Barriere architettoniche, Discriminazione indiretta disabilità Cassazione civile sez. III, Sentenza del 13 febbraio 2020, n.3691
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –
Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –
Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –
Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere –
Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 15088/2018 proposto da:
COMUNE DI ………………, in persona del Sindaco pro tempore
B.S., elettivamente domiciliato in ……………, presso lo studio dell’avvocato ANDREA DEL VECCHIO, rappresentato e difeso dall’avvocato ANTONIO MASTRI;
– ricorrente –
contro
G.L., domiciliata ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato
ALESSANDRO GERARDI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1710/2017 della CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositata il 14/11/2017;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/10/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARDINO Alberto, che ha concluso per l’accoglimento del 2 motivo di ricorso;
udito l’Avvocato ANDREA DEL VECCHIO per delega;
udito l’Avvocato ALESSANDRO GERARDI;
Fatto
FATTI DI CAUSA
1. Il Comune ….ricorre, sulla base di due motivi, per la cassazione della sentenza n. 1710/17, del 14 novembre 2017, della Corte di Appello di Ancona, che – accogliendo il gravame esperito da G.L. contro ordinanza resa dal Tribunale di Ancona, sezione distaccata di Jesi, il 26 giugno 2013 – ha ritenuto, in riforma dell’impugnato provvedimento, che la mancata eliminazione delle barriere architettoniche, ostative all’accesso di persone disabili agli uffici e alla sala consiliare del predetto Comune, costituisca discriminazione indiretta, della L. 1 marzo 2006, n. 67, ex art. 2, comma 3, condannando, pertanto, il predetto Comune al risarcimento dei danni, liquidati in via equitativa in Euro 15.000,00.
2. Riferisce, in punto di fatto, l’odierno ricorrente di essere stato convenuto in giudizio da G.L., persona riconosciuta disabile ai sensi della L. 5 febbraio 1992, n. 104, art. 3, comma 3, già consigliere del medesimo Comune di San Paolo di Jesi, la quale si doleva di non poter accedere, autonomamente, agli uffici amministrativi e alla sala consiliare del predetto ente municipale.
In particolare, l’allora attrice lamentava che, in assenza di un ascensore per disabili /o di un servoscala, ella doveva farsi “guidare” e “trasportare” dal personale comunale lungo due rampe di scale, per essere messa su una specie di “trattorino” o “montascale”. Chiedeva, pertanto, che l’adita autorità giudiziaria ordinasse la cessazione immediata del comportamento discriminatorio, condannando il convenuto sia alla pronta realizzazione di un ascensore e/o di un servoscala, o comunque alla realizzazione delle opere ritenute più idonee, sia al risarcimento del danno, da liquidare in via equitativa.
Nell’opposizione del Comune, il Tribunale di Ancona, sezione distaccata di Jesi, rigettava la domanda attorea, viceversa accolta dalla Corte marchigiana, all’esito di gravame esperito dalla G..
Il giudice d’appello, infatti, riteneva integrata la fattispecie della cd. “discriminazione indiretta”, posto, innanzitutto, che la L. n. 67 del 2006, ne ha accolto una nozione che prescinde da ogni volontà o intenzione discriminatoria del soggetto agente. Evidenziava, inoltre, come la presenza del “trattorino” non fosse stata affatto adeguata fino alla (tardiva) realizzazione dell’ascensore per disabili – a consentire il superamento della barriera architettonica. D’altra parte, poi, la circostanza che alla G. non fosse garantito l’accesso alla sala consiliare e agli uffici comunali risultava confermata dalla decisione del Comune di spostare le riunioni del consiglio nella palestra della scuola elementare, proprio per consentire la più agevole partecipazione dell’interessata, salvo poi – una volta preso atto delle sue dimissioni da consigliere – tornare a svolgere le riunioni nella sede istituzionale.
Di qui, pertanto, la condanna del Comune al (solo) risarcimento del danno, essendo “medio tempore” cessata la condotta discriminatoria, attraverso la realizzazione dell’ascensore per disabili.
3. Avverso la sentenza della Corte anconetana ricorre per cassazione il Comune di San Paolo di Jesi, sulla base – come detto di due motivi.
3.1. Il primo motivo deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione e falsa applicazione della L. 1 marzo 2006, n. 67, art. 2; L. 9 gennaio 1989, n. 13, art. 1; D.M. 14 giugno 1989, n. 236, art. 1; L. 5 febbraio 1992, n. 104, art. 24; D.P.R. 24 luglio 1996, n. 503, art. 1 e del D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150, art. 28.
Nel premettere che la costruzione del palazzo municipale risale ai primi anni ’50 del secolo scorso, il ricorrente nega che sussistano, nella specie, i presupposti per ritenere integrata una discriminazione indiretta.
