Licenziamento del lavoratore disabile: parità di trattamento e obbligo dei ragionevoli accomodamenti, Cassazione Civile, Sez. Lav., 09 marzo 2021
Presidente: ARIENZO ROSA
Relatore: AMENDOLA FABRIZIO
Data pubblicazione: 09/03/2021
Fatto
1. Con sentenza del 1° ottobre 2018, la Corte di Appello di Milano ha confermato la pronuncia di primo grado nella parte in cui aveva ritenuto illegittimo il licenziamento intimato a G.V. il 31 marzo 2016 dalla ASF A srlper sopravvenuta inidoneità fisica alla mansione e, in parziale riforma di essa dal punto di vista della tutela applicabile, ha condannato la società “a reintegrare ex art. 18, co. 4, l. n.. 300/1970 (il lavoratore) … nonché a corrispondergli a titolo risarcitorio le retribuzioni globali di fatto maturate dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione (nei limiti delle dodici mensilità globali di fatto)”, oltre accessori.
2. La Corte, premessa l’applicabilità dell’art . 3, comma 3 bis, del d. lgs. n. 216 del 2003, di recepimento dell’art. 5 della direttiva 2000/78/CE, ha ritenuto sussistere, in capo al datore di lavoro, un “obbligo generale di adottare tutte quelle misure – ‘accomodamenti ragionevoli’ – atte ad evitare il licenziamento, anche quando queste incidano sull’organizzazione dell’azienda”, salvo il limite dell’eventuale sproporzione degli oneri a carico dell’impresa.
In ragione di ciò la Corte territoriale ha condiviso la valutazione effettuata dal Tribunale, argomentando che “non è sufficiente che la società ASF A srl abbia provato che in biglietteria vi fossero lavoratori con profilo professionale superiore a quello posseduto dal G.V. e che l’organigramma non prevedesse ulteriori addetti in quell’ufficio”; infatti l’azienda avrebbe dovuto “dimostrare che la destinazione del lavoratore portatore di handicap in tale ufficio avrebbe imposto un onere finanziario sproporzionato o comunque eccessivo anche con riferimento alla formazione professionale”. Per la Corte milanese il datore di lavoro, invece, si è limitato ad affermare l’impossibilità del repechage del dipendente fisicamente inidoneo secondo gli usuali criteri (statici) vigenti in tema di giustificato motivo oggettivo per soppressione delle mansioni” . “Lo stesso discorso – prosegue la sentenza d’appello – vale ,· in relazione al possibile reimpiego del lavoratore nelle mansioni di lavaggio autobus (non essendo rilevante il fatto che nell’organigramma non fosse prevista la figura del pulitore esclusivo) o in quelle di verificatore in affiancamento ad altro collega”. Infine la Corte ha aggiunto che la circostanza che l’azienda non si fosse affatto posta ,” il problema di trovare ragionevoli situazioni per ricollocare” il dipendente emergeva chiaramente dalla deposizione del medico competente, il quale, sentito come testimone, aveva dichiarato di non essere mai stato incaricato dall’azienda di esprimere una valutazione in merito ad altre possibili mansioni cui adibire il lavoratore con disabilità.
4. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la società soccombente con 2 motivi; ha resistito con controricorso G.V..
Diritto
1. Con il primo articolato motivo di ricorso si denuncia: “Violazione e I falsa applicazione degli articoli 5 della Direttiva n. 78/2000/CE , 3, comma 3 bis, del d. lgs. n. 216 del 2003, 3 e 5 della l. n. 604 del 1966, 41 del d. lgs. n. 81 del 2008, 41 Cost. (art. 360 n. 3 c.p.c.)”.
Per la ricorrente la sentenza impugnata sarebbe erronea in quanto avrebbe affermato che l’obbligo, in capo al datore di lavoro, “di adottare tutte quelle misure – ‘accomodamenti ragionevoli’ – atte a evitare il licenziamento del lavoratore divenuto inidoneo (portatore di handicap) alle specifiche mansioni” incontrerebbe il limite dato dall’eventuale sproporzione degli oneri a carico dell’impresa, ma non anche quello della modificazione delle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa a carico dei singoli colleghi dell’invalido.
Si lamenta che la Corte milanese avrebbe “operato una – non consentita – valutazione sostitutiva delle prerogative esclusive del datore di lavoro”, individuando posizioni alternative “per le quali ASF (sin dalla prima fase del primo grado) aveva dedotto specifiche circostanze, tutte non contestate da controparte, dalle quali si evince sia la situazione di pieno organico sia l’impossibilità di adibire il Sig. G.V. alle predette posizioni”. Si ribadisce quindi che “la società si trovava in una condizione di pieno organico … ergo non vi erano posizioni scoperte in organigramma a cui, anche solo potenzialmente, adibire il Sig. G.V.”. Per altro aspetto si critica la sentenza impugnata per avere la Corte “erroneamente attribuito al medico competente della società una funzione che allo stesso, per legge, non competeva, ossia quella di esprimere valutazioni in merito a possibili mansioni a cui adibire il lavoratore divenuto inidoneo alla mansione/portatore di handicap”.
Con il secondo motivo si denuncia la violazione dell’onere della prova ex art. 2697 c.c., a mente dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., atteso che la società aveva dedotto specifiche circostanze, tutte non contestate, dalle quali si evinceva “sia la situazione di pieno organico sia l’impossibilità di adibire il Sig. G.V. alle predette posizioni”, non adeguatamente valutate dalla Corte territoriale che avrebbe così addossato un improprio onere probatorio sul datore di lavoro.
