assistenza parente disabile e mancato premio di risultato, discriminazione indiretta, Corte d’Appello di Torino, sentenza del 14 giugno 2022

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE D’APPELLO DI TORINO

SEZIONE LAVORO

Composta da:

Dott. Michele Milani Presidente

Dott. Federico Grillo Pasquarelli Consigliere

Dott. Maurizio Alzetta Consigliere Rel.

ha pronunciato la seguente

S E N T E N Z A

nella causa di lavoro iscritta al n. 286/2023 R.G.L. promossa da: , (c.f. ), (c.f. ), , (c.f. , (c.f. ) e (c.f. ) rappresentati e difesi, in forza di mandato speciale in calce al ricorso introduttivo, dagli avv.ti e e con domicilio eletto presso il loro studio, in ,

Appellanti

CONTRO

p. IVA , con sede in , in persona del responsabile area risorse umane e relazioni industriali, dott. (per atto a rogito del dott. notaio in in data , rep. 205975, racc. 33312 in atti), rappresentata e difesa dagli avv.ti e , presso i quali ha eletto domicilio, in , , come da procura speciale alle liti conferita su supporto cartacei e trasmessa in via telematica in copia autenticata con firma digitale ex art. 83, co. 3, c.p.c., in atti

Appellata

Oggetto: altre ipotesi.

Conclusioni

Per l’appellante: come da ricorso depositato il giorno .

……………………….

Per l’appellato: come da memoria depositata il .

Fatti di causa

Con ricorso in data , , , , e hanno adito il Tribunale di Torino in funzione di giudice del lavoro deducendo:

– di essere dipendenti della titolari della posizione di cui all’art. 33 della L. 104/92 e di aver beneficiato dei relativi permessi in periodi vari;

– di ritenere che le assenze avrebbero dovuto essere equiparate a giorni di lavoro effettivo, utili alla maturazione del Premio di Risultato (abbr. PdR) riconosciuto dalla in base alle intese sindacali del e dell’, nonché ai fini dei passaggi automatici di parametro retributivo di cui all’art. 2, lett. C, par. C.1/1 e C. 2/1 del CCNL ;

-che la non equiparazione alla presenza effettiva della fruizione dei permessi ex L. 104/92 dovesse essere qualificata come espressione di attività discriminatoria e che anche gli accordi successivi del e del in tema di PdR non avessero sanato la discriminazione relativa al trattamento dei permessi ex lege, risultando quindi anch’essi illegittimi.

I ricorrenti hanno inoltre rilevato che l’applicazione dell’art. 2 del CCNL nel senso di escludere che le assenze per assistenza di familiari con handicap o relative a dipendenti portatori di disabilità fossero computate come “periodo effettivo di guida” (a differenza di altre ipotesi di assenza dal servizio per altre diverse specifiche ragioni equiparate alla presenza effettiva) si sarebbe tradotta in una conseguente penalizzazione dei dipendenti disabili e dei dipendenti c.d. caregivers nei ritardi nell’attribuzione del parametro superiore a causa di tale considerazione ( ai sensi dell’art. 2 del CCNL cit., i parametri retributivi 158, 175 e 183, possono essere conseguiti, rispettivamente, dopo 9, 16 e 21 anni di guida effettiva).

Tanto premesso, i ricorrenti hanno chiesto di accertare e dichiarare la natura discriminatoria del comportamento della consistente nel mancato computo delle assenze dovute a causa di assistenza ai malati portatori di handicap o a causa di propria disabilità (ex art. 33 L. 104/1992), al pari dell’effettiva presenza in servizio, nella determinazione del PdR;

-di accertare e dichiarare il loro diritto a che tali assenze siano considerate al pari della effettiva presenza in servizio al fine di computo del premio di risultato, previa ove occorra la declaratoria di nullità, ex art. 15 L. 300/70 ed ex artt. 1418 e 1419 cod.  civ., o la declaratoria di illegittimità o previo annullamento degli artt. 3a) e 3b) dell’Accordo , dell’art. 1, lett. a), b) e c), dell’art. 2 lett. e) ed f), dell’art. 3, lett a) dell’Accordo , dell’art. 1, lett. c) dell’Accordo , dell’art. 5, lett. c), nn. 5 e 6, lett. d), nn. 5 e 6, lett. e), n. 4, lett. f) e g), nn. 5 e 6 dell’Accordo , degli artt. 3 e 4 dell’Accordo , ciascuno nelle parti in cui non equiparano a presenza effettiva le assenze per assistenza ai familiari ex L. 104/1992 e non considerano dette assenze come presenze effettive utili ai fini del premio di risultato e dei passaggi automatici di parametro di cui all’art. 2, lett. c, par. C.1/1 e C.2/1 del CCNL . Hanno chiesto infine di condannare la convenuta al pagamento a ciascun ricorrente le conseguenti differenze retributive dovute, come indicate in ricorso, sul calcolo del PdR, oltre interessi e rivalutazione monetaria.

nel costituirsi in giudizio, ha contestato le argomentazioni svolte dai ricorrenti e chiesto la reiezione del ricorso.

