Licenziamento docente per motivi di disabilità, Tribunale di Milano, sentenza del 13 dicembre 2023

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE DI MILANO

Sezione del lavoro

Il Giudice del lavoro del Tribunale di Milano, Luigi Pazienza, nella prosecuzione del verbale di udienza del 13.12.2023;

visto l’art. 429 c.p.c.

pronunzia la seguente

SENTENZA

nella controversia individuale di lavoro

tra

, rappresentato e difeso dagli Avv.ti F. Douglas Scotti, T. Vaccaro e C. Senape;

e

“MINISTERO DELL’ISTRUZIONE e del MERITO”, in persona del Ministro pro-tempore, nonché Istituto comprensivo “ , rappresentati e difesi dalla prof.ssa Felaco Maria, ai sensi dell’art. 417 bis c.p.c.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con ricorso depositato in data 11.04.2023 ha convenuto in giudizio di fronte al Tribunale di Milano il Ministero dell’Istruzione e del merito e l’Istituto scolastico formulando le seguenti conclusioni:

“Visto l’art. 55-octies d.lgt 165/2001 e relativo reg. att., visto il d.lgt. 216/2003, l’art. 59 d.l. 73/2021, visti i documenti e le deduzioni ed eccezioni di cui al ricorso, visto l’art. 63/2 d.lgt. 165/2011 e l’art. 18 L. 300/70, dichiarare nullo/illegittimo il licenziamento per asserita inidoneità assoluta oggetto del ricorso e per l’effetto disporre la reintegrazione in servizio del ricorrente ricostituendone la posizione giuridica, contrattuale e  sostanziale, con pieno diritto allo svolgimento dell’anno di prova e formazione, salva la proroga di legge, ai fini dell’immissione a ruolo ex art. 59 d.l. 73/2021 e successive modificazioni, con ogni statuizione risarcitoria di legge correlata all’annullamento del licenziamento, con riferimento alla retribuzione globale di fatto che si indica in € 1.972,62 lordo mensili, ovvero disponendo la massima tutela risarcitoria di legge in ipotesi di inapplicabilità della tutela reintegratoria con base mensile quantificata nella retribuzione globale di fatto che si indica in € 1.972,62. In via subordinata nella denegata ipotesi di non accoglimento della domanda di nullità/illegittimità del recesso, ovvero di tutela risarcitoria massima, accertare e dichiarare il diritto del ricorrente al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso che si indica in 2,5 mensilità della retribuzione globale di fatto pari ad € 1.972,62. In ogni caso con vittoria di competenze, spese ed onorari di causa, oltre al rimborso forfettario ed oneri di legge”.

Si sono costituiti in giudizio il Ministero dell’Istruzione e l’Istituto scolastico convenuto chiedendo il rigetto delle domande.

1.In via preliminare va dichiarato il difetto di legittimazione passiva dell’Istituto scolastico resistente, in quanto il datore di lavoro del ricorrente è il Ministero dell’Istruzione e del merito: il dirigente scolastico agisce in qualità di longa manus della Amministrazione centrale con riferimento alla gestione del rapporto di lavoro.

2.Le domande proposte dall’ nei confronti del Ministero resistente sono fondate nei limiti delle argomentazioni che seguono.

E’ necessario innanzitutto illustrare la vicenda così come si desume dai documenti prodotti dalle parti.

Il ricorrente, dopo un intero anno scolastico durante il quale ha goduto della indennità malattia ( 2020-2021), ha stipulato con l’Istituto Comprensivo di Milano un contratto di lavoro a tempo determinato che prevedeva l’incarico di docente di sostegno per diciotto ore settimanali: si trattava di un incarico a tempo determinato dal 08/09/2021 al 31/08/2022 quale periodo di prova e formazione finalizzato all’assunzione a tempo indeterminato ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 59 d.l. 73/2021.

L’istante, mancando poco più di quaranta giorni alla scadenza del comporto, ha richiesto un periodo di aspettativa non retribuita fino al 30 novembre 2021. Il ricorrente ha inoltre formalizzato la sua intenzione di usufruire della malattia in luogo dell’aspettativa dal 01 dicembre 2021 anche sulla base della legislazione di emergenza Covid che escludeva comunque dal comporto il periodo di malattia per i lavoratori “fragili” (cfr nota del 9/11/21 sub doc. 6 del fascicolo del ricorrente). il Dirigente scolastico, nel corso della astensione per malattia del ricorrente e non essendo ancora scaduto il comporto, ha attivato la procedura di convocazione a visita medica per l’accertamento dell’idoneità del docente.