2. I motivi, congiuntamente esaminabili per reciproca connessione, pongono la questione dell’interpretazione e dell’applicazione dell’art. 3, comma 3 bis, del d. lgs. 9 luglio 2003, n. 216, ad una ipotesi di licenziamento di lavoratore divenuto fisicamente inidoneo alla mansione.
Essi sono infondati per le ragioni che seguono.
3. Al fine di un ordinato iter motivazionale è opportuno premettere la ricognizione delle fonti di diritto positivo – nei limiti in cui le stesse sono ritenute ‘rilevanti nel giudizio che ci occupa – che regolano la res litigiosa, anche integrate dagli interventi del diritto sovranazionale, i quali hanno dato impulso alla legislazione interna e ne condizionano l’interpretazione.
3.1. Il d. lgs. n. 216 del 2003, nel dare “Attuazione della direttiva 2000/78/CEE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro”, ha stabilito, tra l’altro, che “Il principio di parità di trattamento senza distinzione … di handicap … si applica a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato ed è suscettibile di tutela giurisdizionale” con specifico riferimento anche alla seguente area: “occupazione e condizioni di lavoro, compresi gli avanzamenti di carriera, la retribuzione e le condizioni del licenziamento” (art. 3, comma 1, lett. b).
In seguito a condanna dell’Italia da parte della Corte di Giustizia dell’Unione Europea per inadempimento alla citata direttiva (sentenza 4 luglio 2013, C-312/2011, Commissione europea/Repubblica Italiana), il d.l. 28 giugno 2013, n. 76 (art. 9, comma 4-ter), conv. con modif. dalla l. 9 agosto 2013, n. 99, ha inserito nel testo dell’art. 3 del d. lgs. n. 216 del 2003, un comma 3 bis del seguente tenore: ”Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. I datori di lavoro pubblici devono provvedere all’attuazione del presente comma senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie, e strumentali disponibili a legislazione vigente”.
Rispetto a tale previsione di carattere generale, che non riguarda esclusivamente la materia dei licenziamenti, nel diritto interno si rinviene una disciplina settoriale, nella l. 12 marzo 1999, n. 68, recante “Norme per il diritto al lavoro dei disabili” attraverso “servizi di sostegno e di collocamento mirato”.
Fermo il principio che “li datore di lavoro non può chiedere al disabile una prestazione non compatibile con le sue minorazioni” (art. 10, co. 2, I. n. 68 del 1999), nel caso di aggravamento delle condizioni di salute del soggetto assunto come invalido ai fini del collocamento obbligatorio, aggravamento tale da porre problemi di compatibilità con la prosecuzione dell’attività lavorativa, “il disabile ha diritto alla sospensione non retribuita del rapporto di lavoro fino a che l’incompatibilità persista” e “il rapporto di lavoro può essere risolto nel caso in cui, anche attuando i possibili
adattamenti dell’organizzazione del lavoro, la predetta commissione (ndr. la commissione integrata di cui all’art. 4 della I. n. 104 del 1992) accerti la definitiva impossibilità di reinserire il disabile all’interno dell’azienda” (art. 10, co. 3, l. n. 68 del 1999).
La stessa legge, per “i lavoratori che divengono inabili allo svolgimento delle proprie mansioni in conseguenza di infortunio o malattia”, stabilisce che ” l’infortunio o la malattia non costituiscono giustificato motivo di licenziamento nel caso in cui essi possano essere adibiti a mansioni equivalenti ovvero, in mancanza, a mansioni inferiori” (art. 4, co. 4, I. n. 68 del 1999).
Sulla medesima linea si colloca l’art. 42 del d. lgs. 9 aprile 2008, n. 81, in materia di tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro, secondo il quale il datore di lavoro, ove le misure indicate dal medico competente prevedano una inidoneità alla mansione specifica, “adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori”.
Sul fronte delle tutele, i più recenti interventi legislativi hanno previsto disposizioni specifiche per il caso del licenziamento del lavoratore in condizione di inidoneità fisica o psichica ovvero di disabilità.
In particolare, il comma 7 dell’art. 18 della l. n 300 del 1970, come modificato dalla I. 28 giugno 2012 n. 92, ha previsto l’applicazione della reintegrazione nel posto di lavoro e del pagamento di un’indennità non superiore a 12 mensilità per il caso in ‘cui si accerti “il difetto di giustificazione del licenziamento intimato, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della l. n. 68 del 1999, per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore”.
L’art. 2 del d.lgs. 4 marzo 2015 n. 23 ha riconosciuto, invece, la tutela reintegratoria piena oltre che al “licenziamento discriminatorio” anche a quello illegittimo “per difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore”, con analogo riferimento agli articoli della l. n. 68 del 1999.
In proposito, vale subito evidenziare che, nella controversia in esame, non vi è motivo di impugnazione che riguardi la tutela applicabile ovvero la natura discriminatoria del licenziamento, temi che pertanto esorbitano dall’oggetto del contendere in questa sede di legittimità, per cui il richiamo alle disposizioni, che governano le conseguenze sanzionatorie del licenziamento difforme dal modello legale è utile al fine di completare sistematicamente la cornice disciplinatoria e consente , da ultimo, di rammentare l’art. 3 della l. n. 604 del 1966, al quale tradizionalmente, si riconduce, talvolta unitamente agli artt. 1463 e 1464 e.e., il recesso per giustificato motivo oggettivo in caso di impossibilità della prestazione lavorativa dovuta a sopravvenuta infermità permanente del lavoratore (v. Cass. SS.UU . n. 7755 del 1998, secondo cui l’art. 3 della l. n. 604 del 1966 “costituisce specificazione, e non deroga, di quelle norme codicistiche”).