Con ordinanza in data, il Tribunale ha respinto il ricorso.

Gli originari ricorrenti avverso la predetta ordinanza hanno interposto appello, cui ha resistito la

All’udienza del , la causa è stata discussa e decisa come da separato dispositivo riprodotto in calce.

Ragioni della decisione

1. L ‘ordinanza impugnata.

Il Tribunale, ritenuti pacifici i fatti di causa, compreso il contenuto degli accordi sindacali denunciati e peraltro richiamati in parte motiva, ha esaminato il quadro normativo che regola la materia (facendo particolare riferimento alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, quindi alla Dir. 2000/78 e al D. Lgs. di attuazione n. 216/2003), alla luce dell’interpretazione datane dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia (rif. alla sentenza C-303/06) e della Corte di Cassazione, motivando la decisione come, in sintesi, riportato di seguito:

– l’art. 2 della Dir. 2000/78 distingue tra discriminazione diretta e discriminazione indiretta e come, solo con riguardo alla discriminazione indiretta, si ammette la disparità di trattamento qualora la disposizione, criterio o prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari; nel caso di persone portatrici di un particolare handicap, il datore di lavoro o qualsiasi persona o organizzazione cui si applica la direttiva sia obbligato dalla legislazione nazionale ad adottare misure adeguate, conformemente  ai principi di cui all’art. 5, per ovviare agli svantaggi provocati da tale disposizione o prassi;

– ha rilevato come l’art. 5, a garanzia del rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, preveda “soluzioni ragionevoli per i disabili”, ossia l’assunzione di provvedimenti appropriati, da parte del datore di lavoro, al fine di consentire ai disabili di accedere a un lavoro, svolgerlo, o avere una promozione e al fine di dare formazione, salvo “tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere sproporzionato (…)”;

– ha considerato che, nel dare attuazione alla direttiva 2000/78, l’art. 3 bis del D. Lgs. 216/2003 ha disposto che “(…) al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti con disabilità ratificata ai sensi della L. , n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità piena eguaglianza con gli altri lavoratori (…)”;

– ha rilevato che, ai sensi dell’art. 3, co.6, in esame “non costituiscono, comunque, atti di discriminazione ai sensi dell’art. 2 quelle differenze di trattamento che, pur risultando indirettamente discriminatorie, siano giustificate oggettivamente da finalità legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari (…)”;

-ha quindi osservato che Direttiva 2000/78 contiene norme vòlte a considerare in modo specifico le esigenze dei disabili, ma ciò non consente di concludere che il principio di parità di trattamento in essa sancito debba essere interpretato in senso restrittivo dal momento che il sesto “considerando” della Direttiva è diretto a combattere ogni forma di discriminazione e, di conseguenza, se vi è prova di un trattamento sfavorevole di un lavoratore a causa della disabilità del figlio cui presta assistenza, tale trattamento viola il divieto di discriminazione enunciato dall’art. 2, n. 2, lett. a) della Direttiva (rif. GUCE, sent. , 303/06);

– in applicazione di tali principi al caso di specie, il Tribunale ha disatteso la tesi della per la quale le norme di protezione dettate dal D. Lgs. 216/2003 sarebbero poste a tutela esclusiva delle persone disabili e non anche delle persone che prestino assistenza a quelle disabili loro legate in stretti rapporti e ha quindi ritenuto applicabili i principi della sentenza anche alla discriminazione indiretta;

-per il primo giudice, diversamente da quanto affermato dai ricorrenti e dalla Corte Data_13 d’Appello territoriale (CdApp Torino, sentenze 91/2012 e 212/2022), la presunta discriminazione dagli stessi denunciata non rientrerebbe nella discriminazione diretta;

– secondo il Tribunale la fattispecie è riconducibile alla discriminazione indiretta, in ragione del fatto che gli accordi sindacali impugnati valorizzano, nella determinazione del premio aziendale e nella progressione economica di carriera, un criterio apparentemente neutro, ossia quello della presenza in servizio;

– l’assenza può dipendere dalle più disparate cause (malattia, infortunio, aspettative, etc.) e la condotta del datore di lavoro -che valorizza la presenza in servizio ai fini del premio e della progressione economica- non può neppure astrattamente essere qualificata come diretta a penalizzare una specifica categoria protetta di lavoratori;

– i ricorrenti, in conseguenza degli accordi impugnati, non versano – come pretende l’art. 2, lett. b – in “una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone” essendo lo svantaggio obiettivamente contenuto, tanto è vero che la previsione contestata ha trovato il pieno avallo delle organizzazioni sindacali dei lavoratori che hanno sottoscritto l’accordo;

