Discriminazione handicap, superamento periodo di comporto, Tribunale di Verona, ordinanza del 21.03.2021
TRIBUNALE DI VERONA
Sezione Lavoro
II Giudice, dott. Antonio Gesumunno, nella causa di lavoro n. 1089 /2020 promossa da
da
Centro
Ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
II Giudice, a scioglimento della riserva assunta all’udienza del 26/01/2021 osserva quanto segue
la Corte di Cassazione, con riguardo all’ambito di applicazione della direttiva 78/2000/CE e
dell’art. 3, comma 3 bis, del d. lgs. n. 216 del 2003, che ne costituisce attuazione, posto che ii licenziamento rientra tra le condizioni di lavoro protette dalla direttiva, ha ritenuto, con indirizzo conforme, che il fattore soggettivo dell’handicap non ricavabile dal diritto interno ma unicamente dal diritto dell’Unione Europea (Cass. n. 6798 del 2018; Cass. n. 13649 del 2019; Cass. n. 29289 del 2019), secondo il quale si tratta di “una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature, che, in interazione con barriere di diversa natura, puo ostacolare la piena ed effettiva partecipazione dell’interessato alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori” (CGUE sentenze 11 aprile 2013, HK Danmark, C-335/1 1 e C337/11, punti 38- 42; 18 marzo 2014, Z., C-363/12, punto 76; 18 dicembre 2014, FOA, C-354/13, punto 53; 1 dicembre 2016, Mo. Da. C-395/15, punti 41-42). La Suprema Corte ha poi confermato l’assoluta autonomia del concetto di handicap, quale fattore di discriminazione, rispetto all’accertamento della condizione di handicap grave di cui alla L. n. 104 del 1992 (Cass. Sez. Lav. n. 23338 del 27/09/2018). Grava sul lavoratore che ne abbia interesse allegare e dimostrare di trovarsi nelle condizioni descritte (Cass. n. 27502 del 2019).
Nella presente causa non è in contestazione che il ricorrente si trovasse e si trovi in una situazione soggettiva di disabilita o handicap, rilevante ai fini della disciplina richiamata.
Le parti non concordano sul contratto collettivo applicabile alla fattispecie in esame. lnfatti secondo la parte ricorrente ii computo del termine di comporto dovrebbe essere regolato dalla
C.C.N.L. Agenzie Somministrazione di Lavoro firmato il 15/10/2019 (doc. 18 ricorrente) avente come inizio di validita 01/01/2019 e scadenza della parte normativa al 31/12/2021.
La parte convenuta invece sostiene che le condizioni di illegittimità del recesso debbano essere valutate tenuto canto del previgente C.C.N.L., il quale aveva decorrenza dal 01/01/2014 e validita triennale (doc. 9 parte convenuta). L’articolo 56 del C.C.N.L. 2014 prevede: “resta ferma la piena validita del presente contratto sino al successivo rinnovo”.
Nel C.C.N.L. 2014 l’articolo 39 (periodo di comporto) prevede che “per i soggetti con disabilita, destinatari delle previsioni contenute nell’articolo 3 comma 3 della legge 104/92, i permessi per cura sono esclusi dal computo dei periodi di malattia”.
Nel C.C.N.L. 2019 oltre a tale previsione è stata inserita anche la seguente clausola “sono escluse dal periodo di comporto le giornate di assenza per terapie salvavita e trattamenti oncologici e per malattie ingravescenti”.
La fattispecie oggetto di causa si è concretamente svolta ed esaurita nel periodo di “ultra vigenza”, pattuita dalle parti sociali, nel contratto collettivo scaduto nel 2017. II nuovo contratto collettivo, in mancanza di una espressa previsione dei sottoscrittori, non può essere applicato retroattivamente a situazioni gia esaurite sotto la vigenza del precedente CCNL.
E’ inoltre pacifico che per ii raggiungimento dei 180 giorni dell’anno solare indicati dalla contrattazione collettiva quale periodo di comporto ordinario la societa convenuta ha conteggiato anche le assenze collegate alle patologie che hanno determinato la situazione di disabilita del ricorrente.
La parte ricorrente sostiene che il licenziamento debba essere dichiarato nullo per discriminazione indiretta confronti del lavoratore disabile.
II ricorrente richiama la giurisprudenza europea e nazionale secondo la quale la previsione di un periodo di comporto uguale per i lavoratori disabili e per quelli “normodotati” costituisce una ipotesi di discriminazione indiretta. Si tratta infatti di una previsione apparentemente neutra, che tuttavia introduce una disparità di trattamento a danno dei soggetti disabili, i quali sono statisticamente piu soggetti, rispetto ad altri lavorator,i ad assenze per malattia collegate alle patologie invalidanti.
La parte convenuta sostiene che il C.C.N.L.2014 si sottragga a tale censura, poichè è previsto espressamente che i soggetti portatori di handicap ai sensi dell’articolo 3 comma 3 della legge 104/92 possano usufruire di permessi per cura senza che essi vengono qualificati come periodi di assenza per malattia.
L’argomentazione di parte convenuta non è condivisibile. La previsione del CCNL 2014 infatti appare non sufficiente per poter escludere il rischio di una ingiustificata disparità di trattamento rispetto ai lavoratori portatori di handicap. lnfatti essa si limita a disciplinare i permessi per cura richiesti da una determinata categoria di soggetti portatori di handicap e cioè coloro che si trovano in una situazione di gravità. Pertanto sono esclusi i soggetti disabili che, come ricorrente, non sono riconosciuti in condizioni di gravita, ma sono comunque ascrivibili alla categoria protetta contro le discriminazioni nel rapporto di lavoro dalla normativa europea e nazionale. lnoltre il CCNL 2014 si riferisce letteralmente e tassativamente a permessi per effettuare delle terapie, che quindi possono non coincidere con le assenze per malattia in senso stretto.