Tra il 26 ed il 30 gennaio 2022 la segreteria scolastica dell’istituto ha ribadito al docente che avrebbe superato il periodo di comporto al 10 febbraio 2022, rilevando che la sua certificazione di malattia prevedeva invece la scadenza al 16 febbraio. In tale occasione il lavoratore ha reiterato la propria richiesta di applicazione delle tutele riservate ai lavoratori fragili, ivi comprese quelle relative al comporto della malattia. (cfr doc. 8 del fascicolo dell’istante). Il successivo 8 febbraio 2022 il docente veniva visitato dalla Commissione medica di verifica che lo giudicava “non idoneo temporaneamente al servizio in modo assoluto fino al 31/03/2022” invitando l’Amministrazione richiedente a fornire documentazione amministrativa e sanitaria aggiornata (cfr copia verbale sub doc. 9 del fascicolo dell’istante). Dal successivo 11 febbraio 2022 il ricorrente ha nuovamente richiesto la aspettativa non retribuita rinnovando la richiesta già espressa di fruire di un ulteriore periodo di malattia non computabile nel comporto quale lavoratore disabile in condizione di gravità, anche in applicazione della normativa emergenziale che equiparava la malattia dei soggetti fragili al ricovero ospedaliero (cfr doc. 10 del fascicolo del ricorrente). Il ricorrente ha reiterato tali richieste altre tre volte senza mai ricevere alcuna risposta da parte del dirigente scolastico (cfr doc. 10). In data 18.05.2022 il Dirigente scolastico ha riscontrato le richieste dell’ limitandosi a sostenere che “….non ci sono i presupposti per soddisfare la sua richiesta” (doc. 11 del fascicolo dell’istante).

L’ è stato convocato il 17 maggio 2022 dalla commissione di verifica, la quale ha giudicato il docente “inidoneo permanentemente in modo assoluto al servizio come dipendente di amministrazione pubblica” precisando che “sussiste assoluta e permanente impossibilità a svolgere qualsiasi attività lavorativa” . La comunicazione del verbale di accertamento precisava che nei dieci giorni successivi avverso il verbale era ammesso ricorso avanti alla Commissione medica di seconda istanza in merito al giudizio riguardante l’idoneità al servizio. Il successivo 23 giugno 2022 il docente trasmetteva via pec il ricorso avverso la decisione della commissione alla competente commissione di seconda istanza, trasmettendone copia all’allora dirigente scolastico dell’Istituto scolastico resistente. Il giorno dopo, ossia in data 24 giugno 2022, il ricorrente riceveva la lettera di “risoluzione del contratto” da parte del dirigente scolastico con la seguente motivazione: “…perché non sussistono più i requisiti di permanenza come dipendente di amministrazione pubblica ed è impedito l’accertamento dei requisiti in sede di valutazione del docente da parte del comitato di valutazione dell’anno di prova e formazione”. La commissione di seconda istanza successivamente confermava la inidoneità con provvedimento del 4/11/2022.

3.Dall’esame dei documenti prodotti si può ben affermare che il ricorrente è stato oggetto di una serie di atti e comportamenti discriminatori.

La tutela contro la discriminazione sulla base della disabilità si fonda sulla direttiva 2000/78/CE, sulla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, che include il motivo della disabilità nell’ambito dell’art. 21 (che sancisce il divieto generale di discriminazioni) e contiene anche una disposizione specifica (art. 26) che riconosce il diritto dei disabili di beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità. La tutela antidiscriminatoria si fonda anche sulla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dall’Italia con legge n. 18/2009 e approvata dall’UE con “Decisione del Consiglio del 26 novembre 2009 relativa alla conclusione, da parte della Comunità europea, della convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità” (2010/48/CE), con la conseguenza che per la Corte di giustizia UE le stesse direttive normative antidiscriminatorie vanno interpretate alla luce della Convenzione.

Con la sentenza 11 aprile 2013 la Corte di Giustizia ha chiarito che la nozione di “handicap” di cui alla direttiva 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretata nel senso che essa include una condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori; che tale limitazione sia di lunga durata e che la natura delle misure che il datore di lavoro deve adottare non è determinante al fine di ritenere che lo stato di salute di una persona sia riconducibile a tale nozione. In tale pronuncia, la CGUE ha sottolineato che la direttiva 2000/78 deve essere oggetto, per quanto possibile, di un’interpretazione conforme alla Convenzione Onu: infatti, la nozione di «handicap» non è definita dalla direttiva 2000/78 stessa. Peraltro, la Convenzione dell’ONU, ratificata dall’Unione europea con decisione del 26 novembre 2009, alla sua lettera e) riconosce che “la disabilità è un concetto in evoluzione e che la disabilità è il risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali ed ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri”. L’articolo 1, secondo comma, di tale Convenzione dispone che sono persone con disabilità “coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su una base di uguaglianza con gli altri”.

Inoltre, dall’articolo 1, secondo comma, della Convenzione dell’ONU risulta che le menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali debbano essere durature. Né risulta che la direttiva 2000/78 miri a coprire unicamente gli handicap congeniti o derivanti da incidenti, escludendo quelli cagionati da una malattia: sarebbe, infatti, in contrasto con la finalità stessa della direttiva in parola, che è quella di realizzare la parità di trattamento, ammettere che essa possa applicarsi in funzione della causa dell’handicap.

Con la sentenza 18 gennaio 2018 la CGUE ha, appunto, affermato che la definizione di discriminazione indiretta contenuta nella direttiva UE osta a una normativa nazionale che consenta il licenziamento di un lavoratore in ragione di assenze intermittenti dal lavoro giustificate e dovute a malattie imputabili alla disabilità di cui soffre il lavoratore, salva verifica di quanto necessario per raggiungere l’obiettivo legittimo di lotta contro l’assenteismo. La Corte ha osservato che un trattamento sfavorevole basato sulla disabilità contrasta con la tutela prevista dalla direttiva 2000/78 unicamente nei limiti in cui costituisca una discriminazione ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 1, della stessa. Infatti, il lavoratore disabile che rientri nell’ambito di applicazione di tale direttiva deve essere tutelato contro qualsiasi discriminazione rispetto a un lavoratore che non vi rientri.