– nel considerare i riflessi economici subìti dai lavoratori ricorrenti in base al computo delle assenze ex L. 104/92, il giudice ha rilevato che, in base ai dati del ricorso, ciascuno di essi avrebbe percepito un minor premio di € 5,32 (parametri 140 e 158) o di € 5,70 (parametri superiori) per ogni giorno di fruizione di permesso ex lege, con l’effetto di perdere (nel caso di fruizione di tre giorni di permesso mensili) le somme di € 17,10 mensili e di € 202,00 su base annuale; in sintesi ciascuno di essi avrebbe percepito un premio annuo pari all’88% di quello pieno -corrispondente a quello che gli sarebbe stato riconosciuto qualora avesse lavorato nei giorni di permesso;

– la previsione del PdR in base alla presenza in servizio è legittima, essendo essa idonea e funzionale allo scopo di premiare la produttività dei lavoratori e di combattere l’assenteismo;

– il criterio adottato ha lo scopo di gratificare maggiormente i lavoratori che più hanno messo a disposizione dell’Azienda le energie lavorative: non vi è quindi discriminazione in ragione della disabilità;

– l’equiparazione delle assenze per fruizione dei permessi ex L. 104/92 alle presenze non sarebbe concepibile per un istituto estensibile a soggetti in origine non beneficiari;

– la circostanza che le OO.SS. e il datore di lavoro abbiano concluso accordi per derogare al criterio della presenza in servizio ai fini dell’attribuzione del PdR non può ritenersi discriminatoria con riguardo ai casi di donazione di sangue e dei permessi sindacali equiparati a presenza effettiva, perché i primi sono soggetti a specifiche norme di legge e i secondi sono giustificati dalle scelte dell’autonomia collettiva diretta a tutelare tutti i lavoratori e i datori di lavoro.

2. I motivi di doglianza.

I lavoratori hanno proposto appello e censurato la sentenza sotto vari profili.

Con il primo motivo, gli appellanti ritengono errata l’affermazione del Tribunale, il quale ha escluso trattarsi di discriminazione diretta sul presupposto che il criterio utilizzato (presenze sul lavoro) utilizzato ai fini del PdR sia neutro. Ritengono tale soluzione in contrasto con gli artt. 3 Cost. e 2 Dir. 2000/78 CE, 2 D. Lgs. 216/2003; 2 L. 18/2009 e 2 L. 67/2006, assumendo esser stato violato, in tal caso, uno specifico fattore di protezione (quello della disabilità) che produce oggettivamente discriminazione: si tratta di discriminazione diretta perché il criterio utilizzato per il PdR non è neutro, avendo le disposizioni pattizie escluso dal computo le assenze dei dipendenti per disabilità.

Con il secondo motivo, gli appellanti lamentano la violazione degli artt. 2 e 3 Cost., 1 e 2 Dir. 2000/78 CE; 1 e 2 D. Lgs. 216/2008, 28, co. 5, D. Lgs. 150/2001, 15, L. 21 delle Carte fondamentali UE, 1, 2, 3, 4, 5, L. 18/2009 di ratifica della Conv. Nazioni Unite 67/2006; affermano come, dalla previa affermazione dell’insussistenza della discriminazione diretta, il Tribunale abbia preso le mosse per verificare se vi sia discriminazione indiretta, ossia se il trattamento deteriore riservato ai lavoratori (portatori di disabilità o caregivers) fosse giustificato da finalità legittima e da mezzi appropriati. Gli appellanti censurano l’argomentazione del primo giudice, per il quale la “particolare situazione di svantaggio” sarebbe misurabile sul piano quantitativo: di contro, la stessa dovrebbe essere intesa in senso qualitativo: lo svantaggio è riferito alla persona che lo subisce e non alla misura; l’avallo di tal svantaggio da parte degli accordi sindacali non può rendere lecito ciò che non è tale.

Con il terzo motivo i lavoratori lamentano la violazione degli artt. 28, co. 5, D. Lgs. 150/2011, 1, 2 e 5 Dir 2000/78 CE; 1, 2, e 3, co. 3 bis, D. Lgs. 216/2003, 3 Cost. e 67/2006 assumendo l’erroneità dell’affermazione del giudice, per il quale “l’equiparazione delle assenze per la fruizione dei permessi alle presenze in servizio” costituirebbe un “accomodamento ragionevole”; previo richiamo alle sentenze di questa Corte (91/2022 e 212/2022), gli appellanti affermano vertersi in un caso di discriminazione diretta, soggetto al limite legale delle discriminazioni vietate, per il quale il trattamento loro riservato ricade in un caso tipizzato di discriminazione; affermano quindi che ciò che la norma contrattuale consente è contra legem e non lascia spazio ad accomodamento ragionevole alcuno, ma solo per la rimozione degli effetti (che si ottiene mediante il pagamento delle differenze retributive).