Difatti, la L. n. 13 del 1999, art. 1, dettata per il superamento delle barriere architettoniche, si applica solo ai “progetti di nuovi edifici”, ovvero alla “ristrutturazione di interi edifici”, come anche specificato dal regolamento di attuazione alla legge stessa, visto che – ai sensi del D.P.R. n. 503 del 1996, art. 1, commi 3, 4 e 5 – le norme suddette si applicano agli edifici e spazi pubblici di nuova costruzione o a quelli esistenti, qualora sottoposti a ristrutturazione. Viceversa agli edifici e spazi pubblici già esistenti, debbono essere solo apportati tutti quegli accorgimenti che possano migliorarne la fruibilità da parte dei disabili, prevedendosi, in particolare, che – in attesa del predetto adeguamento – ogni edificio sia dotato, entro 180 giorni dalla data di entrata in vigore del predetto regolamento di attuazione, di un sistema di chiamata per attivare un servizio di assistenza tale da consentire, alle persone con ridotta capacità motoria o sensoriale, la fruibilità dei servizi espletati.
Orbene, il ricorrente – non senza previamente rilevare come le norme summenzionate abbiano solo natura programmatica – ritiene che tale condizione fosse stata soddisfatta nel caso di specie, in attesa della realizzazione dell’ascensore, attraverso un montascale (definito dalla G. come “trattorino”), del tutto regolamentare, il quale consentiva al disabile di giungere agli spazi di relazione.
Inoltre, sarebbe stato documentato, secondo il ricorrente, come esso si fosse tempestivamente attivato per l’installazione dell’ascensore, ciò che rivelerebbe, allora, l’erroneità della affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, laddove si assume che la condotta posta in essere da esso Comune, benchè non diretta esplicitamente a discriminare o danneggiare, avrebbe comunque integrato un comportamento di omesso adeguamento alla normativa. Di qui, pertanto, l’errata interpretazione della L. n. 67 del 2006,. art. 2.
3.2. Il secondo motivo deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione e falsa applicazione della L. 1 marzo 2006, n. 67, art. 2 e del D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150, art. 28.
Si evidenzia come, nel caso di specie, “palese” sarebbe “la violazione o errata interpretazione della normativa in epigrafe”, laddove la sentenza impugnata “minimizzando la valenza della misura provvisoria assunta (l’installazione del cd. “trattorino”) prescinde del tutto dalla valutazione dell’elemento soggettivo dell’azione del Comune volta al superamento della barriera architettonica”, giacchè l’adozione di tale misura dimostrerebbe l’insussistenza di “una condotta negligente o colposa” o, tantomeno, di “una volontà discriminatoria”.
Quanto, infine, alla violazione del D.Lgs. n. 151 del 2006, art. 28, commi 5 e 6, il ricorrente rileva come la condanna risarcitoria a carico di chi abbia posto in essere la discriminazione indiretta sia puramente facoltativa e che, nella specie, è mancata del tutto quella condotta intenzionalmente discriminatoria che avrebbe potuto giustificare la pesante sanzione risarcitoria comminata (visto che del citato art. 28, comma 6, individua uno dei criteri in base ai quali commisurare l’entità il risarcimento del danno proprio nel fatto che il comportamento discriminatorio costituisca “ritorsione ad una precedente azione giudiziale”, ovvero “una ingiusta reazione ad una precedente attività nel soggetto leso volta ad ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento”), avendo la Corte marchigiana riconosciuto che la condotta di esso Comune non era “diretta esplicitamente a discriminare e danneggiare”.
4. Ha proposto controricorso la G., per resistere all’avversaria impugnazione.
In via preliminare, la controricorrente rileva come il Comune ….non abbia mai eccepito, nel corso del giudizio di appello, che il palazzo municipale risalisse ai primi anni ’50 del secolo scorso, sicchè risulterebbe inammissibile la deduzione per la prima volta, in sede di legittimità, di tale circostanza.
Nel merito, comunque, si assume la non fondatezza del primo motivo di ricorso, visto che, proprio sulla base di quanto stabilito dal D.P.R. n. 503 del 1996, art. 1, comma 4, risulterebbe evidente come l’odierno ricorrente non abbia mai ha apportato gli accorgimenti idonei a migliorare la fruibilità negli uffici comunali e della sala consiliare da parte dei soggetti disabili, dal momento che il cosiddetto “trattorino” non ha mai avuto le caratteristiche tipiche di un montascale regolamentare, come accertato – con apprezzamento di fatto, non sindacabile in questa sede – dalla Corte marchigiana.