3.2. Il contesto normativo sovranazionale trova nella “Convenzione delle Sezioni Unite sui diritti delle persone con disabilità”, adottata il 13 dicembre 2006, ratificata e resa esecutiva dall’Italia con l. n. 18 del 2019, approvata a nome della Comunità europea con la decisione 2010/48/CE del Consiglio del 26 novembre 2009, il riconoscimento del “diritto al lavoro delle persone con disabilità, su base di uguaglianza con gli altri” (art. 27).
La Convenzione definisce (art. 2) per “discriminazione fondata sulla disabilità qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione sulla base della disabilità ‘che abbia ‘ lo scopo o l’effetto di pregiudicare o annullare il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo. Essa include ogni forma di discriminazione, compreso il rifiuto di un accomodamento ragionevole”; per “accomodamento ragionevole” intende “le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali”.
In ambito comunitario, la direttiva 2000/78/CE sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, dopo una serie di ‘Considerando;’ all’art. 1 sancisce che essa “… mira a stabilire un quadro generale per la lotta. alle discriminazioni fondate (su) … gli handicap … per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento”. L’art. 5 poi, intitolato “Soluzioni ragionevoli per i disabili”, statuisce: “Per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato. Tale soluzione è sproporzionata allorché l’onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili”.
4. Dalla ricognizione operata emerge un quadro complesso, frutto di successive stratificazioni normative, sovente non coordinate tra loro, di livello interno e internazionale, che sollecitano, per quanto possibile, la funzione nomofilattica della giurisprudenza di legittimità, nella specie resa non agevole dalla concorrenza di fonti composite e multilivello.
Riguardo l’ambito di applicazione della direttiva 78/2000/CE e dell’art. 3, comma 13 bis, del d. lgs. n. 216 del 2003, che ne costituisce attuazione, questa Corte, posto che il licenziamento rientra tra le condizioni di lavoro protette dalla direttiva, ha ritenuto, con indirizzo conforme, che il fattore soggettivo dell’handicap non è ricavabile dal diritto interno ma unicamente dal diritto dell’Unione Europea (Cass. n. 6798 del 2018; Cass. n. 13649 del 2019; Cass. n. 29289 del 2019), secondo il quale si tratta di “una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psicriche durature, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolar la piena d effettiva partecipazione dell’interessato alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori” (CGUE sentenze 11 aprile 2013, HK Danmark, C-335/11 e ,C- 337/11, punti 38- 42; 18 marzo 2014, Z., C-363/12, punto 76; 18 dicembre 2014, FOA, C-354/13, punto 53; 1 dicembre 2016, Mo. Da. C-395/15, punti 41-42). Grava sul lavoratore che ne abbia interesse allegare e dimostrare di trovarsi nelle condizioni descritte (Cass. n. 27502 del 2019).
Giova in proposito evidenziare che nella controversia in esame non , è in contestazione che il G.V. si trovasse in una situazione soggettiva di handicap, rilevante ai fini della disciplina richiamata.
Quanto agli “accomodamenti ragionevoli”, questa Corte ha statuito che “in tema di licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, derivante a una condizione di handicap, sussiste l’obbligo della previa verifica, a carico del datore di lavoro, della possibilità di adattamenti organizzativi ragionevoli nei luoghi di lavoro ‘ai fini della legittimità del recesso”, secondo una interpretazione conforme agli obiettivi della direttiva 2000/78/CE (Cass. n. 6798/2018 cit.; conf. Cass. n. 13649/2019 cit.; nella prima pronuncia si è altresì specificato che “il giudizio espresso in concreto sulla ragionevolezza delle soluzioni è giudizio di fatto sindacabile da questa Corte nei limiti di deducibilità del vizio di motivazione”).
Successivamente, ribadito il principio che, ai fini della legittimità del licenziamento del lavoratore per inidoneità fisica sopravvenuta, sussiste l’obbligo della previa verifica, a carico del datore di lavoro, della possibilità di adattamenti organizzativi’, si è ritenuto che gli stessi debbano essere adottati “secondo il parametro (e con il limite) della ragionevolezza”; in particolare occorre tenere conto “del limite costituito dall’inviolabilità in peius (art. 2103 c.c.) delle posizioni lavorative degli altri presta ori di lavoro” nonché evitare “oneri organizzativi eccessivi (da valutarsi in relazione alle peculiarità dell’azienda ed alle relative risorse finanziarie)”, stante l’esigenza di “mantenimento degli equilibri finanziari dell’impresa” (Cass. n. 27243 del 201; in conformità v. Cass. n. 6678 del 2019 e Cass. n. 18556 del 2019).
Di recente Cass. n. 34132 del 2019, rammentato che l’art. 2 della Convenzione di New York del 2006 considera quale accomodamento ragionevole “le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un carico sproporzionato ed eccessivo”, ha cassato la sentenza impugnata onde consentire al giudice del rinvio “la valutazione della proporzionalità e della non eccessività delle misure di adattamento … sia rispetto all’organizzazione aziendale sia con riguardo agli altri lavoratori”.
5. Tanto premesso, il Collegio reputa che il ricorso per cassazione possa essere disatteso sulla base delle regole che ripartiscono gli oneri di allegazione e prova gravanti sulle parti nella fattispecie di impugnativa del licenziamento sottoposta al suo esame, non senza aver preliminarmente definito i confini dell’obbligo del datore, di lavoro.
5.1. Fermo il dato di diritto positivo, stabilito dal comma 3 bis dell’art. 3 del d. lgs. n. 216 del 2003, secondo cui ogni datore di lavoro, pubblico o privato, è tenuto ” ad adottare accomodamenti ragionevoli”, anche in caso di licenziamento, per garantire il rispetto del principio di parità di trattamento delle persone con disabilità, non è possibile predeterminare in astratto l’esatto contenuto dell’obbligo.
