Discriminazione indiretta disabilità, caregiver familiare, Corte di Cassazione, ordinanza del 20 maggio 2024
REPUBBLICA ITALIANA
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DORONZO Adriana – Presidente
Dott. PANARIELLO Francescopaolo – Consigliere
Dott. CASO Francesco Giuseppe Luigi – Rel. Consigliere
Dott. MICHELINI Gualtiero – Consigliere
Dott. BOGHETICH Elena – Consigliere
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso 20559-2021 proposto da: Sa.Ag., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA (…), presso lo studio dell’avvocato GI.SM., rappresentata e difesa dagli avvocati AN.VE., AN.BU., FR.AN.;
– ricorrente – principale –
contro (…) Srl in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, (…), presso lo studio degli avvocati FA.CO., RO.SA., che la rappresentano e difendono unitamente all’avvocato NI.CO.;
– controricorrente – ricorrente incidentale –
avverso la sentenza n. 4027/2020 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 22/12/2020 R.G.N. 522/2020; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 04/04/2024 dal Consigliere Dott. FRANCESCO GIUSEPPE LUIGI CASO.
FATTI DI CAUSA
1. Con sentenza n. 4569/2019, il Tribunale di Napoli Nord, decidendo sull’impugnativa del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato ad Sa.Ag. dalla (…) Srl in data 21.4.2017, in parziale accoglimento delle domande della lavoratrice istante, dichiarava risolto il rapporto di lavoro tra le parti e condannava la società convenuta al pagamento di venti mensilità dell’ultima retribuzione.
2. Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte d’appello di Napoli rigettava l’appello principale proposto dalla Sa.Ag. contro la sentenza di primo grado; accoglieva l’appello incidentale della società, per quanto di ragione, e, per l’effetto, in parziale riforma della sentenza impugnata, che nel resto confermava, quantificava l’indennità risarcitoria, al cui pagamento la società appellata era stata condannata in primo grado, in quindici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori.
3. Per quanto qui interessa, la Corte territoriale premetteva, tra l’altro, che il primo giudice aveva ritenuto non provato l’obbligo di repechage da parte della datrice di lavoro, e le ragioni delle contrapposte impugnazioni delle parti.
4. Tanto premesso, innanzitutto la Corte riteneva che l’impugnazione della sentenza in ordine alla violazione dell’obbligo di repechage da parte della lavoratrice non appariva sostenuta da alcun interesse, considerato che il primo giudice aveva accolto sul punto la sua domanda.
5. Respingeva anche per il resto l’appello della lavoratrice.
6. Passando ad esaminare l’appello incidentale della società, premetteva che quest’ultima aveva dedotto che l’offerta di trasferimento presso il punto vendita di S stata fatta il 3.3.2017 e poi reiterata in sede di conciliazione presso la DTL di Caserta, nell’aprile 2017; e che, inoltre, essa dimostrava con i LUL che non vi era espletamento di lavoro straordinario, che vi era stato un decremento di una unità, specialista in gastronomia, nella sede di C, Viale C, e, infine, l’assunzione all’Iperion di Via B C di una unità specializzata in gastronomia del pane, “mansione infungibile”, e notava che la società riteneva così di aver assolto il proprio onere probatorio.
7. Osservava la Corte che la società non aveva, però, allegato nulla in ordine alla valutazione della differente posizione soggettiva della Sa.Ag. in quanto titolare dei benefici di cui alla L. n. 104/1992, di cui non aveva assolutamente tenuto conto “formulando per la lavoratrice, in alternativa al licenziamento, la medesima soluzione adottata per gli altri lavoratori, prescindendo completamente dall’ideare o proporre soluzioni alternative e personalizzate, volte a contemperare le legittime esigenze aziendali con il diritto all’assistenza ex art. 33, commi 3 e 5 L. n. 104/92 di cui è portatrice la ricorrente”, come ritenuto dal primo giudice.