Immune da vizi, inoltre, sarebbe la valutazione effettuata dalla sentenza impugnata in ordine alla sussistenza della cd. “discriminazione indiretta”, almeno fino all’avvenuta installazione dell’ascensore, dal momento che a tale fattispecie sono riconducibili anche comportamenti apparentemente neutri, a prescindere dalla presenza di una intenzione o volontà discriminatoria in capo a chi li realizzi.
Inoltre, anche il secondo motivo di ricorso risulterebbe non fondato, poichè la sentenza impugnata non avrebbe affatto “minimizzato” – come ipotizzato dal ricorrente – la valenza della misura provvisoria adottata dal Comune, avendo le risultanze istruttorie confermato che esso non aveva affatto le caratteristiche regolamentari di un “servoscala”, risultando, pertanto, insicuro e non utilizzabile autonomamente da persona disabile.
D’altra parte, nessuna censura potrebbe rivolgersi anche in relazione alle modalità con cui il giudice ha ritenuto di avvalersi del proprio potere discrezionale di liquidare il danno da condotta discriminatoria, trattandosi di potere ad esso riservato in via equitativa, nonchè esercitato attraverso una decisione che risulta sorretta da motivazione immune da vizi logici o errori di diritto.
5. Il ricorrente ha depositato memoria, ex art. 378 c.p.c., insistendo nelle proprie argomentazioni e replicando ai rilievi avversari.
Diritto
RAGIONI DELLA DECISIONE
6. Il ricorso va rigettato.
6.1. In particolare, il primo motivo è in parte non fondato e in parte inammissibile.
6.1.1. La censura è, in particolare, non fondata, laddove pretende di attribuire natura programmatica alle norme che impongono l’eliminazione delle barriere architettoniche.
Giova premettere, al riguardo, come questa Corte abbia già affermato che l’esistenza di “ampia definizione legislativa e regolamentare di barriere architettoniche e di accessibilità rende la normativa sull’obbligo dell’eliminazione delle prime, e sul diritto alla seconda per le persone con disabilità, immediatamente precettiva ed idonea a far ritenere prive di qualsivoglia legittima giustificazione la discriminazione o la situazione di svantaggio in cui si vengano a trovare queste ultime”, consentendo loro “il ricorso alla tutela antidiscriminatoria, quando l’accessibilità sia impedita o limitata” ciò, a prescindere, “dall’esistenza di una norma regolamentare apposita che attribuisca la qualificazione di barriera architettonica ad un determinato stato dei luoghi” (così, in motivazione Cass. Sez. 3, sent. 23 settembre 2016, n. 18762, Rv. 642103-02).
Una conclusione, questa, che appare del tutto in linea con la necessità di assicurare alla normativa suddetta un’interpretazione conforme a Costituzione, se è vero che – come sottolinea la stessa giurisprudenza costituzionale – l’accessibilità “è divenuta una “qualitas” essenziale” perfino “degli edifici privati di nuova costruzione ad uso di civile abitazione, quale conseguenza dell’affermarsi, nella coscienza sociale, del dovere collettivo di rimuovere, preventivamente, ogni possibile ostacolo alla esplicazione dei diritti fondamentali delle persone affette da handicap fisici” (così, Corte Cost., sent. n. 167 del 1999; nello stesso senso, Corte Cost. sent. n. 251 del 2008).
Del pari, si è sottolineato come “il superamento delle barriere architettoniche – tra le quali rientrano, ai sensi del D.P.R. n. 503 del 1996, art. 1, comma 2, lett. b), gli “ostacoli che limitano o impediscono a chiunque la comoda e sicura utilizzazione di spazi, attrezzature o componenti” – è stato previsto (L. n. 118 del 1971, art. 27, comma 1) “per facilitare la vita di relazione” delle persone disabili”, evidenziandosi che tali principi “rispondono all’esigenza di una generale salvaguardia della personalità e dei diritti dei disabili e trovano base costituzionale nella garanzia della dignità della persona e del fondamentale diritto alla salute degli interessati, intesa quest’ultima nel significato, proprio dell’art. 32 Cost., comprensivo anche della salute psichica oltre che fisica” (così, nuovamente, Corte Cost. sent. n. 251 del 2008).
6.1.2. Il motivo è, invece, addirittura inammissibile laddove il ricorrente deduce di aver ottemperato al dovere di apportare all’edificio municipale “tutti quegli accorgimenti che possano migliorarne la fruibilità da parte dei disabili”, attraverso la messa disposizione del “trattorino”, lamentando, così, la violazione, in particolare, del D.P.R. n. 503 del 1996, art. 1, comma 3.