Con il quarto motivo, gli appellanti criticano l’affermazione per la quale le assenze dovute a donazione del sangue e a permessi sindacali, diversamente dalle assenze per disabilità, sono equiparate alla presenza in servizio dagli accordi sindacali in questione. Secondo l’appellante l’argomento non sarebbe pertinente, essendo privo di valore logico-sistematico nella soluzione della fattispecie, connotata dalla violazione di un fattore tipico della discriminazione (la disabilità), non la donazione del sangue. Le parti sociali, pur potendo stabilire deroghe al criterio della presenza in servizio ai fini del PdR, non possono fissare deroghe determinanti effetti discriminatori.

3. Disamina dei motivi.

I motivi sopra illustrati, essendo tra loro connessi, devono essere trattati in via congiunta.

Val la pena di notare che, come già rilevato da questa Corte (cfr. sentenza , n. 212), le doglianze sollevate con l’appello censurano l’ordinanza del Tribunale affermando vertersi in tema di discriminazione diretta (e non di discriminazione indiretta); rilevano come il principio di non discriminazione operi oggettivamente in ragione dei fattori di protezione tipici, tra i quali non rientra la malattia, mentre la “dimensione collettiva” riconosciuta dal primo giudice alla donazione del sangue e allo svolgimento di attività sindacale (ragioni di assenze che le disposizioni contrattuali equiparano alle presenze in servizio utili ai fini del PdR), non costituisce parametro giuridicamente corretto ai fini dell’accertamento per cui è causa.

Con riguardo al caso della discriminazione indiretta, la difesa degli appellanti afferma che non ha assolto all’onere probatorio, gravante sul datore di lavoro, di dimostrare che la disposizione adottata risponde a un obiettivo legittimo e che i mezzi impiegati sono appropriati e necessari; si deve notare, inoltre, che, così come affermato dal Supremo Collegio (Cfr. Cass. 21810/2021), per verificare se una situazione apparentemente neutra risulti invece discriminatoria nei riguardi di una categoria protetta soccorre il criterio statistico, non utilizzato nella sentenza  impugnata.

L’appellata ha resistito, affermando, in base alle argomentazioni già svolte, che gli accordi sindacali differenziano i lavoratori (premiandoli) in relazione all’effettiva presenza in servizio e che, pertanto, tali accordi non penalizzano gli appellanti; sostiene inoltre che il caso della discriminazione indiretta riguarderebbe soltanto i disabili e non anche i “caregivers”, così come anche desumibile (a suo dire) dalla sentenza della Corte di Giustizia che, nell’esaminare una situazione di discriminazione indiretta, ha comparato la situazione di due lavoratrici abili, tra le quali una era madre di un minore disabile; -che il datore di lavoro del “caregiver” non è tenuto a sostenere oneri economici ulteriori e diversi da quelli insiti nel dover sopportare l’assenza dal servizio del lavoratore-caregiver in coincidenza con le giornate di permesso dedicate al familiare disabile (che è e rimane soggetto terzo rispetto al rapporto di lavoro con il caregiver) e che l’equiparazione dell’assenza dal lavoro alla presenza in servizio varrebbe a riconoscere un trattamento di maggior favore al lavoratore assente e una speculare penalizzazione al dipendente che ha prestato servizio.

Sulla base delle ragioni di seguito illustrate, il Collegio ritiene condivisibile l’appello, in continuità con i precedenti di questa Corte aventi ad oggetto i medesimi accordi sindacali dedotti in causa, in relazione al mancato computo, da parte dell’odierna appellata, delle assenze dovute a causa di gravidanza, maternità, congedi parentali e permessi per malattia dei figli (Cfr. sent. 937/2017), nonché al mancato computo delle assenze dovute a causa di assistenza ai malati portatori di handicap o a causa della propria disabilità, ai sensi dell’art. 33 della L. 104/92 (sent. n. 91/2021 e 212/2022).

In linea di fatto è pacifico che:

– tutti i ricorrenti fruiscono dei permessi in questione non per sé, ma per un familiare che assistono quali caregivers (assistono il padre , e e la madre, gli altri due, cfr. p. 3 ricorso);

– il sistema contrattuale utilizza un meccanismo premiale delle presenze in servizio, valorizzate in funzione dell’attribuzione percentuale di una quota variabile del premio di risultato e del passaggio automatico da un parametro stipendiale a quello successivo (di importo più elevato) e di contemporanea penalizzazione delle assenze dal servizio, cui consegue il duplice effetto di assegnare una percentuale della quota variabile del premio di risultato via via decrescente all’aumentare delle assenze e di rallentare nel tempo il passaggio al parametro stipendiale dello scaglione successivo (che importa un aumento dello stipendio in capo a chi ne ottiene il riconoscimento);

– tale sistema è stato adottato con lo scopo di dissuadere l’assenteismo (e di premiare al contempo i dipendenti che, nel corso del periodo di riferimento, non siano rimasti assenti dal lavoro o che, tuttalpiù, abbiano effettuato un modesto numero di assenze dal lavoro) ed esso comporta anche un abbattimento del premio di risultato per i lavoratori che usufruiscono dei permessi ex L. 104/92, nel caso di specie determinato negli importi quantificati dai lavoratori ricorrenti e rimasti incontestati.