7.1. Anzi, secondo la stessa Corte, a ben vedere, su quanto così affermato dal Tribunale si era formato il giudicato – questione rilevabile d’ufficio – che, da solo, era in grado di sorreggere il rigetto dell’appello incidentale quanto alla richiesta formulata in via principale, avendo il primo giudice ritenuto -con affermazione non attinta da alcuna censura – che l’omessa valutazione della particolare posizione soggettiva della lavoratrice rispetto agli altri lavoratori interessati dal processo riorganizzativo, anche in termini di aggravio dei costi di impresa, e la omessa deduzione della esistenza di un “interesse aziendale effettivo urgente”, rendono il recesso illegittimo per violazione dell’obbligo di repechage.
8. Infine, la Corte giudicava fondato l’appello incidentale in riferimento alla quantificazione della indennità risarcitoria, riconosciuta alla lavoratrice, indennità che, per le ragioni esposte, rideterminava in quindici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
9. Avverso tale decisione Sa.Ag. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi.
10. Ha resistito l’intimata società con controricorso, contenente anche ricorso incidentale, a mezzo di tre motivi.
11. La ricorrente ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo del suo ricorso, Sa.Ag. denuncia ex art. 360, n. 3, c.p.c. la “Violazione degli artt. 3 e 33 L. 104/1992, artt. 2103 e 2967 c.c., art. 3, co. 3-bis D.Lgs. 216/2003, artt. 1, 2, 3, 5, 10 e 17 della Direttiva 78/2000/CE, dell’art. 21 CDFUE e dell’art. 18 co. 1 L. 300/1970, in combinato disposto tra di loro”. Deduce di impugnare la sentenza della Corte d’appello “nella parte in cui, sebbene si asseveri che il licenziamento della lavoratrice vada collocato nel contesto di un processo di riorganizzazione e ristrutturazione aziendale teso a ridurre i costi patrimoniali (stante l’andamento negativo della filiale di T presso cui la lavoratrice, caregiver del marito portatore di handicap e disabile, effettuava la propria prestazione di impiegata con mansioni di addetta alla contabilità del settore amministrativo) e seppur asseveri che il datore di lavoro abbia omesso di attuare e provare l’onere di repechage, risulta essere violativa dell’art. 3, co. 3-bis, D.Lgs. 216/2003 e degli artt. 1, 2, 3, 5 e 10 della Direttiva 78/2000/CE, dell’art. 21 CDFUE e dell’art. 18, co. 1, L. 300/1970, ratione temporis applicabile (ante riforma del D.Lgs. 23/2015), atteso che il licenziamento operato, a seguito del rifiuto della lavoratrice avverso il trasferimento comunicato dall’azienda presso la sede operativa di S – N – (pur in presenza di altre due sedi operative e/o filiali, che insistevano in luoghi più prossimi all’effettivo domicilio – cadente nel Comune di T e coincidente con la residenza – del disabile e portatore di handicap, quali le due diverse sedi aziendali di C, indicate e proposte dalla lavoratrice, e suggerite dalla ITL di Ca in sede di procedura conciliativa obbligatoria, oltre che dal G.L. di prime cure) è da ritenersi direttamente discriminatorio (cfr. sentenza della Grande Sezione della CGUE nella causa C-303/06)”.
2. Con il secondo motivo dello stesso ricorso principale, sempre ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., in via gradata, laddove non si ritenga di dover asseverare la sussistenza degli estremi del licenziamento discriminatorio (discriminazione diretta), la lavoratrice censura la sentenza impugnata per “violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 33, L. 104/1992, art. 2103 c.c. e dell’art. 18, commi 4 e 5, L. 300/1970, in combinato disposto tra di loro”, “anche alla luce della sopravvenuta sent. n. 59/2021 della Corte Costituzionale”. Deduce che la stessa sentenza “(come pure quella di primo grado) ha violato la richiamata normativa nella parte in cui, pur accertando la violazione dell’obbligo di repechage (che costituisce elemento di integrazione della validità del motivo di recesso adottato dall’azienda nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo), non ha valorizzato l’illegittimità del trasferimento ed il conseguenziale licenziamento per violazione dell’art. 33, L. 104/92, dell’art. 3, co. 3-bis, D.Lgs. 216/2003 e dell’art. 2103 c.c., ed ha omesso di dare applicazione alla tutela della reintegrazione attenuata (di cui all’art. 18, co. 4 e 7, L. 300/1970)”. Ritiene, dunque, la ricorrente principale che la sentenza impugnata abbia errato nell’applicare, alla fattispecie in esame, il co. 5 dell’art. 18 L. 300/1970, concedendo la mera tutela risarcitoria.