La lacunosità della previsione del C.C.N.L. 2014 e confermata proprio dal fatto che, in occasione del rinnovo del C.C.N.L. avvenuto nell’ottobre del 2019, i firmatari hanno inteso introdurre una espressa previsione in forza della quale vengono escluse dal periodo di comporto le assenze per malattie “ingravescenti”, a prescindere dal riconoscimento del lavoratore come portatore di handicap in situazione di gravità.
La Direttiva 2000/78/CE, recepita dal D.Lgs. n. 216 del 2003, – applicabile alle “condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento” – mira a garantire la parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall’età e dall’orientamento sessuale. Alla lettera a) dell’art. 2 è definita la discriminazione diretta che si ravvisa “quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una personae trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga”. Alla successiva lettera b), poi, è data la definizione della nozione di discriminazione indiretta che sussiste nel caso in cui “una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone”. Mentre nel caso di discriminazione diretta è la condotta, ii comportamento tenuto, che determina la disparita di trattamento, nel caso di discriminazione indiretta la disparita vietata è l’effetto di un atto, di un patto di una disposizione di una prassi in se legittima.
L’art. 5 prevede che il datore di lavoro è tenuto ad adottare “soluzioni ragionevoli per i disabili”: “Per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli. Cio significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perchè possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato.” Anche l’art. 3, comma 3 bis del D.Lgs. n. 216 del 2003 dispone che il datore di lavoro è tenuto ad adottare “accomodamenti ragionevoli” per garantire alle persone con disabilita la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. Analoghe forme di tutela si rinvengono nelle L.R. n. 12 del 2014 e L.R. n. 14 del 2015, le quali prevedono percorsi di inserimento lavorativo, tutor e figure di sostegno dei lavoratori svantaggiati.
Dal complesso delle suddette disposizioni emerge che il datore di lavoro debba tenere in considerazione la situazione di svantaggio del lavoratore, adottando “soluzioni ragionevoli” idonee ad evitare una discriminazione indiretta che produca l’effetto di estromettere ii dipendente dal contesto lavorativo.
L’applicazione generalizzata della disciplina dettata dal CCNL del 2014, senza la previsione di accorgimenti a tutela delle persone che come ii ricorrente siano da qualificare come disabili, crea una discriminazione indiretta, che è sanzionata dalla normativa comunitaria e dalla disciplina nazionale. La Corte di Giustizia UE ha enunciato tale principio nella sentenza 18.01.2018 – causa C270/16 nella quale e stata chiamata a chiarire la portata interpretativa dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della Direttiva 2000/78 in una vicenda analoga a quella oggetto di causa
L’applicazione al ricorrente, assentatosi a causa di malattie riconducibili al proprio stato di invalidità, della medesima previsione del CCNL sul conteggio delle assenze ai fini del comporto, che riguarda i lavoratori “normodotati”, determina una discriminazione indiretta, tale da provocare la nullità del licenziamento fondato sulla suddetta previsione contrattuale.
La parte convenuta ha osservato che le certificazioni mediche trasmesse dal lavoratore non recavano l’evidenza della natura della patologia che giustificava le assenze del lavoratore e che pertanto ii datore di lavoro non era in grado di verificare la riconducibilita dell’assenza alle patologie invalidanti del ricorrente.
L’argomentazione di parte ricorrente non è condivisibile.
L’applicazione della normativa sovranazionale – recepita nel D.Lgs. n. 216 del 2003 – non richiede infatti un comportamento datoriale intenzionalmente discriminatorio. La più recente giurisprudenza di legittimita ha fissato il principio secondo ii quale la discriminazione “opera obiettivamente, ovvero in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta, ea prescindere dalla volonta illecita del datore di lavoro” (Cass. Sez. Lav. n. 23338 del 27/09/2018; Cass. n. 6575 del 2016).
Il licenziamento comunicato al ricorrente deve pertanto essere dichiarato nullo ai sensi dell’art.15 legge 300/70 con conseguente applicazione della tutela prevista dal primo comma dell’art. 18 legge 300/70. La parte ricorrente ha allegato una retribuzione mensile globale di fatto paria € 1.521,72. II rateo di TFR non è computabile nella retribuzione globale di fatto tenuto conto dell’ordine di reintegrazione in servizio ex tune
Le spese seguono la soccombenza con applicazione analogica dei parametri vigenti per i procedimenti cautelari con adeguata diminuzione per la ridotta attivita istruttoria.
P.Q.M.
- in accoglimento del ricorso dichiara la nullità del licenziamento comunicato ii 12.9.2019 al ricorrente…………ordina alla convenuta …………..la reintegrazione del ricorrente nel pesto di lavoro e condanna la societa convenuta a versare al ricorrente un’indennita risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sine a quello di effettiva reintegrazione – e comunque in misura non inferiore a cinque mensilità -, detratto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, oltre rivalutazione monetaria e interessi legali ed al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali di legge, dal giorno del licenziamento sino a quello di effettiva reintegrazione;
- condanna la societa convenuta a rifondere le spese di lite in favore della parte ricorrente, che liquida in 4000 per compensi oltre Iva Cpa e rimb. forf.
Verona,21/03/2021
IL GIUDICE
dott. Antonio Gesumunno