La questione posta è quindi se si possa ritenere legittima o meno detta regolamentazione alla luce del principio di non discriminazione, già affermato nella Carta di Nizza e ribadito nella Direttiva 2000/78 (le cui definizioni sono riprese dal D. Lgs. 216/03 senza modifiche di rilievo), secondo il quale è vietata qualsiasi forma di discriminazione diretta o indiretta sulla base di uno dei motivi indicati al suo art. 1 (legati a religione, convinzioni personali, handicap, età e orientamento sessuale).

In base a tale normativa – da intendersi qui integralmente richiamata, essendo la stessa ampiamente riportata nell’ordinanza impugnata –, si configura una discriminazione diretta quando per uno degli specifici fattori di protezione sopra indicati (nella specie, l’handicap, ossia la disabilità), una persona è trattata in modo meno favorevole di quanto sia stata o sarebbe trattata una persona (n.d.r. non associata a uno dei fattori di protezione in questione) in una situazione analoga.

La condotta di discriminazione indiretta ricorre, invece, quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri, possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di un particolare handicap, le persone di una particolare età o di una particolare tendenza sessuale, rispetto ad altre persone, a meno che:

a) la disposizione, il criterio o la prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il loro conseguimento siano appropriati e necessari; b) o che, nel caso di persone portatrici di un particolare handicap, il datore di lavoro o qualsiasi persona od organizzazione a cui si applica la Direttiva sia obbligato dalla legislazione nazionale ad adottare misure adeguate, in conformità ai principi di cui all’art. 51, per ovviare agli svantaggi provocati dalla disposizione, criterio o prassi.

L’ambito di applicazione di detti principi è ampio, in quanto esso si estende alle condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro, alla promozione, all’accesso a tutti i tipi e livelli di orientamento e formazione professionale, alle condizioni di lavoro, comprese quelle relative ai licenziamenti e alle retribuzioni.

Così come affermato dagli appellanti, la normativa che regola la materia vieta di discriminare non una determinata categoria di persone, ma vieta atti di discriminazione correlati ai fattori di protezione (religione, convinzioni personali, disabilità, età e orientamento sessuale della persona), ossia, per quanto interessa, è fatto divieto di ogni forma di discriminazione basata su handicap.

Nella sentenza (punti 47 e seguenti) si è rilevato che “gli obiettivi perseguiti dalla Direttiva – diretti a stabilire un quadro generale per la lotta contro le discriminazioni fondate su uno dei motivi di cui all’art. 1, tra i quali figura la disabilità (al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della disparità di trattamento (…), al pari dell’effetto utile della Direttiva 2000/78 – sarebbero compromessi se un lavoratore che si trovi in una situazione come quella della ricorrente nella causa principale non possa far valere il divieto di discriminazione diretta previsto all’art. 2, n. 2, lett. a), di tale direttiva quando sia stato provato che egli è stato trattato in modo meno favorevole rispetto al modo in cui è, è stato o sarebbe trattato un altro lavoratore in una situazione analoga, a causa della disabilità di suo figlio, e ciò quand’anche non sia esso stesso disabile.

49. Al riguardo, dall’undicesimo ‘considerando’ di detta direttiva risulta che il legislatore comunitario ha altresì ritenuto che la discriminazione basata su religione o convinzioni personali, handicap, età o tendenze sessuali possa pregiudicare il conseguimento degli obiettivi del Trattato, in particolare in materia di occupazione.

50. Orbene, anche se in una situazione come quella di cui alla causa principale la persona oggetto di una discriminazione diretta fondata sulla disabilità non è essa stessa disabile, resta comunque il fatto che è proprio la disabilità a costituire, secondo la sig.ra il motivo del trattamento meno favorevole del quale essa afferma essere stata vittima. Come risulta dal punto 38 della presente sentenza, la direttiva 2000/78, che mira, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro, a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sull’handicap, l’età o le tendenze sessuali, si applica non in relazione ad una determinata categoria di persone, bensì sulla scorta dei motivi indicati al suo art. 1.

1 Detta Direttiva prevede all’art. 5, rubricato «Soluzioni ragionevoli per i disabili», quanto segue: «Per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato. (…)».

51. Una volta accertato che un lavoratore che si trovi in una situazione come quella di cui alla causa principale è vittima di una discriminazione diretta fondata sulla disabilità, un’interpretazione della direttiva 2000/78 che ne limiti l’applicazione alle sole persone che siano esse stesse disabili rischierebbe di privare tale direttiva di una parte importante del suo effetto utile e di ridurre la tutela che essa dovrebbe garantire (…)”.

Dai passi della sentenza sopra indicati, appare del tutto evidente come la qualificazione della discriminazione diretta per il caso di una persona che la subisca in base alla disabilità del familiare assistito (non propria), sia stata erroneamente disattesa dal primo giudice, che pur aveva richiamato la sentenza in questione.

