primo luogo – la natura della fonte di queste ultime (accordo sindacale), posto che ricade in ogni caso sul datore di lavoro l’obbligo di realizzare un’organizzazione del lavoro atta ad evitare discriminazioni anche a fronte di un accordo con le organizzazioni sindacali, né – in secondo luogo – la non ravvisabilità di intenti discriminatori in capo alla resistente ed anzi l’attivazione di campagne ed iniziative a tutela della parità di genere, dal momento che la discriminazione opera obiettivamente, ossia in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro (in questi termini si è espressa la Suprema Corte, con la sentenza n. 6575 del 5/4/2016).
Alla luce di quanto precede, il ricorso va accolto.
Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo alla luce dei parametri di cui al D.M. 55/14 in considerazione della natura del procedimento e del grado di complessità delle questioni affrontate.
P.Q.M.
– dichiara la natura discriminatoria dell’accordo sindacale del 10.6.2019 nella parte in cui indica le assenze per maternità e paternità facoltative quale cause legittimanti la riduzione del premio di risultato;
– ordina alla resistente la cessazione della condotta e la rimozione degli effetti e, pertanto, condanna parte resistente a corrispondere a parte ricorrente la somma lorda di € 872,31 a titolo di saldo premio di risultato 2019, oltre interessi e rivalutazione;
– condanna parte resistente a rimborsare a parte ricorrente le spese di lite, liquidate in € 650,00 per compensi, oltre € 21,50 per esborsi, rimborso forfettario spese di lite al 15%, iva e cpa alle rispettive aliquote di legge, con distrazione in favore del difensore antistatario.
Si comunichi.
Asti, 07/12/2020
Il Giudice
dott.ssa Elisabetta Antoci