Il legislatore, infatti, ha deliberatamente scelto di trasporre nell’ordinamento interno la formula delle fonti sovranazionali, in dichiarata attuazione della direttive n. 78/2000/CE, affidandosi ad una nozione a contenuto variabile – categoria dogmatica estesa, nell’ambito della quale possono variamente collocarsi clausole generali, norme elastiche, concetti giuridici indeterminati, finanche i principi – che ha ‘ come caratteristica strutturale proprio l’indeterminatezza: consapevole dell’impossibilità ,di una tipizzazione delle condotte prescrivibili, il legislatore ha conferito all’interprete il compito di individuare lo specifico contenuto dell’obbligo, guidato dalle circostanze del caso concreto.
Interprete inteso, prima di tutto, come operatore che deve conformare la propria condotta al parametro normativo, al fine di renderla legittima; interprete poi, laddove eventualmente sorga contesa, come giudice che è chiamato a dirimerla. Per entrambi questa Corte è chiamata a fornire criteri di giudizio anche nei casi in cui il contenuto indeterminato della norma è destinato a misurarsi con la variabilità del reale, onde comunque orientare l’attività degli interpreti.
5.2. L’attività di ascrizione di significato alla norma non può che muovere il dato testuale.
Il termine “accomodamento”, che nella lingua italiana richiama propriamente l’idea dell’accordo ovvero dell’adeguamento o della regolazione di uno strumento meccanico è in realtà la trasposizione lessicale pedissequa dall’inglese “accomodation”, presente nella Convenzione ONU del 2006, alla quale esplicitamente rinvia il comma 3 bis dell’art. 3 più volte citato per la definizione del termine, e presente anche nella versione inglese dell’art. 5 della direttiva 2000/78/CE, sebbene tradotto in quella italiana con “soluzioni ragionevoli”.
Nell’art. 2 della Convenzione per “accomodamenti” si intendono “le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati” che si debbano adottare “per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza ‘con altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali”.
Parallelamente l’art. 5 della direttiva dell’Unione europea in materia, cui occorre fare riferimento in chiave di interpretazione conforme quale aspetto dell’interpretazione sistematica della disciplina in esame, parla di “provvedimenti appropriati” del datore di lavoro, “in funzione delle esigenze delle situazioni concrete”, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro e di svolgerlo.
Si tratta dunque di adeguamenti, lato sensu, organizzativi che il datore di lavoro deve porre in essere al fine di “garantire il principio della parità di trattamento dei disabili” e che si caratterizzano per la loro “appropriatezza”, ovvero per la loro idoneità a consentire alla persona svantaggiata di svolgere l’attività lavorativa.
Vale rimarcare che l’adozione di tali misure organizzative è prevista in ogni fase del rapporto di lavoro, da quella genetica sino a quella della sua risoluzione, non essendo specificamente destinate a prevenire un licenziamento.
A riprova, il considerando 20 della direttiva elenca, in via esemplificativa e sicuramente non tassativa, quali “misure efficaci e pratiche destinate a sistemare il luogo di lavoro in funzione dell’handicap”, la sistemazione dei locali, l’adattare ‘le attrezzature, il regolare i ritmi di lavoro, la ripartizione dei compiti, il fornire mezzi di formazione o di inquadramento.
La Corte di Giustizia statuisce che il concetto di “soluzioni ragionevoli” deve essere inteso nel senso che si riferisce all’eliminazione delle barriere di diversa natura eh ostacolano la piena ed effettiva partecipazione dei disabili alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori (sentenze dell’11 aprile 2013, HK Danmark, C-335/11 e C-337/11, punto 54; del 4 luglio 2013, Commissione/Italia, C-312/11, punto 59; dell’11 settembre 2019, DW, C-397/18, punto 64) e la prima pronuncia individua quale possibile adattamento ragionevole la riduzione dell’orario di lavoro.
5.3. Chiarito con esempi non esaustivi il vasto raggio degli accomodamenti ipotizzabili, un limite espresso all’adozione di essi è rinvenibile nella definizione della Convenzione ONU del 2006 – cui rinvia anche la norma dell’ordinamento interno, laddove si specifica che tale accomodamento non deve imporre “un onere sproporzionato o eccessivo”.
L’art. 5 della direttiva europea in materia conferma che il datore di lavoro, è obbligato, salvo che i provvedimenti appropriati richiedano “un onere finanziario sproporzionato”, specificando poi che “tale soluzione non è sproporzionata allorché l’onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili”.
Il considerando 21 chiarisce che “per determinare se le misure in questione danno luogo a oneri finanziari sproporzionati, è necessario tener conto in particolare dei costi finanziari o di altro tipo che esse comportano, delle dimensioni e delle risorse finanziarie dell’organizzazione o dell’impresa e della possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni”.
Detto limite economico è stato già sottolineato da questa Corte(Cass. n. 27243/2018 cit.), richiamando Cass. SS.UU. n. 7755 del 1998 che ha legittimato il rifiuto dell’imprenditore all’assegnazione del lavoratore, divenuto fisicamente inidoneo all’attuale attività, a mansioni diverse, ove comporti “oneri organizzativi eccessivi”, pronuncia a sua volta ispirata dalla giurisprudenza costituzionale dell’epoca sulla “autodeterminazione” della organizzazione interna dell’impresa “in modo che vengano preservati gli equilibri finanziari” (cfr. Corte Cost. n. 78 del 1958; Corte Cost. n. 316 del 1990; Corte Cast. n. 356 del 1993).
5.4. Al limite espresso della “sproporzione” del costo si affianca quello dell’aggettivo che qualifica l’accomodamento come “ragionevole”.