Infatti, gli argomenti svolti dalla difesa appellata e condivisi nell’impugnata sentenza (che ha qualificato come indiretta la discriminazione) si infrangono contro i principi dettati dalla pronuncia in esame per la quale -giova ribadirlo-, qualora una persona oggetto di discriminazione diretta fondata non sia essa stessa disabile (condizione questa comune a ciascuno dei lavoratori ricorrenti), “resta comunque il fatto che è proprio la disabilità, secondo la signora il motivo del trattamento meno favorevole del quale essa afferma essere stata vittima (…)”; “il fatto che la direttiva 2000/78 contenga disposizioni volte a tener conto specificamente delle esigenze dei disabili non permette di concludere che il principio della disparità di trattamento in essa sancito debba essere interpretato in senso restrittivo, vale a dire nel senso che esso vieterebbe soltanto le discriminazioni dirette fondate sulla disabilità e riguarderebbe esclusivamente le persone che siano esse stesse disabili (…)”.

Infatti, come già evidenziato al punto 50. della sentenza (v. ut supra) la Direttiva 2000/78 “si applica non in relazione ad una determinata categoria di persone, bensì sulla scorta dei motivi indicati al suo art. 1” (ossia agli specifici fattori di protezioni ivi indicati, tra i quali vi è quello della disabilità, oggetto di causa).

Il trattamento meno favorevole del lavoratore abile, rispetto ad altro lavoratore in situazione analoga, per motivi connessi alla disabilità del familiare che il lavoratore assiste, costituisce un vulnus alla tutela garantita della disabilità.

La Corte di Giustizia UE, con la sentenza Law-C-303/06 del (cit.), ha chiaramente affermato che “un siffatto trattamento viola il divieto di discriminazione diretta enunciato dall’art. 2, n.2, lett. a) della Direttiva” (nella specie alla lavoratrice, madre di minore disabile, al rientro del congedo per maternità era stata rifiutata la riammissione nel posto di lavoro sino ad allora occupato, nonché la stessa flessibilità di orario accordata ad altri colleghi genitori di bambini non disabili).

La tesi degli appellanti è quindi conforme alla ratio della tutela della disabilità sottesa alla normativa europea di cui alla Direttiva 2000/78, secondo l’interpretazione data dalla stessa Corte di Giustizia UE e dalla Corte di Cassazione (in termini con riguardo al trasferimento di un lavoratore che assisteva un congiunto portatore di handicap, cfr. Cass. 24015/2017; Id. 22421/2015; e con riguardo ai permessi ex art. 33 L. 104/1992, cfr. Cass. 14187/2017; Id. 2466/2018).

Pur costituendo il PdR un trattamento economico aggiuntivo ispirato dal fine di disincentivare l’assenteismo, non può sostenersi che tale premio sia imprescindibilmente connesso allo svolgimento dell’attività lavorativa in ragione del fatto che il parametro per il calcolo è quello della presenza in servizio (non essendo richiesto il raggiungimento di specifici obiettivi e/o risultati). Infatti, con l’accordo (doc. 5 appellanti) alle giornate di presenza sono equiparate le giornate di assenza per donazione di sangue, permessi sindacali ove non continuativi.

Siccome la normativa contrattuale esclude dal novero dei soggetti equiparati ai presenti i fruitori dei permessi ex L. 104/92 (non diversamente da quanto avviene per i lavoratori assenti per malattia o infortunio), si deve verificare – al fine di stabilire se si verta nella specie in un caso di discriminazione diretta – se il criterio di esclusione possa dirsi inscindibilmente legato alla disabilità, determinando un trattamento meno favorevole fondato sulla disabilità.

Così come già rilevato nella citata sentenza 212/2022 di questa Corte, appare del tutto evidente come la mancata equiparazione dell’assenza alla presenza in servizio per i lavoratori che fruiscono dei permessi ex L. 104/92 operi, senza dubbio, in funzione della disabilità (indefettibile presupposto dei permessi), realizzando per tale via una forma di discriminazione diretta perché fondata sulla disabilità.

Una volta riportata la questione nei corretti termini normativi, ogni altro rilievo circa la “dimensione collettiva” addotta a giustificazione dei permessi sindacali per donazione di emoderivati dalla e ricondotta alla (pretesa) assenza di effetti discriminatori significativi nella sentenza impugnata non incidono sul thema decidendum, costituito dal differente trattamento erogato agli appellanti in quanto basato su handicap e non altro; così come non rileva che i fruitori dei permessi in questione siano penalizzati non diversamente dai lavoratori assenti per malattia o infortunio. 