La Corte ha confermato, a tal proposito, la constatazione che un lavoratore disabile è, in linea di principio, maggiormente esposto al rischio di vedersi applicare la normativa in materia di comporto rispetto a un lavoratore non disabile, essendo, rispetto a un lavoratore non disabile, esposto al rischio ulteriore di assenze dovute a una malattia collegata alla sua disabilità, e quindi soggetto a un maggiore rischio di accumulare giorni di assenza per malattia e di raggiungere i limiti massimi di cui alla normativa pertinente. A tale rischio consegue l’idoneità di tale normativa a svantaggiare i lavoratori disabili e, quindi, a comportare una disparità di trattamento indirettamente basata sulla disabilità ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78. La CGUE ha specificato, quanto alle problematiche di morbilità intermittente eccessiva ed ai costi connessi per le imprese, che gli Stati membri dispongono di un ampio margine di discrezionalità non solo ella scelta di perseguire uno scopo determinato in materia di politica sociale e di occupazione, ma altresì nella definizione delle misure atte a realizzarla e che la lotta all’assenteismo sul lavoro può essere riconosciuta come finalità legittima, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2), lettera b), i), della direttiva 2000/78, dal momento che costituisce una misura di politica occupazionale, senza tuttavia ignorare, nella valutazione della proporzionalità dei mezzi, il rischio cui sono soggette le persone disabili, le quali, in generale, incontrano maggiori difficoltà rispetto ai lavoratori non disabili a reinserirsi nel mercato del lavoro e hanno esigenze specifiche connesse alla tutela richiesta dalla loro condizione.

Ciò non significa che un limite massimo in termini di giorni di assenza per malattia del lavoratore disabile non possa o non debba essere fissato. Una simile scelta discrezionale del legislatore o delle parti sociali per quanto di competenza, anche ai fini di combattere fenomeni di assenteismo per eccessiva morbilità, può integrare, come ricordato nelle sentenze della Corte citate, una finalità legittima di politica occupazionale ed in tal senso oggettivamente giustificare determinati criteri o prassi in materia. Tuttavia, tale legittima finalità deve essere attuata con mezzi appropriati e necessari, e quindi proporzionati, mentre la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, proprio in conseguenza della disabilità, trasmuta il criterio apparentemente neutro del computo del periodo di comporto breve in una prassi discriminatoria nei confronti del particolare gruppo sociale protetto in quanto in posizione di particolare svantaggio. La necessaria considerazione dell’interesse protetto dei lavoratori disabili, in bilanciamento con legittima finalità di politica occupazionale, postula, invece, l’applicazione del principio dell’individuazione di soluzioni ragionevoli per assicurare il principio di parità di trattamento dei disabili, garantito dall’art. 5 della direttiva 2000/78/CE (ovvero degli accomodamenti ragionevoli di cui alla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, alla cui luce vanno interpretate le direttive normative antidiscriminatorie UE).

Venendo all’esame del caso che ci occupa, va ricordato che ai sensi dell’art. 19 del contratto collettivo applicato il personale docente ed il personale amministrativo, tecnico e ausiliario assunti a tempo determinato per l’intero anno scolastico o fino al termine delle attività didattiche in caso di malattia hanno diritto alla conservazione del posto per un periodo non superiore a nove mesi in un triennio scolastico.

Non vi è dubbio che lo stato di disabilità del lavoratore ( il ricorrente è affetto da sclerosi multipla) avrebbe consentito allo stesso di usufruire della malattia anche oltre il termine di comporto ordinario, assicurandogli il supporto della retribuzione. Infatti la applicazione allo stesso modo del calcolo del periodo di comporto per un lavoratore disabile ed uno non affetto da disabilità si traduce in una discriminazione. La comunicazione da parte della Amministrazione di applicare all’ il termine previsto per la generalità dei lavoratori, ipotizzando il licenziamento in caso di superamento dello stesso, ha configurato una forma di discriminazione indiretta.

E’ indubbio che lo stato di malattia del lavoratore causato dall’ handicap espone il lavoratore ad un rischio di superamento del comporto notevolmente maggiore rispetto al lavoratore che non è affetto dall’handicap. Indubbiamente il lavoratore con handicap parte da una condizione di sostanziale svantaggio e viene notevolmente penalizzato dall’applicazione del medesimo regime ordinario. Appare evidente che una corretta applicazione della norma sul comporto, nel caso del lavoratore disabile e dello stato di malattia correlato esclusivamente alla disabilità, debba necessariamente comportare la esclusione dal computo del periodo indotto direttamente dall’handicap, assicurando al lavoratore una tutela differenziata e proporzionale alla sua condizione ed evitando di realizzare una discriminazione, seppure indiretta. Peraltro va ricordato che l’effettiva intenzionalità della discriminazione non è elemento costitutivo della stessa, che invece opera e si configura in via oggettiva, in quanto oggettiva è la situazione di svantaggio tutelata. La discriminazione indiretta sussiste indipendentemente dalla conoscenza che l’autore del fatto discriminatorio abbia della condizione di handicap. Nel caso che ci occupa Il lavoratore ricorrente aveva inutilmente richiesto a più riprese di usufruire della malattia, anche invocando la legislazione di emergenza Covid che comunque assicurava la non computabilità ai fini del comporto per i lavoratori disabili e fragili, ma la dirigenza scolastica aveva opposto un rifiuto sostenendo che non vi fossero i presupposti di legge (cfr doc. 11 del fascicolo dell’istante). Non vi è alcun dubbio che l’intero periodo di malattia del ricorrente è riferibile causalmente e direttamente all’handicap e non avrebbe dovuto essere considerato nel periodo di comporto. La applicazione della disciplina ordinaria da parte della Amministrazione scolastica ha sicuramente concretizzato la fattispecie della discriminazione indiretta ex art. 2/1, lett. b) d.lgt. 216/2003.