Limite ulteriore perché dotato di autonoma valenza letterale, atteso che se l’unica ragione per esonerare il datore di lavoro dal porre in essere l’adattamento, fosse l’onere “sproporzionato”, allora non sarebbe stato necessario aggiungere il “ragionevole”.
Infatti, se può sostenersi che ogni costo sproporzionato, inteso nella sua accezione più ampia di “eccessivo” rispetto alle dimensioni ed alle risorse finanziarie dell’impresa, renda l’accomodamento di per sé irragionevole, non è necessariamente vero il contrario, perché non può escludersi che, anche in presenza di un costo sostenibile, circostanze di fatto rendano la modifica organizzativa priva , di ragionevolezza, avuto riguardo, ad esempio, all’interesse di altri lavoratori eventualmente coinvolti.
Il criterio della ragionevolezza, tradizionalmente utilizzato nei giudizi di legittimità costituzionale come controllo di razionalità della legge, penetra anche i rapporti contrattuali, quale forma di osservanza del “canone di correttezza e buona fede che presidia ogni rapporto obbligatorio contrattuale ai sensi degli artt. 175 e 1375” (cfr. Cass. SS.UU. n. 5457 del 2009) e che risulta “immanent all’intero sistema giuridico, in quanto riconducibile al dovere di solidarietà fondato sull’art. 2 Cost.” (cfr. Cass. SS.UU. n. 15764 del 2011; v. pure Cass. SS.UU. n. 23726 del 2007; cfr. Cass. SS. UU. n. 18128 del 2005), esplicando “la sua rilevanza nell’imporre a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra” (Cass. SS.UU. n. 28056 del 2008).
In particolare, le Sezioni unite civili (sent. n. 4570 del 1996) hanno già da tempo evidenziato che “la verifica di ragionevolezza … è stata sempre imposta dalla giurisprudenza di questa Corte in tutti i casi in cui si debba stabilire una comparazione dei diritti e delle aspettative in materia di lavoro (concorsi, promozioni, licenziamenti collettivi ecc.)” ed “il tramite per un controllo di ragionevolezza sugli atti di autonomia individuale è rappresentato dalle clausole generali di correttezza e buona fede”. 1 Esse “agiscono all’interno del rapporto e consentono al giudice di accertare’ che l’adempimento di un obbligo, contrattualmente assunto o legislativamente imposto, avvenga avendo come punto di riferimento i valori espressi nel rapporto medesimo e nella contrattazione collettiva” (successive conf.: Cass. n. 8296 del 2001; Cass. n. 7752 del 2003; Cass. n. 11429 del 2006; Cass. n. 14322 del 2016).
Se può tuttavia dubitarsi, nonostante talune suggestioni dottrinali,· che, sulla base del diritto vivente (v. Cass. SS.UU. nn. 6030, 6031, 6032, 6033, 6034 del 1993), possa configurarsi nei rapporti di lavoro un obbligo giuridico a valenza generale ,di “ragionevolezza” nell’esercizio dell’attività di impresa, tale da consentire un esteso sindacato giudiziale diretto ed ex post di congruità causale degli atti del datore di lavoro, non è invece discutibile che, laddove il legislatore esplicitamente stabilisca, – come nella specie – che la condotta datoriale debba essere improntata al canone della ragionevolezza, il controllo sia dovuto anche su questo specifico profilo.
Stante la natura indeterminata della clausola di “ragionevolezza” non possono essere dettate, in astratto, prescrizioni cogenti che prescindano dalle circostanze del caso concreto: l’accomodamento infatti postula una interazione fra una persona individuata, con le sue limitazioni funzionali, e lo specifico ambiente di lavoro che la circonda, interazione che, per la sua variabilità, non ammette generalizzazioni. Non a caso anche l’art. 5 della direttiva 2000/78/CE individua i provvedimenti appropriati che il datore di lavoro deve prendere “in funzione delle esigenze delle situazioni concrete”.
Tuttavia dalla connotazione della ragionevolezza come espressione dei più ampi doveri di buona fede e correttezza nei rapporti contrattuali si possono trarre indicazioni metodologiche utili per orientare prima il destinatario della norma ad individuare il comportamento dovuto e poi, eventualmente, il giudice, al fine di misurare l’esattezza dell’adempimento dell’obbligo di accomodamento nella concretezza del caso singolo.
Detta collocazione sistematica consente di fare capo a quella ricca giurisprudenza che identifica la buona fede oggettiva o correttezza come criterio di determinazione della prestazione contrattuale, costituendo fonte di integrazione del comportamento dovuto che impone a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi
dell’altra a prescindere tanto da specifici obblighi contrattuali, quanto dal dovere extracontrattuale del neminem laedere, trovando tale impegno solidaristico il suo limite unicamente nell’interesse proprio del soggetto, tenuto, sulla scorta di una nota dottrina, al compimento di tutti gli atti giuridici e materiali che si rendano necessari alla salvaguardia dell’interesse della controparte nella misura in cui essi non comportino un apprezzabile sacrificio a suo carico (tra le tante: Cass. n. 14605 del 2004; Cass. n. 20399 del 2004; Cass. n. 13345 del 2006; Cass. n. 15669 ,del 4007; Cass. n. 10182 del 2009; Cass. n. 17642 del 2012; da ultimo, con riferimenti, v. Cass. n. 8494 del 2020).
Inoltre la collocazione valorizza il piano esecutivo dell’adempimento dell’obbligo, in una ipotesi inevitabilmente caratterizzata da spazi di indeterminatezza e da margini liberi di azione, in cui il criterio di qualificazione dell’agire ragionevole, quale di comportamento a misura d’uomo, diventa essenziale regola di governo della discrezionalità in executivis.