3. Con il primo motivo del ricorso incidentale la (…) Srl denuncia “Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 33 L. n. 104/1992 e 3 L. n. 604/66 in tema di obbligo di repechage (motivo di ricorso ex art. 360, co. 1 n. 3 c.p.c.)”. Impugna il capo della sentenza con cui la Corte di merito ha rigettato il primo motivo di appello incidentale, ritenendo che la (…) non avrebbe sufficientemente assolto al proprio onere probatorio in tema di repechage rispetto alla specifica “posizione soggettiva di Sa.Ag. in quanto titolare dei benefici di cui alla L. n. 104/1992”, statuizione che, per come motivata, giudica in palese contraddizione con altra parte della stessa sentenza.
4. Con il secondo motivo la ricorrente incidentale denuncia “violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2909 c.c. e 324 c.p.c. (motivo di ricorso ex art. 360 co. 1 n. 4 c.p.c.)”. Deduce che erroneamente la Corte di merito aveva affermato che si era formato il giudicato per avere “il primo giudice ritenuto – con affermazione non attinta da alcuna censura – che l’omessa valutazione della particolare posizione soggettiva della lavoratrice rispetto agli altri lavoratori interessati al processo riorganizzativo rispetto agli altri lavoratori interessati al processo riorganizzativo, anche in termini di aggravio dei costi di impresa, e la omessa deduzione della esistenza di un “interesse aziendale effettivo urgente”, che rendono il recesso illegittimo per violazione dell’obbligo di repechage”. Per la ricorrente incidentale, non si era affatto formato il giudicato sulla statuizione del giudice di primo grado, avendo di contro la stessa formato oggetto del proprio appello incidentale; ed in tal senso richiama testualmente i relativi passi del proprio atto d’impugnazione.
5. Con un terzo motivo la ricorrente incidentale denuncia “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (motivo di ricorso ex art. 360 co. 1 n. 5 c.p.c.)”. Secondo la stessa, il capo della sentenza già riportato nel precedente motivo, concernente l’asserito passaggio in giudicato, con cui il giudice di primo grado aveva, a sua volta, accertato il mancato assolvimento dell’obbligo di repechage, è, altresì, censurabile ex art. 360, co. 1 n. 5 c.p.c., e tanto alla luce del tenore letterale del primo motivo di appello incidentale MIDA (nonché conseguentemente delle risultanze istruttorie ivi riepilogate).
6. Il primo motivo del ricorso principale è, per quanto di ragione, fondato.
7. In particolare, la ricorrente assume che: “la Corte di Appello di Napoli, pur riscontrando (al pari del giudice di primo grado) una discriminazione indiretta tra lavoratori direttamente comparabili trattati in maniera diseguale in sede di riorganizzazione e di efficientamento economico-finanziario dell’attività d’impresa”, non ne avrebbe tratto “le dovute conseguenze sul piano delle tutele applicabili” (così a pag. 11 del ricorso).
8. In realtà, la Corte di merito non ha esplicitamente affermato di aver riscontrato una forma di discriminazione indiretta, ma, tornando sul tema dell’obbligo di c.d. repechage, ha preso le mosse dal preliminare rilievo che la relativa verifica di assolvimento di tale obbligo datoriale “in presenza di un dipendente destinatario dei benefici di cui alla L. n. 104/1992, sarà particolarmente pregnante dovendosi accertare rigorosamente che non vi siano posti disponibili in luoghi più vicini al domicilio del soggetto bisognoso di accudimento” (così a pag. 4 della sua sentenza).