4. Tale atto di discriminazione indiretta si pone come antecedente con una indubbia efficacia riflessa su una serie di ulteriori atti posti in essere dalla Amministrazione anche in violazione di disposizioni imperative.

Occorre infatti ricordare che il ricorrente era impegnato con il Ministero dell’Istruzione in forza di un contratto a tempo determinato. Nel caso in esame si applica una normativa straordinaria (inizialmente prevista solo per l’a.s. 2021/2022 e successivamente prorogata) diretta allo scorrimento delle graduatorie ed all’immissione in ruolo di docenti di sostegno mediante un contratto a tempo determinato della durata di un anno scolastico, che funge da prova e formazione, seguito da una prova disciplinare, all’esito positivo delle quali il docente è assunto a tempo indeterminato e confermato in ruolo con efficacia ex tunc dalla data di sottoscrizione del contratto. (cfr art. 59 d.l. 25/05/2021 n. 73).

Il ricorrente è stato licenziato in forza di un recesso per inidoneità sopravvenuta alla prestazione, ossia per un recesso per motivo oggettivo.

Orbene l’art. 55-octies d.lgt. 165/2001 attribuisce alla Amministrazione una mera facoltà di intimare una tale tipologia recesso. La norma in questione demanda inoltre al regolamento di attuazione di stabilire, tra gli altri adempimenti, “la procedura da adottare per la verifica dell’idoneità al servizio, anche ad iniziativa dell’amministrazione” (cfr comma 1, lett. a cit art. 55-octies). In ogni caso va osservato che l’art. 55 cit. T.U. pubblico impiego espressamente qualifica “norme imperative” gli artt da 55 a 55 del T.U.

Il regolamento di attuazione è stato effettivamente emanato con il d.p.r. 171/2011. L’art. 3, comma 3, (Presupposti ed iniziativa per l’avvio della procedura di verifica dell’idoneità al servizio) ha così statuito: “La p.a. avvia la procedura per l’accertamento dell’inidoneità psicofisica del dipendente, in qualsiasi momento successivo al superamento del periodo di prova, nei seguenti casi: a) assenza del dipendente per malattia, superato il primo periodo di conservazione del posto previsto nei contratti collettivi di riferimento; b) disturbi del comportamento gravi, evidenti e ripetuti, che fanno fondatamente presumere l’esistenza dell’inidoneità psichica permanente assoluta o relativa al servizio; c) condizioni fisiche che facciano presumere l’inidoneità fisica permanente assoluta o relativa al servizio. Inoltre l’art. 8 di tale D.P.R., “Risoluzione per inidoneità permanente”, prevede che “ nel caso di accertata permanente inidoneità psicofisica assoluta al servizio del dipendente di cui all’articolo 1 comma 1, l’amministrazione previa comunicazione all’interessato entro 30 giorni dal ricevimento del verbale di accertamento medico, risolve il rapporto di lavoro e corrisponde, se dovuta l’indennità sostitutiva del preavviso”.

L’utilizzo del termine “può risolvere il rapporto” contenuto nell’art. 55 octies comma 1 TUPI e l’utilizzo del termine “risolve il rapporto” di cui all’art. 8 del D.P.R. n. 171/11 hanno sollevato dubbi sulla automaticità o meno della risoluzione del rapporto nel caso di accertata inidoneità assoluta e permanente.

La Suprema Corte con la sentenza n. 19774 del 4 ottobre 2016 ha affermato che “in materia di pubblico impiego contrattualizzato, la sopravvenuta e permanente inidoneità psicofisica del lavoratore allo svolgimento delle mansioni assegnate non determina una risoluzione automatica del rapporto di lavoro, ma costituisce giustificato motivo oggettivo di licenziamento, ove lo stesso non possa essere astrattamente impiegato in mansioni diverse; l’art. 55 octies del d.lgs. n. 165 del 2001 attribuisce, infatti, all’amministrazione un diritto potestativo di recesso che le consente in ogni caso di valutare la correttezza del procedimento attraverso il quale la valutazione medica è stata acquisita, l’adeguatezza delle motivazioni addotte, l’opportunità di un’ulteriore integrazione o approfondimento.”