Così prospettata, infatti, la censura fuoriesce dalla portata applicativa dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) e ciò alla stregua del principio secondo cui “il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa” – che è quanto si lamenta nel caso di specie, dal momento che ci si duole del fatto che il “trattorino” non sia stato ritenuto accorgimento idoneo ad migliore la fruibilità dell’edificio municipale in attesa dell’installazione dell’ascensore – “è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità” (da ultimo, “ex multis”, Cass. Sez. 1, ord. 13 ottobre 2017, n. 24155, Rv. 645538-03, nonchè Cass. Sez. 3, ord. 13 marzo 2018, n. 6035, Rv. 648414-01).
Lo stesso è a dirsi della dedotta errata interpretazione della L. n. 67 del 2006, art. 2, giacchè la censura è basata sull’assunto che esso Comune si sarebbe tempestivamente attivato per l’installazione dell’ascensore, ovvero su una valutazione fattuale, preclusa in questa sede, essendo inammissibile il motivo di ricorso per cassazione “con cui si deduca, apparentemente, una violazione di norme di legge mirando, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito” (da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 4 aprile 2017, n. 8758, Rv. 643690-01).
6.2. Il secondo motivo è anch’esso in parte non fondato e in parte inammissibile.
6.2.1. Va, innanzitutto, esaminata la censura secondo cui la sentenza impugnata avrebbe omesso del tutto “la valutazione dell’elemento soggettivo dell’azione del Comune volta al superamento della barriera architettonica”, e ciò minimizzando l’installazione del cd. “trattorino”.
Al riguardo, deve osservarsi – nel ribadire, peraltro, che il riconoscimento del carattere discriminatorio di “una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri” in ogni caso “presuppone la verifica della sussistenza degli elementi soggettivi ed oggettivi dell’illecito aquiliano ai sensi dell’art. 2043 c.c., al quale va ricondotta la fattispecie prevista dalla L. n. 67 del 2006, art. 3, comma 3” (cfr. Cass. Sez. 3, sent. n. 18762 del 2016, cit.) – che tale censura, ancora una volta, finisce con il risolversi nella richiesta di un apprezzamento di fatto sulla idoneità del “trattorino” a garantire l’accessibilità all’edificio municipale, non consentita in questa sede, donde la sua inammissibilità.
6.2.2. Quanto, invece, alla censura che investe la determinazione del risarcimento del danno, va evidenziato – nel senso, questa volta, della non fondatezza – come quello previsto dalla norma in esame sia uno sistema equitativo di liquidazione del danno.
Di conseguenza, trovano applicazione i principi secondo cui “l’esercizio, in concreto, del potere discrezionale conferito al giudice di liquidare il danno in via equitativa non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità”, purchè a condizione – soddisfatta nel caso che occupa – che “la motivazione della decisione dia adeguatamente conto dell’uso di tale facoltà, indicando il processo logico e valutativo seguito” (da ultimo, Cass. Sez. 3, sent. 13 ottobre 2017, n. 24070, Rv. 645831-01; in senso analogo Cass. Sez. 1, sent. 15 marzo 2016, n. 5090, Rv. 639029-01), restando, poi, inteso che “al fine di evitare che la relativa decisione si presenti come arbitraria e sottratta ad ogni controllo”, occorre che il giudice indichi, anche solo “sommariamente e nell’ambito dell’ampio potere discrezionale che gli è proprio, i criteri seguiti per determinare l’entità del danno e gli elementi su cui ha basato la sua decisione in ordine al “quantum” (Cass. Sez. 3, sent. 31 gennaio 2018, n. 2327, Rv. 647590-01), senza però che egli sia “tenuto a fornire una dimostrazione minuziosa e particolareggiata di un univoco e necessario rapporto di consequenzialità di ciascuno degli elementi esaminati e l’ammontare del danno liquidato, essendo sufficiente che il suo accertamento sia scaturito da un esame della situazione processuale globalmente considerata” (Cass. Sez. 3, sent. 10 novembre 2015, n. 22885, Rv. 637822-01).
Nel caso di specie, la Corte marchigiana, nell’operare la quantificazione, ha dichiarato di aver “tenuto conto della destinazione d’uso del fabbricato interessato, della qualifica rivestita all’epoca dall’istante, nonchè del periodo di tempo per il quale si è protratta la situazione di inadempienza dell’ente territoriale”, così indicando i criteri seguiti nella determinazione del “quantum”.
7. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo.
8. A carico del ricorrente sussiste l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.
PQM
La Corte rigetta il ricorso, condannando il Comune ….a rifondere a G.L. le spese del presente giudizio, che liquida in Euro 3.200,00, più Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfetarie nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma ello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, all’esito di udienza pubblica della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 15 ottobre 2019.
Depositato in Cancelleria il 13 febbraio 2020