9. Si deve allora considerare che questa Corte di recente ha confermato il proprio consolidato orientamento, secondo cui, in tema di licenziamento discriminatorio, in forza dell’attenuazione del regime probatorio ordinario introdotta per effetto del recepimento delle direttive n. 2000/78/CE, n. 2006/54/CE e n. 2000/43/CE, così come interpretate dalla CGUE, incombe sul lavoratore l’onere di allegare e dimostrare il fattore di rischio e il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe, deducendo al contempo una correlazione significativa tra questi elementi, mentre il datore di lavoro deve dedurre e provare circostanze inequivoche, idonee ad escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della misura litigiosa (così da ultimo Cass., sez. lav., 31.3.2023, n. 9095; ed ivi il richiamo ai precedenti di legittimità in senso conforme).
10. Ebbene, nel caso di specie la lavoratrice aveva senz’altro allegato e dimostrato il c.d. fattore di rischio, ossia il dato che il coniuge della lavoratrice era portatore di handicap in situazione di gravità, sicché ella godeva dei relativi benefici ex art. 33 L. n. 104/1992 per assistere lo stesso; così come aveva allegato la presenza di sedi diverse da quelle offerte dalla società con le proposte di trasferimento, più vicine alla residenza del disabile; e tanto i giudici del doppio grado di giudizio di merito non hanno posto in discussione.
11. In proposito, peraltro, occorre porre in luce che la Corte di Giustizia UE ha da tempo affermato che la direttiva del Consiglio 27 novembre 2000, C-2000/78/Ce, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro e, in particolare, i suoi art. 1 e 2, n. 1 e 2, lett. a), devono essere interpretati nel senso che il divieto di discriminazione diretta ivi previsto non è limitato alle sole persone che siano esse stesse disabili. Conseguentemente qualora un datore di lavoro tratti un lavoratore che non sia esso stesso disabile, in modo sfavorevole rispetto al modo in cui è, è stato o sarebbe trattato un altro lavoratore in una situazione analoga, e sia provato che il trattamento sfavorevole di cui tale lavoratore è vittima è causato dalla disabilità del figlio, al quale presta la parte essenziale delle cure di cui quest’ultimo ha bisogno, un siffatto trattamento viola il divieto di discriminazione diretta enunciato al detto art. 2, n. 2, lett. a) (così Corte Giustizia UE, grande sezione, 17.7.2008, n. 303).
E non v’è ragione di non seguire tale impostazione nel nostro ordinamento che ha dato specifica attuazione alla direttiva 2000/78/CE con il D.Lgs. 9.7.2003, n. 216.
In tale ultimo testo normativo, infatti, la condizione di handicap è senz’altro compresa nell’elenco tassativo dei fattori vietati di discriminazione, ma non è declinata (come nella stessa Direttiva cui ha dato attuazione) con precipuo ed esclusivo riferimento alla persona del lavoratore.
E non diverse considerazioni valgono per l’art. 3 L. n. 108/1990 in tema di “Licenziamento discriminatorio” (cui si riferisce l’art. 18, comma primo, L. n. 300/1970, novellato), ed alle previsioni in esso richiamate circa le “ragioni discriminatorie” (ossia, gli artt. 4 L. n. 604/1966 novellato; 13 L. n. 903/1977; e 15 L. n. 300/1970 novellato, in quanto quest’ultimo, al comma secondo, pure menziona espressamente l’handicap, senza riferirlo esclusivamente al lavoratore).
12. Neppure è questionabile che la lavoratrice abbia offerto elementi fattuali -quale il dato incontestato che altri lavoratori sono stati trasferiti e non licenziati e che vi erano sedi della società più vicine alla residenza del disabile – da cui potrebbe desumersi, all’esito di un compiuto giudizio, un trattamento discriminatorio.