La Cassazione rileva con argomentazioni condivisibili che “in primo luogo, il D. Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, nel determinare all’art. 2 le fonti del rapporto di pubblico impiego privatizzato, indica le “disposizioni del capo 1, titolo 2, del libro 5 del codice civile” (artt. 2082 – 2134 c.c.) ed inoltre le “leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa” fatte salve le diverse disposizioni contenute nello stesso decreto n. 165/2001 “che costituiscono disposizioni a carattere imperativo”. Ne consegue che, in linea generale, la forma tipica del recesso del datore di lavoro è, anche per l’impiego privatizzato, quella del licenziamento, senza che, in difetto di norme speciali, possano trovare ingresso cause di risoluzione automatica del  rapporto. In coerenza con tale premessa, di ordine generale e sistematico, il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 octies, prevede, per il caso di “permanente inidoneità psicofisica” del dipendente, che l’amministrazione di appartenenza “può risolvere il rapporto di lavoro”, in tal modo confermando lo schema della sussistenza di un diritto potestativo di recesso in capo alla medesima, cui si contrappone, peraltro con le previste garanzie sostanziali e processuali, la posizione di soggezione del lavoratore. Nè può consentirsi una diversa lettura della norma primaria sul rilievo che il regolamento di attuazione, di cui al D.P.R. 27 luglio 2011, n. 171, adotti una diversa formulazione normativa, nel senso che, in caso di accertata permanente inidoneità psicofisica assoluta al servizio del dipendente, l’Amministrazione “risolve il rapporto di lavoro”, posto che, al di là di ogni pur assorbente considerazione sul rapporto gerarchico tra le fonti del caso concreto, resta che, anche di fronte ad una inidoneità “assoluta” (ovvero, più esattamente, presentata o emergente come tale), l’amministrazione conserva il diritto di esercitare o meno, senza vincoli di automatismo, il potere che le è attribuito, vagliando, a tutela del proprio interesse, se il procedimento, attraverso il quale la valutazione medica è stata acquisita, corrisponda alle previsioni che presiedono al suo regolare svolgimento, se le sue conclusioni siano adeguatamente motivate o se, invece, non pongano dubbi sulla loro effettiva plausibilità, se non debba ritenersi opportuno un qualche momento di integrazione e di ulteriore approfondimento. D’altra parte, è consolidato l’orientamento, secondo il quale “ai fini dell’accertamento dell’idoneità al servizio dei dipendenti di aziende locali di trasporto pubblico, il parere della Commissione medica di cui al Decreto 23 febbraio 1999, n. 88, art. 1, concernente il controllo dell’idoneità fisica e psicoattitudinale del personale addetto ai servizi pubblici di trasporto, non è vincolante per il giudice di merito adito per l’accertamento della illegittimità del licenziamento disposto a seguito di detto accertamento, avendo egli, anche in riferimento ai principi costituzionali di tutela processuale, il potere di controllare l’attendibilità degli esami sanitari effettuati dalla predetta Commissione, sicchè il datore di lavoro, nel momento in cui opera il licenziamento, agisce, come già argomentato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 420 del 1998, accollandosi il rischio di impresa avente ad oggetto la possibilità che l’Organo giudicante possa giudicare in modo contrario l’idoneità del dipendente (Cass 8 febbraio 2008 n. 3095; conforme Cass. n. 16195/2011)”.

A conforto di tale interpretazione l’art. 3, co. 3 bis, del D. Lgs. 9 luglio 2003, n. 216, attuativo dell’art. 5 della Direttiva 2000/78 CE prevede espressamente l’obbligo di adozione degli “accomodamenti ragionevoli” da parte dei datori di lavoro pubblici e privati, specificando che “ i datori di lavoro pubblici devono provvedere agli accomodamenti ragionevoli senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente”. Allo stato, dunque, il quadro normativo consente di applicare anche nei confronti della Amministrazione i medesimi principi innanzi esaminati, in tema di obblighi e limiti imposti al datore di lavoro, tenuto ad adempiere all’onere probatorio in ordine al repêchage ordinario e rafforzato con riferimento agli “accomodamenti ragionevoli”, cercando sempre, con il criterio della ragionevolezza, un punto di equilibrio fra libertà organizzativa datoriale e diritto del dipendente alla conservazione del posto di lavoro e alla tutela della salute.

In sostanza l’Amministrazione, anche di fronte di un giudizio della Commissione di verifica di inidoneità assoluta e permanente, ha sempre la facoltà di scegliere se risolvere o meno il contratto di lavoro, senza alcuna forma di automatismo, dovendo valutare se il procedimento, attraverso il quale la valutazione medica è stata acquisita, corrisponda alle previsioni che presiedono al suo regolare svolgimento; se le sue conclusioni siano adeguatamente motivate o se, invece, non pongano dubbi sulla loro effettiva plausibilità oppure se sia opportuno una qualche forma di integrazione e di ulteriore approfondimento. In sostanza una interpretazione conforme al diritto comunitario dell’art. 55-octies del TUPI porta necessariamente a ritenere non automatica la risoluzione del rapporto di lavoro in caso di accertata inidoneità assoluta e permanente del lavoratore, dovendo comunque essere compiuta la più ampia valutazione imposta dalla normativa anche europea.