Infine perché la funzione diretta alla protezione della controparte ed il dovere di ciascun contraente di cooperare alla realizzazione dell’interesse altrui pongono metodologicamente al centro dell’operazione interpretativa l’esigenza di una valutazione comparata di tutti gli interessi in gioco, al fine di un bilanciato contemperamento.
Così pure nel caso degli accomodamenti occorrerà soppesare gli interessi giuridicamente rilevanti delle parti coinvolte: l’interesse del disabile al mantenimento di un lavoro confacente con il suo stato fisico e psichico, in una situazione di oggettiva ed incolpevole difficoltà; poi l’interesse del datore a garantirsi comunque una prestazione lavorativa utile per l’impresa, tenuto conto che l’art. 23 Cost. vieta prestazioni assistenziali, anche a carico del datore di lavoro, se non previste per legge (Cass. SS.UU. n. 7755/1998 cit.) e che la stessa direttiva 2000/78/CE, al suo considerando 17, “non prescrive … il mantenimento dell’occupazione … di un individuo non competente, non capace o non disponibile ad effettuare le funzioni essenziali del lavoro in questione”; non può, infine, aprioristicamente escludersi che la modifica organizzativa coinvolga, in maniera diretta o indiretta, altri lavoratori, sicché ,in tal caso, fermo il limite non valicabile del pregiudizio a situazioni soggettive che assumano la consistenza di diritti soggettivi altrui, occorrerà valutare comparativamente anche l’interesse di costoro.
All’esito di questo complessivo apprezzamento, potrà dirsi ragionevole ogni soluzione organizzativa praticabile che miri a salvaguardare il posto di lavoro del disabile in un’attività che sia utile per l’azienda e che imponga all’imprenditore, oltre che al personale eventualmente coinvolto, un sacrificio che non ecceda i limiti di una tollerabilità considerata accettabile secondo “la comune valutazione sociale” (su tale formula v. Cass. SS.UU. n. 5688 del 1979, che, proprio a proposito dell’integrazione del comportamento dovuto dal datore di lavoro ex art. 1175 c.c., ha ritenuto che quest’ultimo deve “ritenersi vincolato non solo a non frapporre ostacoli alla realizzazione dell’interesse dell’altra parte, ma anche a fare tutto ed esattamente quanto la comune valutazione sociale consideri necessario”).
5.5. L’inadempimento dell’obbligo di accomodamento ragionevole, già inteso da questa Corte – nella giurisprudenza innanzi richiamata – come condizione di legittimità del licenziamento del lavoratore disabile, integra certamente il “difetto di giustificazione” del recesso, cui si riferiscono sia l’art. 18, co. 7, l. n. 300/70 novellato (v. Cass. n. 26675 del 2018), sia l’art. 2 del d. lgs. 23 del 2015, riconoscendo una tutela reintegratoria, sebbene diversificata, anche a prescindere dalla riqualificazione dell’atto come “discriminatorio” che è dibattuta questione la quale, come già precisato in premessa, per ragioni processuali esorbita dal tema della presente decisione.
Illegittimità dell’atto risolutivo che genera una tutela ripristinatoria, coerentemente con gli orientamenti di questa Corte che, pur escludendo in generale che la violazione di obblighi quali la correttezza e la buona fede da parte ,del debitore della prestazione possano determinare l’invalidità dell’atto, giustificando piuttosto una pretesa risarcitoria, non hanno mai dubitato che il legislatore possa isolare specifiche fattispecie comportamentali, elevando la relativa proibizione al rango di norma di validità dell’atto, pur trattandosi di disposizioni particolari non elevabili a principio generale (cfr. Cass. SS.UU. n. 26724 del 2007; v., in precedenza, Cas . SS.UU. n. 9804 del 1993, in tema di conseguenze connesse all’inadempimento delle regole di correttezza e buona fede nei concorsi privati e nelle promozioni).
Questa Corte ha già riconosciuto come la tutela ripristinatoria ex art. 18, comma 4; l. n. 300/1970 novellato, anche nel caso di licenziamento collettivo in violazione della quota di riserva prescritta dall’art. 3 della l. n. 68 del 1999, sia l’opzione interpretativa rispettosa del dettato normativo e conforme alla finalità della disciplina – anche sovranazionale – posta a speciale protezione del disabile (v. Cass. n. 26029 del 2019)
5.6. L’obbligo di accomodamento ragionevole concorre con le discipline specifiche cui si è già fatto cenno.
Così per i soggetti assunti come invalidi ai fini del collocamento obbligatorio, nel caso di aggravamento delle condizioni di salute, il rapporto di lavoro può essere risolto solo nel caso in cui, “anche attuando i possibili adattamenti dell’organizzazione del lavoro, la commissione integrata di cui all’art. 4 della I. n. 104/92 “accerti la definitiva impossibilità di reinserire il disabile all’interno dell’azienda” (art. 10, co. 3, I. n.. 68 d.el 1999).
L’art. 4, co. 4, della stessa legge, per i lavoratori che divengono inabili allo svolgimento delle proprie mansioni in conseguenza di infortunio o malattia, stabilisce che tali eventi “non costituiscono giustificato motivo di licenziamento nel caso in cui essi possano essere adibiti a mansioni equivalenti ovvero, in mancanza, a mansioni inferiori”.
Tale obbligo datoriale di repechage, anche in mansioni inferiori, del dipendente inidoneo alla mansione è stato poi generalizzato dall’art. 42 del d. lgs. n. 81 del 2008, ma già vigeva nel diritto vivente sulla scorta del principio stabilito dalla più volte richiamata sentenza n. 7755 del 1998 delle Sezioni unite di questa Corte.