Nella sentenza impugnata si fa riferimento alle assenze motivate per lo svolgimento di attività sindacale o per la donazione del sangue, ritenendo che la scelta “di privilegiare” queste due categorie “rispetto ai caregivers non comporti alcun effetto discriminatorio se non si prova che solo i fruitori dei permessi ex art. 33 (o altre categorie protette dal D. Lgs. 216/2003) rimangano penalizzati dal criterio adottato”),

Che i lavoratori interessati dal mancato computo delle assenze ex lege 104/1992 (in base al conteggio prodotto, doc. 29) abbiano percepito un minor premio e, quindi, abbiano perso – tenendo fermi i conteggi dei ricorrenti – 17,10 euro al mese e 202,00 euro all’anno è stato chiaramente evidenziato nella sentenza impugnata (p. 8).

La stima del decremento retributivo operata dal primo giudice – nell’ordine del 12% – oltre a non esaurire la questione della misura del “particolare svantaggio” subìto dai caregivers (che si completa nel rallentamento del tempo necessario per conseguire il parametro retributivo di fascia superiore), sposta i termini della questione sul mero piano quantitativo, quando il profilo della tutela sotteso alla normativa eurounitaria dettata dalla Direttiva 2000/78 incentra il tema del “particolare svantaggio” sul piano qualitativo, ossia della lesione dello specifico fattore di protezione della disabilità, considerato dalla predetta Direttiva.

Val la pena di notare che, vertendosi in un caso di discriminazione diretta e non di discriminazione indiretta, al datore di lavoro è inibita la possibilità di provare che l’effetto discriminatorio fosse giustificato adducendo che la disposizione adottata riguardava requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, rispondeva a un fine legittimo e perché i mezzi impiegati per il suo conseguimento erano appropriati e necessari. Di conseguenza, tutti gli argomenti svolti dalla difesa della (in merito alle “soluzioni ragionevoli” di cui all’art. 5 cit.) e sostenuti dall’impugnata sentenza, sul presupposto che si tratti di discriminazione indiretta, non possono trovare accoglimento.

Inoltre, la malattia o l’infortunio, oltre a non essere inclusi quali fattori tipici di protezione di cui all’art. 1 della Direttiva 2000/78, non possono nemmeno essere assimilati, sic et simpliciter, alla nozione di “handicap” che diverge da quella di “malattia” (v. in tal senso, il punto 44 della sentenza CGUE, , C-13/05, EU:C:456 e il punto 75 della sentenza CGUE, . C-335/11 e C-337/11, EU:C:2013:222). Allo stesso modo, come non è assimilabile una patologia legata a una disabilità alla nozione generale di malattia, non può escludersi che, in linea di principio, rispetto a un lavoratore non disabile,quello disabile è esposto al rischio ulteriore di assenze dovute a malattie connesse alla sua disabilità. In sintesi, la situazione degli odierni appellanti (che, quali caregivers, rimangono assenti ex art. 33 L. 104/92) si appalesa chiaramente diversa da quella dei lavoratori che non prestano servizio per malattia o infortunio.

Il Collegio non ritiene, diversamente da quanto propugnato dall’appellata, che la sentenza della Corte CEDU del dalla stessa richiamata, possa condurre a una soluzione diversa da quella condivisa in questa sede, né che una conclusione siffatta possa determinare una sorta di discriminazione alla rovescia, contraria a norme imperative, ossia, che essa possa dar luogo al riconoscimento di un trattamento di maggior favore per chi è assente e una speculare penalizzazione per chi ha lavorato (così come sostenuto dalla difesa della nella memoria di costituzione, p. 24).

Con la suddetta sentenza la CGUE ha rigettato l’istanza proposta da un magistrato donna al fine di vedersi riconoscere l’indennità giudiziaria speciale durante il congedo di maternità obbligatorio, indennità non prevista dall’art. 3, co. 1, L. 27/1981 e introdotta solo a decorrere dall’anno ai sensi dell’art. 1, co. 325, della legge , n. 311. L’ipotesi di discriminazione ricondotta a una disparità sessuale dalla CGUE è stata risolta considerando che anche i magistrati di sesso maschile in congedo straordinario per diversi motivi, non rendendo la prestazione lavorativa, erano esclusi dall’indennità giudiziaria speciale (collegata all’esercizio effettivo delle funzioni giudiziarie) e che era carente la prova circa il reale effetto discriminatorio subìto (essendo stata garantita nel periodo la percezione di un reddito di importo pressoché equivalente a quello della prestazione fondamentale).

Il caso diverge chiaramente dalla fattispecie in esame, in ragione del fatto che il PdR non può dirsi imprescindibilmente connesso allo svolgimento dell’attività lavorativa.

Quanto alla lamentata discriminazione alla rovescia, non si vede come il riconoscimento del diritto azionato dagli appellanti possa conseguire una speculare penalizzazione della restante platea dei lavoratori, in servizio nelle giornate in cui i primi fruiscono dei permessi ex art. 33, L. 104/92. Resta il fatto che, in presenza di un trattamento sfavorevole basato sull’handicap contrario alla tutela prevista dalla Direttiva 2000/78 (sussistente nel caso in esame per le ragioni esposte), “il lavoratore disabile che rientri nella tutela dell’offerta da detta direttiva deve essere protetto contro ogni discriminazione rispetto a un lavoratore che non vi rientri” (cfr., in tal senso, sentenza CGUE, , C -335/11 e C-337/11, EU:C:2013:222, punto 71).