Nel caso di specie appare evidente che manca del tutto il presupposto della sopravvenuta scadenza del periodo di prova che non era decorso al momento del licenziamento. Infatti l’art. 3 del regolamento citato statuisce che “ la p.a. avvia la procedura per l’accertamento dell’inidoneità psicofisica del dipendente, in qualsiasi momento successivo al superamento del periodo di prova …”. La direzione scolastica ha immediatamente avviato alla visita medica di verifica il docente sin dal novembre 2021 senza la necessaria copertura normativa. In disparte l’effetto sospensivo del periodo di prova delle brevi assenze per malattia del docente (che è stato in malattia da dicembre 2021 al 10 febbraio 2022), è pacifico che il ricorrente non abbia svolto nemmeno una giornata di lavoro di un rapporto che invece era strumentale alla sua valutazione in prova nell’arco dell’intero anno scolastico.

Peraltro il dirigente scolastico, nonostante, dopo la seconda visita della commissione del 14/06/22, avesse ricevuto la notifica del ricorso del docente alla commissione di seconda istanza, non ha esitato ad intimare il licenziamento il giorno successivo, ossia il 24.06.2022, mentre era ancora pendente la procedura di accertamento e verifica: la commissione di seconda istanza ha comunicato la propria decisione solo nel novembre successivo (cfr doc. 16 del fascicolo del ricorrente). In questo caso non poteva sicuramente essere considerata definita la procedura amministrativa di verifica ai sensi di legge: il dirigente scolastico ha ugualmente comunicato al ricorrente “…la perdita dei requisiti di permanenza come dipendente della pubblica amministrazione”. Il dirigente dell’Istituto scolastico non solo non si è attivato per cercare una soluzione di buon senso di carattere occupazionale confacente allo stato di salute del ricorrente, ma avrebbe potuto attendere la decisione di secondo grado anche perché il contratto a termine sarebbe scaduto entro due mesi, ossia il 31.08.2022 ed il ricorrente aveva richiesto la aspettativa non retribuita.

E’ evidente che, in condizioni analoghe di posizione lavorativa, una persona senza la disabilità che ha colpito l’ non sarebbe stata trattata allo stesso modo, così venendo direttamente in considerazione il “fattore di rischio” specifico correlato alla disabilità. In altre parole, una persona non affetta da disabilità non sarebbe stata sottoposta alle procedure di verifica di idoneità prima che fossero maturate le condizioni ed i presupposti che la legge prevede, come è invece è avvenuto nel caso del ricorrente. L’ Amministrazione scolastica ha incentrato la sua attenzione sulla disabilità fisica del lavoratore, mentre la caratteristica essenziale e determinante delle mansioni di insegnante di sostegno è prettamente ednesclusivamente cognitiva. Le stesse considerazioni medico-legali contenute nei verbali delle Commissioni, non contengono alcuna valutazione o prognosi negativa rispetto alle capacità cognitive, dando anzi atto che il Prof. risultava “lucido, orientato nel tempo e nello spazio, eutimico” (vale a dire sereno ed in stato di equilibrio mentale). (cfr copia verbali docc. 12 e 16 del fascicolo del ricorrente).

Peraltro dalla documentazione prodotta si evince che il ricorrente è residente a Milano in via Brembo 19, vive da solo e non necessita di alcuna assistenza domiciliare e personale (cfr certificato di residenza e stato di famiglia sub doc. 18 del fascicolo dell’istante); è perfettamente in grado di interagire con terze persone; ha conseguito una laurea al DAMS presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Bologna (votazione 108/110) ed una specializzazione per le attività di sostegno nella Scuola Secondaria di Primo Grado conseguita presso l’Università Bicocca di Milano (votazione 29/30); ha maturato una significativa esperienza in animazioni e laboratori didattici con bambini ed adolescenti; è autore di soggetti per sceneggiature teatrali e musiche originali; è uno studioso della musica popolare e tradizionale, in particolare del Sud Italia ed ha realizzato tra il 2020 ed il 2022 il cartone animato “Malatija” sulla sua esperienza con la malattia che lo ha colpito. Il ricorrente ha il solo problema di muoversi su una sedia a rotelle perché a quaranta anni gli è stata diagnosticata la sclerosi multipla. L’…….. è un docente di sostegno, non un operaio addetto a mansioni esecutive di sforzo. Le mansioni di insegnante di sostegno comportano lo svolgimento, a supporto del “docente di materia” dei compiti di favorire l’integrazione e l’apprendimento degli studenti con disabilità e/o limitazioni, creando un ambiente accogliente ed inclusivo; la redazione di programmazioni individuali e/o di gruppo con indicazione di obiettivi formativi e di apprendimento; il tenere i rapporti con medici e specialisti che abbiano in cura gli alunni con disabilità; il favorire il diretto coinvolgimento degli studenti con disabilità nei gruppi di lavoro e studio, coordinandosi con il docente della materia. Più in generale, l’insegnante di sostegno deve anzitutto avere piena conoscenza dell’ambito pedagogico e della didattica speciale per potersi rapportare proficuamente con gli alunni con disabilità e limitazioni, sapendone riconoscere e valutare le difficoltà e i ritardi nella comprensione.

E’ evidente, dunque, che le mansioni e le competenze richieste ad un insegnante di sostegno abbiano una caratterizzazione eminentemente cognitiva. L’insegnante di sostegno, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non si occupa della vestizione e/o svestizione degli alunni disabili, né di assisterli nelle incombenze quotidiane di igiene ed alimentazione, in quanto tali attività sono affidate all’inizio dell’anno ai collaboratori scolastici.