Evidentemente l’impossibilità di ricollocare il disabile, adibendolo a diverse mansioni comunque compatibili con il suo stato di salute, non esaurisce gli obblighi del datore di lavoro che intenda licenziarlo, perché, laddove ricorrano i presupposti di applicabilità dell’art. 3, co. 3 bis, d. lgs. n. 216 del 2003, dovrà comunque ricercare possibili “accomodamenti ragionevoli” che consentano il mantenimento del posto di lavoro, in una ottica di ottimizzazione delle tutele giustificata dall’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà sociale (art. 2 Cost.), tanto più pregnanti in caso di sostegno a chi versa in condizioni di svantaggio.
6. Delineati i confini dell’obbligo di “accomodamento ragionevole” gravante sul datore di lavoro, possono essere esaminate le conseguenziali regole che ripartiscono gli oneri di allegazione e prova in un giudizio avente ad oggetto una fattispecie, di impugnativa del licenziamento quale quella sottoposta all’esame del Collegio.
Come in ogni ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della L. n. 604 del 1966, l’onere della prova della sussistenza delle giustificazioni nell’esercizio del potere di recesso spetta al datore di lavoro ai sensi dell’art. 5 della stessa legge.
Nella specie il datore di lavoro deve provare la sopravvenuta inidoneità fisica o psichica del lavoratore e l’impossibilità di ricollocare il medesimo in altre posizioni lavorative per l’espletamento di mansioni, eventualmente anche inferiori, compatibili con il suo stato di salute.
Si rammenta che, in generale, in ogni ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sia le ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, sia l’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore rappresentano presupposti di legittimità del recesso (per tutte v. Cass. n. 104 del 2018).
Secondo la più recente giurisprudenza di questa Corte, poi, spetta al datore di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di repechage del dipendente licenziato, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili (Cass. n. 5592 del 2016; Cass. n. 12101 del 2016; Cass. n. 20436 del 2016; Cass . n. 160 del 2017; Cass. n. 9869 del 2017; Cass. n. 24882 del 2017; Cass. n. 27792 del 2017).
Trattandosi di prova negativa, il datore di lavoro ha sostanzialmente l’onere di fornire la prova di fatti e circostanze esistenti, di tipo indiziario o presuntivo, idonei a persuadere il giudice della veridicità di quanto allegato circa l’impossibilità di una collocazione alternativa del lavoratore nel contesto aziendale (ancora Cass. n. 10435/2018 cit .; v. pure sull’utilizzo del metodo presuntivo in materia Cass. n. 23 89 del 2019). Usualmente si prova che nella fase concomitante e successiva al recesso, per un congruo periodo, non sono avvenute nuove assunzioni oppure sono state effettuate per mansioni richiedenti una professionalità non posseduta dal prestatore (v., ad ex., Cass. n. 22417 del 2009; ma pure: Cass. n. 9369 del 1996; Cass. n. 13134 del 2000; Cass. n. 3040 del 2010).
A questi oneri che tradizionalmente gravano sul datore di lavoro, in caso di applicazione dell’art. 3, co. 3 bis, d. lgs. 216 del 2003, si aggiunge quello distinto relativo all’adempimento dell’obbligo di accomodamento ragionevole, pure esso inteso come condizione di legittimità del recesso.
Pertanto, a fronte del lavoratore che deduca e provi di trovarsi in una condizione di limitazione, risultante da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature secondo il diritto dell’Unione europea, quale fonte dell’obbligo datoriale di ricervere soluzioni ragionevoli che potessero evitare il licenziamento causato dalla disabilità, graverà sul datore di lavoro l’onere di provare di aver adempiuto all’obbligo di “accomodamento” ovvero che l’inadempimento sia dovuto a causa non imputabile.
In tale situazione di riparto non è certo sufficiente per il datore semplicemente allegare e provare che non fossero presenti in azienda posti disponibili in cui ricollocare il lavoratore, come si trattasse di un ordinario repechage, così creando una sovrapposizione con la dimostrazione, comunque richiesta, circa l’impossibilità · di adibire il disabile a mansioni equivalenti o inferiori compatibili con il suo stato di salute.
Né spetta al lavoratore, o tanto meno al giudice, , individuare in giudizio quali potessero essere le possibili modifiche organizzative appropriate e ragionevoli idonee a salvaguardare il posto di lavoro, sovvertendo l’onere probatorio e richiedendo una collaborazione nella individuazione degli accomodamenti possibili non prevista neanche per il repechage ordinario in mansioni inferiori, oramai esteso dal recesso per sopravvenuta inidoneità fisica alle ipotesi di soppressione del posto di lavoro per riorganizzazione aziendale (Cass. n. 21579 del 2008; conf. Cass. n. 23698 del 2015; Cass. n. 4509 del 2016; Cass. n. 29099 del 2019; Cass. n. 31520 del 2019).
Le stesse ragioni che hanno spinto questa Corte a rimeditare un risalente orientamento che chiedeva al lavoratore che impugnava il licenziamento l’allegazione dell’esistenza di altri posti nei quali egli potesse essere utilmente ricollocato, ragioni quali (cfr. Cass. n. 5592/2016 cit.) l’inappropriata divaricazione tra oneri di allegazione e prova, l’impossibilità di alterare surrettiziamente l’onere sancito dall’art. 5 l. n. 604/66, il principio di riferibilità o vicinanza della prova di fatti attinenti ad una organizzazione aziendale rispetto alla quale il lavoratore è estraneo, militano nel senso che, anche nella specie, vadano applicati i principi generali che regolano il riparto degli oneri di allegazione e prova nell’adempimento delle obbligazioni così come stabiliti da Cass. SS. UU. n. 13533 del 2001.