13. La Corte di merito, tuttavia, non ha tenuto conto di questi elementi ed ha così mancato di verificare una correlazione significativa fra il suddetto fattore di rischio ed il licenziamento intimato alla lavoratrice, senza in realtà esaminare la fattispecie concreta in chiave di discriminazione diretta (o anche indiretta), essendosi già notato che nella motivazione resa non v’è riferimento espresso a tale nozione legale.
13.1. Piuttosto, la Corte di merito ha dato conferma del processo di riorganizzazione e ristrutturazione allegato dalla società e della specifica situazione della sede di T ove prestava la sua opera la lavoratrice; ed ha considerato che non era “stato imposto alcun trasferimento, ma solo chiesta alla lavoratrice la sua disponibilità al trasferimento”. Ha aggiunto che: “con la proposta la società ha cercato di evitare di procedere alla risoluzione del rapporto, ma, stante il rifiuto e ritenendo di non avere altre possibilità di individuazione di un posto di lavoro consono alla Sa.Ag. ha proceduto al licenziamento. Il non poter essere trasferiti senza il proprio consenso – in conclusione – non comporta la impossibilità di recesso da parte del datore di lavoro, ove non vi siano più le condizioni oggettive per consentire al lavoratore di restare nel suo posto di lavoro, proprio come è accaduto nella presente fattispecie”.
13.2. Nondimeno, la stessa Corte ha poi giudicato non integralmente assolto l’onere probatorio, incombente sulla datrice di lavoro, in ordine all’obbligo di ricollocare altrimenti la lavoratrice.
Come già premesso in narrativa, infatti, a riguardo ha testualmente osservato che la datrice di lavoro: “In realtà non ha, però, allegato nulla in ordine alla valutazione della differente posizione soggettiva di Sa.Ag. in quanto titolare dei benefici di cui alla L. n. 104/1992, di cui non ha assolutamente tenuto conto “formulando per la lavoratrice in alternativa al licenziamento, la medesima soluzione adottata per gli altri lavoratori, prescindendo completamente dall’ideare o proporre soluzioni alternative e personalizzate, volta a contemperare le legittime esigenze aziendali con il diritto all’assistenza e art. 33, commi 3 e 5 L. n. 104/92 di cui è portatrice la ricorrente” (penultima pagina sentenza impugnata)”.
14. La Corte di merito, tuttavia, così decidendo, ha considerato detta “differente posizione soggettiva ” della lavoratrice esclusivamente sul piano dell’obbligo datoriale di reimpiegare altrimenti la stessa, laddove avrebbe dovuto esaminare il caso anzitutto per controllare se, in base a quanto ritenuto dedotto e provato in causa, ricorresse una significativa correlazione tra detta posizione, integrante fattore di rischio nei termini avanti chiariti, e le soluzioni proposte prima di procedere al licenziamento, intimato alla fine solo alla lavoratrice.
15. Parimenti è comunque fondato il secondo motivo del ricorso principale, in ordine alla tutela esclusivamente risarcitoria (c.d. forte) disposta in favore della lavoratrice.
15.1. Tale censura, infatti, dev’essere esaminata in relazione all’attuale assetto normativo dell’art. 18 L. n. 300/1970, come definito dalle sentenze della Corte costituzionale n. 59 del 2021 e n. 125 del 2022.
15.2. In proposito, infatti, occorre ricordare che costituisce principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte quello secondo il quale l’efficacia delle sentenze dichiarative dell’illegittimità costituzionale di una norma di legge, quali quelle che qui vengono in considerazione, non si estende ai soli rapporti già esauriti per formazione del giudicato o per essersi comunque verificato altro evento cui l’ordinamento ricollega il consolidamento del rapporto medesimo, mentre tale efficacia si dispiega pienamente in tutte le altre ipotesi (così, nella motivazione, Cass., sez. lav., 2.12.2022, n. 35496 ed ivi il richiamo ai precedenti in senso conforme).
15.3. Orbene, le richiamate sentenze costituzionali sono intervenute sul precedente quadro normativo relativo alla tutela applicabile in presenza di licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo del quale sia dichiarata la illegittimità “per insussistenza del fatto” alla base dello stesso.