Peraltro in data 04/10/2022 l’ospedale Neurologico Besta di Milano, noto istituto scientifico di rilievo internazionale nelle neuroscienze, ha certificato la piena compatibilità della patologia del ricorrente con lo “svolgimento di attività lavorative di tipo sedentario e che non richiedano impegno fisico prolungato” (cfr certificato Istituto Neurologico Besta sub doc. 20 del fascicolo del ricorrente). Alla stregua di tali dati appare ragionevole la sola esclusione del ricorrente da mansioni che richiedono l’uso degli arti inferiori e/o da tutte quelle attività che comportino intensi sforzi fisici. Non trova, invece, alcuna giustificazione l’esclusione da quelle mansioni che impegnano gli arti superiori e, soprattutto, le facoltà intellettive come quelle di docente di sostegno. Queste ultime, proprio in virtù dell’elevato grado di istruzione dell’ , si ritiene possano essere svolte con assoluta capacità e, soprattutto, con risultati potenzialmente paritari rispetto a soggetti non affetti da sclerosi multipla.

Non risulta peraltro preclusiva all’attività lavorativa la condizione di invalidità civile nella misura del 100%: anche l’eventuale riconoscimento di un’indennità di accompagnamento non precluderebbe, di per sé, la possibilità di svolgere un’occupazione remunerativa: nfatti, pur non essendo in grado di svolgere uno o più atti quotidiani della vita (provvedere, a titolo di esempio, all’approvvigionamento del cibo, all’igiene personale, alla vestizione/svestizione ecc..) il soggetto può in ogni modo svolgere un’attività lavorativa confacente.

In materia di atti e/o comportamenti discriminatori incombe sul lavoratore l’onere di allegare e dimostrare il fattore di rischio e il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe, deducendo al contempo una correlazione significativa tra questi elementi, mentre il datore di lavoro deve dedurre e provare circostanze inequivoche, idonee ad escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della misura litigiosa (Cass. n. 23338/2018, in tema di recesso). Infatti, nei giudizi antidiscriminatori, i criteri di riparto dell’onere probatorio non seguono i canoni ordinari di cui all’art. 2729 c.c., bensì quelli speciali di cui all’art. 4 del d.lgs. 216 del 2003, che non stabiliscono tanto un’inversione dell’onere probatorio, quanto, piuttosto, un’agevolazione del regime probatorio in favore del ricorrente, prevedendo una “presunzione” di discriminazione indiretta per l’ipotesi in cui abbia difficoltà a dimostrare l’esistenza degli atti discriminatori. Ne consegue che il lavoratore deve provare il fattore di rischio, e cioè il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe e non portatori del fattore di rischio, ed il datore di lavoro le circostanze inequivoche, idonee a escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della condotta (Cass. n. 1/2020; cfr. anche, in tema di discriminazione indiretta nei confronti di persone con disabilità, Cass. n. 9870/2022). La discriminazione opera in modo oggettivo ed è irrilevante I’intento soggettivo dell’autore. La discriminazione, diversamente dal motivo illecito, opera obiettivamente, ovvero in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore, quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro (Cass. n. 6575/2016).

Il ricorrente, in sede di interrogatorio libero per il tentativo di conciliazione, ha manifestato una spigliata vivacità intellettiva ed un notevole interesse per il lavoro di docente di sostegno che peraltro svolgeva da circa dieci anni. E’ di tutta evidenza la compatibilità delle complessive condizioni fisiche del lavoratore con l’attività di insegnante di sostegno. Peraltro a fronte di tutti questi rilievi l’intero impianto difensivo del Ministero convenuto si limita alla seguente stentorea affermazione : “dalla ricostruzione di cui sopra risulta evidente l’assoluta correttezza dell’operato dell’Amministrazione e l’assoluta infondatezza del ricorso”. (cfr pag. 6 della memoria difensiva). In sostanza la difesa del Ministero resistente non oppone alcun elemento probatorio alla ricostruzione di parte ricorrente. L’ Amministrazione ha proceduto erroneamente ad una risoluzione automatica del rapporto di lavoro, senza nemmeno adempiere all’onere di un minimo adattamento delle condizioni di lavoro alla situazione di disabilità del suo dipendente. In sostanza il datore di lavoro ha omesso di adottare ogni misura o rimedio, anche ispirati a correttezza e buona fede, idonei ad eliminare od anche solo attenuare la situazione svantaggiosa per il lavoratore, preferendo intimare il recesso per inidoneità basato su una “assoluta inidoneità a svolgere qualunque tipo di attività lavorativa” che non ha alcuna base giustificativa.

Il docente è stato così doppiamente discriminato, dapprima in via indiretta in quanto gli è stata negata la malattia poiché era in via di maturazione il termine di 270 giorni nel triennio previsto dal CCNL: la discriminazione si è concretizzata per effetto della forzata applicazione

della disciplina ordinaria del comporto ad un disabile in condizioni di gravità già certificata rispetto a malattia indotta dalla grave patologia stessa, facendogli così venire a mancare il sostegno economico. Successivamente il ricorrente è stato discriminato in via diretta mediante il licenziamento intimato in ragione della connessione con la patologia documentata, in applicazione di una procedura in violazione di una specifica disposizione normativa, in base ad un accertamento non definitivo e senza aver dato alcuna possibilità al lavoratore di effettuare la prova per la quale era stato assunto.