Al fine di non sconfinare in forme di responsabilità oggettiva, per verificare l’adempimento o meno dell’obbligo legislativamente imposto dall’art. 3, comma 3 bis, d. lgs. n. 216 del 2003, occorre avere presente il contenuto del comportamento dovuto, così come definito nel paragrafo precedente, e che esso si caratterizza non tanto, in negativo, per il divieto di comportamenti che violano la parità di trattamento, quanto piuttosto per il suo profilo di azione, in positivo, volta alla ricerca di misure organizzative ragionevoli idonee a consentire lo svolgimento di un’attività lavorativa, altrimenti preclusa, a persona con disabilità.
In tale prospettiva, l’onere gravante sul datore di lavoro potrà essere assolto mediante la deduzione del compimento di atti o operazioni strumentali rispetto all’avveramento dell’accomodamento ragionevole, che assumano il rango di fatti secondari di tipo indiziario o presuntivo, i quali possano indurre nel giudicante il convincimento che il datore abbia compiuto uno sforzo diligente ed esigibile per trovare una soluzione organizzativa appropriata che scongiurasse il licenziamento, avuto riguardo a ogni circostanza rilevante nel caso concreto.
Ovviamente il datore di lavoro potrà anche dimostrare che eventuali soluzioni alternative, pur possibili, fossero prive di ragionevolezza, magari perché coinvolgenti altri interessi comparativamente preminenti, ovvero fossero sproporzionate o eccessive, a causa dei costi finanziari o di altro tipo ovvero per le dimensioni e le risorse dell’impresa.
Del resto questa Corte ha già avuto occasione di affermare, peraltro a proposito dell’art. 42, d.lgs. n. 81 del 2008 il quale prevede, come già detto, che il lavoratore divenuto inabile alle mansioni specifiche possa essere assegnato anche a mansioni equivalenti o inferiori, che nell’inciso “ove possibile” si contempera “il conflitto tra diritto alla salute ed al lavoro e quello al libero esercizio dell’impresa, ponendo a carico del datore di lavoro l’obbligo di ricercare – anche in osservanza dei principi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del rapporto – le soluzioni che, nell’ambito del piano organizzativo prescelto, risultino le più convenienti ed idonee ad assicurare il rispetto dei diritti del lavoratore e lo grava, inoltre, dell’onere processuale di dimostrare di avere fatto tutto il possibile, nelle condizioni date, per l’attuazione dei detti diritti” (in termini: Cass. n. 13511 del 2016).
7. Alla stregua delle considerazioni che precedono la sentenza impugnata non merita le censure che le sono mosse, comunque non tali da determinarne la cassazione.
Infatti, come riportato nello storico della lite, nella pronuncia è individuabile una ragione fondante la decisione di per sé sufficiente a sorreggerla, sulla base dei principi innanzi esposti.
Per la Corte territoriale, nel giudizio, il datore di lavoro “si è limitato ad affermare l’impossibilità del repechage del dipendente fisicamente inidoneo secondo gli usuali criteri (statici) vigenti in tema di giustificato motivo oggettivo per soppressione delle mansioni”; in particolare la società – secondo la Corte – aveva solo provato che nella biglietteria l’organigramma non prevedesse ulteriori addetti e analogamente aveva fatto per il possibile reimpiego del lavoratore nelle mansioni di lavaggio autobus o in quelle di verificatore in affiancamento ad altro collega; inoltre nessuna dimostrazione era stata fornita che la destinazione alternativa del lavoratore portatore di handicap “avrebbe imposto un onere finanziario sproporzionato o comunque eccessivo anche con riferimento alla formazione professionale”.
Per quanto detto, ai fini dell’adempimento dell’obbligo previsto dall’art. 3, co. 3 bis, d. lgs. n. 216 del 2003, non era sufficiente per la società allegare e provare che non fossero presenti in azienda posti disponibili in cui ricollocare il lavoratore, sovrapponendo la dimostrazione circa l’impossibilità di adibire il G.V. a mansioni equivalenti o inferiori compatibili con il suo stato di salute con il distinto onere di ricercare altre soluzioni ragionevoli, né tanto meno era sufficiente trincerarsi dietro la mera affermazione che di accomodamenti praticabili non ve ne fossero, lamentando che il lavoratore non ne aveva individuati.
Ancora con i motivi di ricorso parte datoriale insiste che l’azienda era in “condizione di pieno organico” e che “non vi erano posizioni scoperte in organigramma”, come si discutesse solo di una ordinaria violazione dell’obbligo di repechage, mentre non evidenzia alcun atto o operazione strumentale rispetto all’avveramento dell’accomodamento ragionevole che potesse indurre nei giudici del merito il convincimento che fosse stato compiuto quello sforzo diligente ed esigibile per trovare una soluzione organizzativa che evitasse il recesso; anzi, si critica pure quella parte della sentenza impugnata in cui la Corte territoriale, del tutto plausibilmente, ha invece argomentato che la circostanza che l’azienda non si fosse affatto posta “il problema di trovare ragionevoli situazioni per ricollocare” il dipendente emergeva con chiarezza dalla deposizione del medico competente, il quale, come teste, aveva dichiarato di non essere mai stato richiesto dalla società di esprimere valutazioni in ordine al ricollocamento del G.V..
Tanto basta per giustificare il rigetto dell’appello della società da parte della Corte milanese, anche a prescindere dalla successiva valutazione operata circa misure ipotizzabili che coinvolgessero singoli colleghi dell’invalido, e per ogni altro aspetto le censure involgono apprezzamenti di fatto, peraltro conformemente svolti in entrambi i gradi di merito, che non possono essere rivisitati in questa sede di legittimità.
8. Conclusivamente il ricorso deve essere respinto, con le spese che seguono il regime della soccombenza liquidate come da dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 5.500,00, oltre euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e spese generali al 15%.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 20012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio dell’11 novembre 2020.