In particolare, la sentenza della Corte costituzionale n. 59 del 2021 ha dichiarato l’illegittimità della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, comma 7, secondo periodo, come modificato dalla L. 28 giugno 2012, n. 92, art. 1, comma 42, lett. b), nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, “può altresì applicare” invece che “applica altresì” – la disciplina di cui al medesimo art. 18, comma 4.
La sentenza costituzionale n. 125/2022, con prospettiva ancor più radicale, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, comma 7, secondo periodo, della L. 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dalla L. 28 giugno 2012, n. 92, art. 1, comma 42, lett. b), limitatamente alla parola “manifesta”.
15.4. Dunque, come già considerato in diverse decisioni di questa Sezione (v. Cass. n. 35496/2022 cit., ma anche in termini id., 11. 11.2022, n. 33341; 20.10.2022, n. 30970), il testo della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 7, quale risultante all’esito degli interventi della Corte costituzionale comporta che in ipotesi di insussistenza del fatto alla base del giustificato motivo oggettivo il giudice deve applicare la tutela di cui all’art. 18 cit. comma 4, quale risultante dalla novella della L. n. 92 del 2012, implicante la reintegra del lavoratore ed il pagamento di un’indennità risarcitoria nei limiti definiti dal comma medesimo.
16. E, per orientamento consolidato di questa Corte, riaffermato anche nel vigore della modifica del testo dell’art. 18 L n. 300 del 1970, introdotta dalla L. n. 92 del 2012, fatto costitutivo del giustificato motivo oggettivo è rappresentato sia dalle ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa sia dall’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore (v. i precedenti richiamati nella motivazione della già cit. Cass. n. 35496/2022, ma anche in termini n. 30950/2022 e n. 33341/2022 pure cit.), e tale ricostruzione è stata avallata dalla Corte costituzionale la quale, nella sentenza n. 125/2022 cit., dopo avere ricordato che è onere del datore di lavoro dimostrare i presupposti legittimanti il licenziamento, alla luce della L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 5 che completa e rafforza, sul versante processuale, la protezione del lavoratore contro i licenziamenti illegittimi, con riferimento al licenziamento intimato per “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa” (L. n. 604 del 1966, art. 3) ha precisato che “Il fatto che è all’origine del licenziamento per giustificato motivo oggettivo include tali ragioni e, in via prioritaria, il nesso causale tra le scelte organizzative del datore di lavoro e il recesso dal contratto, che si configura come extrema ratio, per l’impossibilità di collocare altrove il lavoratore”.
17. Pertanto, in base alle considerazioni che precedono, e come in casi analoghi a quello in esame, la concreta fattispecie di cui è causa, quand’anche non fosse oggettivamente riscontrata una discriminazione diretta in danno della lavoratrice, dovrà essere riesaminata alla luce del mutato quadro normativo (sopravvenuto al deposito della decisione qui impugnata) circa la tutela da riconoscere alla stessa ove resti confermata la mancata dimostrazione dell’assolvimento dell’obbligo datoriale di suo reimpiego.
18. Il secondo ed il terzo motivo del ricorso incidentale esaminabili congiuntamente, sono inammissibili.
18.1. In particolare, i rilievi svolti dalla ricorrente incidentale in tali due motivi circa la formazione di un giudicato (interno) ritenuta dalla Corte di merito non tengono conto che le considerazioni di quest’ultima a riguardo sono da ritenersi in realtà ultronee e, quindi, non espressive di un’ulteriore ed autonoma ratio decidendi.
18.2. Come si è visto, infatti, nell’esaminare il ricorso principale, la Corte di merito era anzitutto per proprio conto giunta alla conclusione che la datrice di lavoro non avesse completamente assolto il proprio onere probatorio circa l’adempimento dell’obbligo di repechage, sia pure condividendo in proposito parte delle valutazioni espresse dal primo giudice. Le ulteriori osservazioni della stessa Corte circa il giudicato interno, non a caso posposte a quelle di merito in punto di onere probatorio non integralmente assolto dalla datrice di lavoro sull’obbligo di reimpiego, devono essere, quindi, intese come svolte ad abundantiam.