Per tutte le ragioni evidenziate il licenziamento comminato è nullo in quanto discriminatorio.

5. Nell’esaminare le conseguenze giuridiche di tale vizio del licenziamento, va sottolineato che nella ipotesi contratto di lavoro subordinato a tempo determinato il recesso nullo o illegittimo è fonte soltanto di un obbligo risarcitorio commisurato alle retribuzioni che sarebbero maturate fino alla naturale scadenza del contratto di lavoro a titolo di risarcimento del danno da mancato guadagno subito dal prestatore di lavoro per effetto della decisione unilaterale della propria controparte contrattuale. Si tratta di un principio pacifico nella giurisprudenza di legittimità, la quale ha, infatti, in più occasioni, affermato che “in caso di non giustificato recesso ant tempus del datore di lavoro dal rapporto a tempo determinato, il risarcimento del danno dovuto al lavoratore va commisurato all’entità dei compensi retributivi che lo stesso avrebbe maturato dalla data del recesso sino alla prevista scadenza del contratto” (si vedano, oltre alle sentenze già citate Suprema Corte del 29 ottobre 2013, n. 24335; nello stesso senso v. Cass., 1º giugno 2005, n. 11692; Corte d’Appello di Milano, 4.4.2013). Nel caso di specie, il rapporto di lavoro del ricorrente sarebbe proseguito sino al 31 agosto 2022, scadenza contrattualmente prevista.

Pertanto, il ricorrente non ha diritto alla reintegrazione ed al risarcimento del danno ai sensi dell’art. 63 del decreto legislativo n. 165 del 2001 ( norma applicabile con riferimento al contratto a tempo indeterminato), bensì ha diritto a percepire dal Ministero resistente, a titolo risarcitorio, l’importo complessivo pari alle retribuzioni che avrebbe maturato ove il rapporto di lavoro fosse proseguito sino alla naturale scadenza.

La tutela del lavoratore non si esaurisce, tuttavia, con un rimedio di carattere meramente risarcitorio. Appare, infatti, evidente il diritto del docente a svolgere l’anno di prova e formazione. A tal proposito il comma 8 dell’art. 59 d.l. 25/05/2021 n. 73 statuisce che “… la negativa valutazione del percorso di formazione e prova comporta la reiterazione dell’anno di prova ai sensi dell’articolo 1, comma 119, della legge 13 luglio 2015, n. 107. Il giudizio negativo relativo alla prova disciplinare comporta la decadenza dalla procedura di cui al comma 4 e l’impossibilità di trasformazione a tempo indeterminato del contratto.”. La norma citata fa espressamente salvo il diritto del docente a reiterare per una seconda volta l’anno di prova e formazione in caso di esito negativo dello stesso in sede di primo svolgimento. Orbene nel caso che ci occupa il periodo di prova non è neppure iniziato, perché il lavoratore ha goduto di un periodo di malattia, di un periodo di aspettativa e successivamente è stato licenziato in forza di un recesso discriminatorio. Il ricorrente che al momento dell’assunzione rivestiva la posizione n. 21 in graduatoria con punteggio di 115 (si tratta di un punteggio molto alto) ha il diritto di poter effettuare lo svolgimento del periodo di prova e formazione e di sottoporsi alle relative valutazioni possedendo i titoli e le capacità richieste dalla normativa vigente. Per tali ragioni il rapporto di lavoro va ripristinato e va consentito al lavoratore da parte del Ministero resistente lo svolgimento effettivo di un nuovo anno scolastico di prova e formazione.

Le domande del ricorrente devono essere, pertanto, accolte così come precisato nel dispositivo.

Le spese di lite, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza del Ministero convenuto.

Sussistono, invece, i motivi previsti dalla normativa vigente per la compensazione integrale delle spese di lite tra il ricorrente e l’Istituto scolastico convenuto, in ragione d ella particolarità della questione processuale esaminata.

P.Q.M.

Il Giudice, Luigi Pazienza, definitivamente pronunziando sulle domande proposte da , con ricorso depositato in data 11.04.2023, nei confronti del “Ministero dell’Istruzione e del Merito” e dell’ Istituto comprensivo di Milano, così provvede:

1) dichiara il difetto di legittimazione passiva dell’Istituto scolastico convenuto;

2) dichiara la nullità del recesso impugnato in quanto discriminatorio e, per l’effetto, condanna il Ministero resistente a corrispondere il risarcimento del danno subito dal ricorrente pari alle retribuzioni maturate dal 24.06.2022 al 31.08.2022, oltre agli interessi legali ed alla rivalutazione monetaria, con i limiti di cui all’art. 22, comma 36, della L. 724/1994, dalla data del recesso sino all’effettivo soddisfo;

3)dichiara, altresì, il diritto del ricorrente alla reiterazione del periodo di prova e, per l’effetto, ordina al Ministero resistere di ripristinare il rapporto di lavoro consentendo al ricorrente lo svolgimento di un nuovo anno scolastico di formazione e di prova ai sensi dell’ art. 59 d.l. 25/05/2021 n. 73;

4)condanna il Ministero resistente al pagamento delle spese di lite che liquida in complessivi Euro 8.200,00, oltre IVA, CPA e rimborso delle spese generali nella misura del 15%;

5) compensa integralmente le spese di lite tra il ricorrente e l’Istituto scolastico convenuto.