È indubbio come il Supremo Collegio (Cass. SU 4570/1996), nel pronunciare sul principio della parità di trattamento, non abbia mancato di evidenziare il limite legale che deriva dall’autonomia privata dal principio di non discriminazione; l’argomentazione svolta è stata poi ripresa nei successivi arresti giurisprudenziali, nei quali è stato ribadito che: “(…) Nel rapporto di lavoro subordinato di diritto privato non opera il principio di parità di trattamento, né è possibile alcun controllo di ragionevolezza da parte del giudice sugli atti di autonomia, sia collettiva che individuale, sotto il profilo del rispetto delle clausole generali di correttezza e buona fede, che non sono invocabili in caso di eventuale diversità di trattamento non ricadente in alcuna delle ipotesi legali (e tipizzate) di discriminazioni vietate … (Cass. SU 4570/1996; Id. 6030/1993)” (e tra le altre, Cass. 7752/2003).

Nella specie, il sindacato del giudice sugli atti dell’autonomia collettiva è giustificato dal limite legale posto alle discriminazioni vietate, in ragione del fatto che il differente trattamento riservato agli appellanti ricade pienamente in una ipotesi tipizzata di discriminazione, ossia quella correlata alla disabilità.

Anche la giurisprudenza di legittimità più recente ha avuto modo di sostenere la correttezza dell’intervento del giudice in tali casi, osservando che “è ormai principio assunto a diritto vivente, quello secondo cui l’art. 2 della Costituzione, che entra direttamente nel contratto, in combinato disposto con il canone della buona fede, cui attribuisce vis normativa, consente al giudice di intervenire anche in senso modificativo o integrativo dello statuto negoziale, qualora ciò sia necessario per garantire l’equo contemperamento degli interessi delle parti e prevenire o reprimere l’abuso del diritto” (Cass. SU 9140/2016).

Siccome il differente trattamento riservato agli appellanti ricade in un’ipotesi tipizzata di discriminazione, la normativa che la consente deve essere ritenute contra legem.

La condanna risarcitoria ha ad oggetto differenze retributive quantificate mediante un mero calcolo matematico, in base a parametri predeterminati dalle parti contrattuali; di conseguenza resta esclusa ogni valutazione personale o discrezionale dell’organo giudicante. In sintesi, deve affermarsi che il criterio retributivo in esame penalizza gli appellati che, per i familiari disabili, usufruiscono dei permessi ex art. 33 della L. 104/92, rispetto a tutti gli altri lavoratori e che ciò determina una discriminazione diretta, fondata sulla situazione di handicap. 16

Dagli argomenti svolti -che assumono portata assorbente di ogni ulteriore rilievo- deriva l’accoglimento dell’appello.

3. Spese.

Le spese del doppio grado seguono la soccombenza e fanno quindi carico alla .. In applicazione dei parametri di cui al D.M. 55/2014 e s.m.i., tali spese si liquidano tenuto, applicando i parametri medi e tenendo conto del valore della causa (scaglione da fino a € 5.200,00) e dell’attività difensiva svolta (e quindi in base alla sommatoria della debenza che considera il numero delle parti) e quindi, per il primo grado, € 4.259,80 (€ 2.059,00 + 120%) e per il secondo grado € 4.230,60 (€ 1.923,00 + 120%)

P. Q. M.

Visto l’art. 437 c.p.c.,

in accoglimento dell’appello,

dichiara la natura discriminatoria del comportamento della società appellata, consistente nel mancato computo delle assenze dovute a causa di assistenza ai familiari portatori di handicap o a causa della propria condizione di disabilità al pari della effettiva presenza in servizio, nella determinazione del premio di risultato e, per l’effetto, condanna la società appellata a pagare euro 865,26 a , euro 383,04 a , euro 114,00 a euro 239,40 a ed euro 340,86 a , oltre interessi e rivalutazione dalle singole scadenze al saldo, nonché a conteggiare tutti i giorni di permesso ex L. 104/1992 fruiti dagli appellanti ed il congedo straordinario ex art. 42, commi 5 e 5 bis, D. Lgs. 151/2001, come periodi di guida effettiva, al fine dei passaggi automatici di parametro retributivo stabiliti dal CCNL , con ogni conseguenza di carattere economico derivante dal relativo ricalcolo;

condanna l’appellata a rimborsare agli appellanti le spese di entrambi i gradi, liquidate per il primo in euro 4.529,80 e per il presente grado in euro 4.230,60 oltre rimborso forfettario, Iva e Cpa.

Così deciso all’udienza del

Il Consigliere est. Il Presidente

Dott. Maurizio Alzetta Dott. Michele Milani