E, secondo un consolidato indirizzo di questa Corte, è inammissibile, in sede di legittimità, il motivo di ricorso che censuri un’argomentazione della sentenza impugnata svolta ad abuntantiam, in quanto essa, non costituendo una ratio decidendi della medesima, non spiega alcuna influenza sul dispositivo della stessa e, pertanto, essendo improduttiva di effetti giuridici, la sua impugnazione è priva di interesse (v. ex multis Cass. n. 18429/2022; n. 9474/2022; n. 23418/2020; n. 9298/2020; n. 8676/2009).
18.3. Nota, del resto, il Collegio che la stessa ricorrente incidentale, con il suo primo e principale motivo d’impugnazione, attinge appunto quella che costituisce l’effettiva ratio decidendi dell’impugnata sentenza a riguardo, e, cioè, dove la Corte di merito ha rigettato il primo motivo del suo appello incidentale, ritenendo che la (…) non avrebbe sufficientemente assolto al proprio onere probatorio in tema di repechage.
19. Tale primo motivo, che a sua volta presenta profili d’inammissibilità, è nel suo complesso infondato.
19.1. In particolare, detta censura non può essere presa in considerazione per tutta la parte in cui sollecita in realtà una rivisitazione delle risultanze istruttorie (cfr. pagg. 40-48 del controricorso).
19.2. Inoltre, lo stesso primo motivo, formulato esclusivamente in chiave di violazione o falsa applicazione di norme di diritto sostanziale ex art. 360, comma primo, n. 3), c.p.c., denuncia anche anomalie motivazionali che dovevano essere in ipotesi fatte valere con differente mezzo di ricorso.
20. In ogni caso, come si è visto in particolare nello scrutinare il primo motivo del ricorso principale, nella motivazione dell’impugnata sentenza non è riscontrabile la contraddittorietà intravista dalla ricorrente incidentale; piuttosto l’effettivo momento di crisi del ragionamento decisorio seguito dalla Corte di merito è costituito dall’avere considerato la posizione soggettiva della lavoratrice quale titolare dei benefici di cui alla L. n. 104/1992, esclusivamente dal punto di vista dell’obbligo di repechage.
21. Conclusivamente, rigettato il ricorso incidentale, in accoglimento, per quanto di ragione, del primo e del secondo motivo del ricorso principale, la sentenza impugnata dev’essere cassata con rinvio alla medesima Corte territoriale che, oltre a regolare le spese processuali, comprese quelle di questo giudizio di cassazione, dovrà riesaminare il caso anzitutto verificando se il licenziamento intimato alla lavoratrice integri discriminazione diretta nei suoi confronti, in base ai principi di diritto in precedenza enunciati ai par 9 e 11 di questa motivazione, e, qualora invece confermi soltanto una mancata dimostrazione dell’adempimento dell’obbligo di reimpiego della lavoratrice, dovrà comunque fare applicazione della tutela reintegratoria di cui all’art. 18, comma 4, L. n. 300/1970, in base ai principi richiamati ai par 15.4. e 16 di questa motivazione.
22. La sola ricorrente incidentale è tenuta al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto.
23. Siccome considerati nella motivazione dati relativi alla salute di persona fisica, terza rispetto alle parti, ma legata alla ricorrente, va adottata a riguardo la statuizione specificata in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte accoglie, per quanto di ragione, il primo e il secondo motivo del ricorso principale; rigetta il ricorso incidentale. Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte di appello di Napoli, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso incidentale, a norma del comma 1- bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omessi le generalità e gli altri elementi identificativi della ricorrente principale a norma dell’art. 52 del D.Lgs. n. 196 del 2003, come modificato dal D.Lgs. n. 101 del 2018.
Così deciso in Roma nell’adunanza camerale del 4 aprile 2024.
Depositato in Cancelleria il 20 aprile 2024.